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“Piranesi”

di Gabriele Ottaviani

Per il suo personale tornaconto… Sì, sì! Era questa la chiave. Era questo il motivo per cui aveva portato qui Matthew Rose Sorensen. L’Altro aveva bisogno di qualcuno – uno schiavo! – che vivesse in questi Saloni e raccogliesse informazioni su di essi. Non osava farlo di persona per paura che la Casa gli facesse dimenticare tutto. Una collera furiosa, bollente cresceva dentro di me. Perché, perché gli avevo detto dell’Inondazione? Se solo avessi saputo tutto questo prima di sapere dell’Inondazione! Allora avrei potuto mantenerla segreta. Avrei potuto aspettare fino a giovedì, arrampicarmi su un Punto Alto, al sicuro dalle Acque, e avrei potuto vederlo Distrutto. Sì! È questo che voglio adesso! Forse non è troppo tardi! Tornerò dall’Altro. Sorriderò e sarò come al solito e lo ingannerò come lui ha ingannato me. Gli dirò che mi sono sbagliato riguardo all’Inondazione. Non c’è nessuna Inondazione in arrivo. Vieni qui giovedì! Vieni al centro esatto di questi Saloni! Ma, ovviamente, l’Altro ha detto che non sarà qui giovedì. Lui non viene mai qui di giovedì. Sarà al sicuro nell’Altro Mondo. Ma non importa! La rabbia mi rende intraprendente! Martedì l’Altro verrà a trovarmi, è uno dei nostri appuntamenti regolari. Lo agguanterò e lo legherò con le reti da pesca. Lo farò con queste mani! Ho due reti da pesca. Sono fatte di un polimero sintetico e molto resistenti. Lo legherò alle Statue del Secondo Salone Sud-Occidentale. Resterà legato per due giorni. E soffrirà le pene dell’inferno sapendo che sta per arrivare l’Inondazione. Forse gli darò dell’acqua da bere. Forse no. Forse gli dirò: «Ben presto avrai moltissima Acqua!». E giovedì lui vedrà le Maree riversarsi dalle Porte e urlerà, e urlerà. E io riderò, e riderò.

Piranesi, Susanna Clarke, Fazi, traduzione di Donatella Rizzati. La letteratura è l’arte di sbirciare nelle case degli altri attraverso i vetri delle finestre da cui filtrano luci, sagome, ombre e riverberi, ma anche di inventare mondi altri, che in verità più sono fantastici e fantasiosi più sono realistici e concreti e parlano al tempo immanente del presente, raccontandolo, mostrandolo, migliorandolo, tessendo l’alfabeto simbolico dell’allegoria della contraddittoria condizione umana: Piranesi è un giovane studioso che vive da sempre nella Casa, esplorandone giorno dopo giorno gli infiniti saloni, appuntandosi ogni mistero che il labirinto, adorno di marmi, custodisce, mentre imponenti scalee vetuste portano invece ai piani dove è troppo pericoloso arrischiarsi, in alto dove dominano nubi densissime e in basso dove improvvise maree possono rivelarsi esiziali: ogni martedì e venerdì Piranesi si incontra, per raccontargli le sue ultime scoperte, con l’Altro, un uomo enigmatico, il solo con cui parla, perché i pochi che sono stati nella Casa prima di lui sono ora soltanto scheletri. D’un tratto però compaiono dei messaggi scarabocchiati sui pavimenti: qualcuno è arrivato nella Casa e sta cercando di mettersi in contatto con Piranesi, che è incuriosito e attratto, mentre l’Altro percepisce l’angoscia della minaccia. Chi sarà? Straordinario.

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“La fortuna di Finch”

di Gabriele Ottaviani

«Be’, potremmo andare a trovarli adesso, se non hai paura di offendere tua zia», propose Finch, assai in apprensione. «Non ho affatto paura», ribatté lei disinvolta, e subito s’incamminò, come se fosse pronta da lungo tempo a quell’incontro. Mentre procedevano tra le ombre del viale alberato, in certi momenti il chiaro di luna illuminava il suo scialle color fiamma rendendolo simile al piumaggio di un uccello esotico. A metà del tragitto le offrì una sigaretta, che lei rifiutò, ma subito dopo cambiò idea. «Sì, grazie, dammene una! Stasera voglio fare tutto quello che offenderebbe la zia». Da come se la mise tra le labbra e la accese dal fiammifero che lui le tendeva, Finch capì che era una fumatrice abituale. La fissò con espressione quasi arcigna perché percepiva in lei qualcosa di subdolo. «E quand’è che fumi?». «Quando sono una talpa», rispose, alzando l’indice affusolato per mostrargli la macchia di nicotina. Trovarono Eden seduto sotto il portico su una sedia inclinata all’indietro, proprio come un operaio che si rilassa alla fine di una giornata di duro lavoro. Li guardò arrivare con un sorriso d’incredulità. Si alzò in piedi. «Ti ho portato nostra cugina, Miss Court. Vuole conoscerti», disse Finch, improvvisamente temerario e a suo agio nella situazione. Che dipendesse da Eden?

Mazo de la Roche, La fortuna di Finch, Fazi, traduzione di Sabina Terziani. La splendida saga di Jalna, Downton Abbey prima di Downton Abbey, continua col terzo volume, in cui è ancora vivissima l’eco dell’ultima beffa di Adeline (e sì, Maggie Smith sarebbe perfetta per il ruolo, ma Maggie Smith è perfetta sempre, sicché il problema non si pone): molti non si sono ancora ripresi del tutto dallo sconcerto determinato dall’apertura del testamento, ma per Finch invece l’accadimento più significativo è il fatto che è sempre più vicino il compimento del ventunesimo anno d’età, un evento che va festeggiato come si deve. E cosa c’è di più bello di un viaggio in transatlantico? Tra il Canada e l’Inghilterra, Eden, Alayne, Renny e tutti gli altri mostrano ancora una volta ai lettori quanto sia ampia la gamma delle emozioni umane… Incantevole.

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“The Good Lord Bird”

di Gabriele Ottaviani

«Notevole», ha borbottato. «Sei una che fa sul serio, sgualdrinella». Ha riempito un’altra volta i bicchieri, stavolta tutti e due fino all’orlo. «Cosa dite, brindiamo alle sofferenze del nostro popolo al Sud, che non è qui a sentire voi che parlate di loro?», gli ho chiesto, perché volevo sbronzarmi sul serio, e il suo whiskey era blando. Lui ha versato un altro giro, e io ho svuotato ancora il bicchiere. «Udite udite», ha detto lui, e poi ha fatto lo stesso, si è ingoiato il suo per la seconda volta, e gli sono venuti gli occhi spenti. Il mio bicchiere ormai era andato, però il sapore incominciava a piacermi. «E perché non brindiamo anche alle bestie, che sono anche loro in schiavitù e soffrono in mezzo a tutto quel caldo e quel freddo, senza sentire la vostra parola su di loro?», ho detto. Lui ha versato e io ho svuotato un’altra volta il bicchiere. Be’, quello l’ha sorpreso, vedermi che buttavo giù così facile tutto quell’alcol. Capite, io avevo imparato a bere nelle praterie del Kansas e del Missouri, con le camicie rosse, gli schiavisti e gli abolizionisti, dove anche le donne erano capaci di scolarsi litrate senza poi mettersi ad attaccar briga, finché a versare era qualcun altro. Vedere una ragazza che faceva meglio di lui gli ha dato un po’ uno scossone alla fiducia in se stesso. Non lo poteva sopportare. «Certo», mi ha risposto. Ha riempito un’altra volta tutti e due i bicchieri. «Predicalo, mia piccola campagnola abbandonata, proclamalo, che si ha bisogno che mi sentono dappertutto in tutto il mondo!». Ormai era mezzo frastornato, e tutto il suo blaterare elegante incominciava a cadergli giù di dosso, come gocce di pioggia che rimbalzavano sul tetto, e veniva fuori il campagnolo dentro di lui. «Non c’è mica niente come far baldoria, una sbronza e una bella scazzottata!», ha abbaiato, e poi si è cacciato un’altra volta quel whiskey blando, triste, che sapeva di tè, giù per la strozza. Io ho fatto come lui. Be’, siamo andati avanti così.

James McBride, The Good Lord Bird – La storia di John Brown, Fazi, traduzione di Silvia Castoldi. Formidabile, alla base della serie che vede protagonista il sempre valido Ethan Hawke, con uno stile pulp ma venato d’un’ironia degna dei fratelli Coen, modernissimo eppure già classico, originale benché nel solco di una tradizione, il romanzo con cui otto anni fa McBride, imponendosi su Kushner, Lahiri, Pynchon e Saunders, si è aggiudicato niente di meno che il National Book Award, succedendo a Louise Erdrich e prima di Phil Klay, narra di un ragazzino che nel Kentucky dell’anno del Signore milleottocentocinquantasei per sopravvivere si finge femmina e si aggrega alla crociata abolizionista di John Brown: epico e trascinante.

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“Ora che eravamo libere”

di Gabriele Ottaviani

La mattina seguente mi svegliai con un dolore acuto in mezzo al petto. Vidi la luce del sole filtrare all’interno della stanza e mi accorsi di avere il gomito di Dries piantato al centro del torace. Mi divincolai per spostarmi da sotto il suo corpo, ma fu inutile. Per quanto fosse magro, lo sentivo comunque pesantissimo e il suo gomito sembrava uno spuntone acuminato. Appoggiando una spalla allo schienale della mia panca, piantai il piede contro lo schienale della sua e spinsi con tutta la forza che avevo. Il cordino che teneva legati i piedi posteriori delle panche si spezzò, le panche si staccarono e la parte inferiore dei nostri corpi scivolò a terra. Dries imprecò, agitò le braccia e si svegliò. Il rumore destò anche Joke e Nell, e per alcuni istanti restammo seduti sulle panche strette, stirando i muscoli contratti, sbadigliando e cercando di rispondere ad alcune semplici domande come dove fossimo, perché ci trovassimo lì e cos’avremmo dovuto fare ora. «Devono essere almeno le sette e mezza», dissi. Joke saltò su, corse in bagno e si affacciò dalla porta per annunciare: «È tutto nostro», dopodiché scomparve di nuovo.

Henriette Roosenburg, Ora che eravamo libere, Fazi, traduzione di Arianna Pelagalli. Il millenovecentocinquantasette è un anno fondamentale per la letteratura: il Nobel a Camus, la morte di Tomasi di Lampedusa, vedono la luce L’isola di Arturo, Il dottor Živago, questo libro… Henriette Roosenburg è olandese e ha poco più di quarant’anni quando pubblica le sue memorie: nata nel millenovecentosedici, giovane universitaria si unisce alla resistenza antinazista, il che la rende destinataria di una condanna a morte. Liberata però dal carcere di Waldheim in Sassonia nella primavera del millenovecentoquarantacinque, dopo circa un anno di detenzione, mentre tutto intorno è caos con alcune compagnie di prigionia intraprende un lunghissimo viaggio per tornare a casa, passando in mezzo alla storia e all’orrore: imprescindibile.

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“Cuori vuoti”

di Gabriele Ottaviani

Vorrebbe dirgli che la sua Swappie, a prescindere dal fatto che generi guadagni o meno, non è altro che l’ennesimo giocattolo per quegli stronzi che giocano in borsa. Uno strumento per rendere il mondo ancora peggiore. Mentre il suo, di lavoro, lo rende migliore. Chiunque abbia bisogno di un attentatore non è più costretto a rivolgersi a dei fanatici jihadisti con disturbo narcisistico, o a dei bambinoni con il feticismo per le armi né a degli psicopatici che odiano gli stranieri e le donne. Loro invece gli consegnano un martire formato professionalmente, rigorosamente selezionato, che desidera morire per un fine alto. Il Ponte ha messo fine all’anarchismo terrorista. Ci sono accordi fissi e un numero controllato di vittime. Con il tempo il settore ha aderito a questo modello di business. I media raccontano regolarmente di attentati coronati dal successo, mostrano immagini della polizia in uniforme e interrogano politici, che sottolineano che la minaccia è come sempre alta, ma che non rappresenta un motivo per farsi prendere dal panico, mentre i loro funzionari mettono in atto il relativo pacchetto di sicurezza. Il grado d’isteria è diminuito in maniera sostanziale. Non è facile riassumerlo a parole e tuttavia è piuttosto evidente: da quando esiste il Ponte, gli attentati omicidi non vanno più di moda. Il numero di mine vaganti, di attentatori per imitazione è praticamente ridotto a zero. Al contrario, sono notevolmente aumentati gli incidenti d’auto, il numero di vittime di questo tipo è superiore a quello del terrorismo. Britta e Babak hanno discusso spesso di questo tema: ogni società industrializzata sembra aver bisogno di un certo numero di attentatori suicidi, la modalità dipende soltanto della tendenza del momento. Sedicenni che assaltano una scuola con un fucile a pompa. Ventenni che si fanno saltare in aria con una cintura esplosiva. Diciottenni che si lanciano in autostrada con gli occhi bendati. È una corsa contro il muro di un ordine monolitico. La falla del sistema. Un punto pruriginoso che ogni società ha bisogno di grattare di tanto in tanto.

Cuori vuoti, Juli Zeh, Fazi, traduzione di Madeira Giacci. Trump non è più alla Casa Bianca, la Gran Bretagna non è il solo paese a essersene andato dall’unione europea, la crisi economica è sempre più feroce, il vento del successo spira procelloso a gonfiare le vele dei populisti e la disillusione, l’ipocrisia e le laceranti, assurde e inumane contraddizioni sociali la fanno da padrone, tanto che c’è chi diventa ricco intercettando grazie a un algoritmo soggetti inclini al suicidio per poi offrire loro la possibilità di farlo ponendo fine alle proprie intime sofferenze dietro la maschera falsa di una presunta giusta causa: è la Germania del duemilaventicinque, ma ciò che più angoscia e fa riflettere è che pare hic, et nunc. Da non farsi sfuggire per nessuna ragione.

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“Potenza e bellezza”

di Gabriele Ottaviani

Nel frattempo, il 6 febbraio 1799 Napoleone ha lasciato Il Cairo con il suo esercito. Il 3 marzo arriva a Giaffa. Un ufficiale dell’esercito francese viene mandato con una bandiera bianca sotto le mura per intimare ai difensori di arrendersi, ma viene preso, decapitato e la sua testa gettata in mare. Per vendetta, Napoleone, una volta entrato in città, fa massacrare centinaia di persone. Duemila tra soldati e civili sono trascinati come prigionieri sulla spiaggia. Berthier, il conquistatore di Roma, chiede cosa deve fare con i prigionieri. Napoleone va su tutte le furie. «Cosa credi che dovremmo fare, portarceli dietro fino al Cairo e dargli pure da mangiare?», risponde inferocito. Il sole cocente del Medio Oriente comincia a dare alla testa a Napoleone. Il generale sembra in preda alla follia: si aggira nel deserto credendosi Dio in terra, seminando indignazione tra gli arabi, i cristiani e gli ebrei del luogo. «Io sono terribile come il fuoco del cielo per i miei nemici, ma clemente e misericordioso verso gli amici», proclama agli egiziani sgomenti. A marzo arriva sotto le mura di Acri, la sede del governatore ottomano della Siria. La città non è facile da prendere e, nel frattempo, sono in arrivo settemila guerrieri da Nablus e un esercito di altri quarantamila da Damasco. Dopo l’ennesimo tentativo di conquistarla, Napoleone scrive al Direttorio di esserci riuscito, ma di aver poi deciso di far ritorno al Cairo a causa di un’epidemia di peste. Il viaggio dura venticinque giorni e la temperatura, di giorno, è costantemente sopra i quaranta gradi. Molti soldati non hanno neanche le scarpe per camminare sulla sabbia bollente e di notte i pochi stracci che indossano non bastano a ripararli dal freddo. Il cibo è scarso. Molti soldati si ammalano, alcuni di peste. Napoleone suggerisce al medico che lo accompagna che l’unica soluzione è dare loro una dose fatale di laudano. Lasciarli indietro li esporrebbe alle barbare pratiche del nemico, che prima di ucciderli di sicuro li sodomizzerebbe. Il medico, un certo Desgenettes, replica che il suo dovere è salvare vite, non mettervi fine. Ma Napoleone è irremovibile. Centinaia di soldati vengono lasciati a morire sotto le mura di Acri.

Potenza e bellezza, Elido Fazi, Fazi. Il sottotitolo già dice tutto: Cronache da Roma e da Parigi (1796-1819) Uno è un conte che vuole solo metter su famiglia e continuare i suoi studi, l’altro è un sensale di nozze che fa l’agricoltore ma non disdegna di produrre armi, siamo nelle Marche, il primo si chiama Monaldo, il secondo Costantino, il primo ha un figlio che si chiama Giacomo, che diciassettenne scriverà che Se questo fosse vero, e cioè che il paradigma per valutare la felicità degli Stati è la Bellezza e non la Potenza, probabilmente non esisterebbe al mondo un popolo più felice di quello degli Italiani, il secondo ha un figlio che si chiama Giacomo, e che come suo padre è pieno d’ardimento: i due vogliono combinare un matrimonio, ma incombe sui destini loro e non solo, come una spada di Damocle, nientedimeno che il generale che sta facendo faville in ogni dove, quel certo Napoleone Bonaparte di cui tutti parlano, e… Con ampio respiro Fazi ci conduce nei meandri della storia e delle magnifiche sorti e progressive che sono dell’umana gente… Da leggere.

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“Il viaggio di Halla”

di Gabriele Ottaviani

Halla conosceva la strada per le scuderie dei cavalli da corsa accanto all’ippodromo. Aveva parlato con ogni cavallo che aveva un’espressione intelligente mentre era in città, anche nei giorni in cui gli uomini erano usciti e l’avevano lasciata a casa, aveva parlato con i nibbi che scendevano sul tetto ed erano più avveduti degli uccelli della foresta, ma avevano un odore più cattivo. Comunque, quelli che sapevano muoversi meglio a Miklagard erano i ratti. Si godevano la città più della maggior parte degli uomini e delle donne che vi abitavano e conoscevano tutti i suoi piccoli percorsi, su ogni livello, dai canali di scolo ai tetti. Ma soprattutto, conoscevano le strade per tutte le scuderie e sapevano come arrivare al granoturco. Halla non aveva mai tirato sassi ai ratti. Loro non erano peggiori degli altri. Lo disse agli uomini, che videro in questo un segno di Dio per il quale ogni vita è sacra. Ma loro tiravano sassi lo stesso. I ratti non entravano mai nella stanza quando c’erano gli uomini, a meno che non stessero dormendo. Ma conoscevano Halla. Sapevano che Halla era amichevole con i ratti. Quando lei gli chiedeva una strada, loro gliela dicevano o gliela mostravano. Perché no?

Il viaggio di Halla, Naomi Mitchison, Fazi, traduzione di Donatella Rizzati. Grande amica nonché prima lettrice di Tolkien, Naomi Mitchison, scrittrice, poetessa e saggista britannica vissuta per più di cent’anni a cavallo di due secoli, e solo per poco non ha visto il duemila, arriva finalmente in Italia con un classico, assai affascinante da ogni punto di vista, curato e originale, ricco di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione, del fantasy, la vicenda, mitica e mitologica, di Halla, figlia di un re che decide di abbandonarla nei dove viene accudita dagli orsi e poi cresciuta dai draghi, sempre più, tuttavia, minacciati dai crudeli esseri umani. Pertanto Odino, padre d’ogni cosa, la pone dinnanzi a una scelta… Da leggere.

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“Askja”

di Gabriele Ottaviani

Cala un lungo silenzio. Fuori un sole schietto squarcia di nuovo le nuvole e la sua luce dorata infiamma la stanza. «È tutto? Non è come se ci fosse davvero un problema, allora?», dice Comesè. «Parliamo piuttosto di problemi al plurale», risponde Kornelíus. «Per prima cosa, quei ragazzi sono rimasti a lungo in isolamento: duecentoquarantadue giorni per Erla e fino a seicentocinquantacinque per Tryggvi». «Cosa?». «Sì, il che fa per Tryggvi un isolamento più lungo del più pericoloso prigioniero di Guantánamo, ve lo immaginate? Una durata d’isolamento considerata oggi come una tortura. Quanto a Saevar, si è beccato millecinquecentocinquatré giorni di detenzione preventiva». «Perdio!», esclama Spinoza. «E non è finita. Durante l’isolamento, ognuno ha subito vari tipi di tortura. Privazione del sonno per tutti, luce costante nelle celle riverniciate di bianco e, per Saevar, che aveva la fobia dell’acqua, tortura per simulazione di annegamento». «Non ci credo! I poliziotti della task force lo hanno fatto davvero, in Islanda, negli anni Settanta?». «Sì, lo hanno fatto, e anche di più. Hanno costretto tutti gli indiziati a prendere un trattamento medico quotidiano. Valium, Clorpromazina e Mogadon. Tre farmaci che comportano amnesia retrograda, modificazione della coscienza, confusione mentale e calo della vigilanza in certuni, sedazione, sonnolenza e affezione del sistema nervoso anche a piccole dosi in altri». «Come è stato possibile fare domande in tali condizioni?».

Askja, Ian Manook, Fazi, traduzione di Maurizio Ferrara. Qualche tempo fa ha accompagnato i lettori come la più esperta delle guide per i suggestivi paesaggi della Mongolia, ora invece è il momento dell’Islanda, terra dalle mille sfumature: Ian Manook, che sa come si scrive e non perde occasione di dimostrarlo, spalanca dinnanzi all’osservatore il panorama del deserto di cenere dell’Askja, nel cuore dell’Islanda, dove viene avvistato il corpo imbrattato di sangue di una donna. L’ispettore Kornelíus Jakobsson, della polizia criminale di Reykjavík, non fa però in tempo ad arrivare sul posto che il cadavere è già scomparso nel nulla: come se non bastasse, le dinamiche gli rammentano in modo inequivocabile quelle di un celebre fiasco giudiziario risalente a decenni prima, che fece orrore e scalpore, e… Mozzafiato.

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“Lo specchio e la luce”

di Gabriele Ottaviani

«Fareste lo stesso con me, con quest’inglese che, dicevate, potrei sposare?». Lui alza lo sguardo. «Ti darei modo di scegliere, naturalmente. Gregory è il mio erede, non è la stessa cosa. Ti troverò una buona sistemazione». «Sono come la povera Anna Calva, la moglie di Poyntz. Non vorrei vivere fra gli stranieri». «Ma pensa a Ruth, nella Bibbia. Lei si adattò». Jenneke scoppia a ridere. «Confondete quei tempi con i nostri? Noi viviamo gli ultimi giorni, loro l’alba del mondo». Ecco. È una di quelle che pensano, a che serve sposarsi, o dare una figlia in matrimonio? Viviamo alla fine dei tempi. Ripensa alla figlia di Wolsey, al suo rifiuto. Ancora non è certo d’essersi ripreso. «Vi lascio», dice lei. «Solo per stanotte, intendo. Non me ne andrò senza salutarvi». È venuta per raccontare una storia e l’ha raccontata; per vedere un padre e l’ha visto. Cosa può trattenerla ormai? Lazzaro, naturalmente, è morto due volte. La seconda fu quella buona. In viaggio verso est, per conto della sua banca, lui era andato a visitare la sua seconda tomba, quella definitiva. Era sorvegliata da monaci feroci, che ti sbattono sotto il naso una ciotola per le elemosine e ti costringono a svuotare le tasche per vedere una cosa che, in fin dei conti, dimostra soltanto che i miracoli non sono duraturi. Lo storpio cammina ma non può che fare due giri intorno al camposanto prima di crollare in terra scompostamente. Il cieco vede, ma i visi che ha conosciuto da giovane ormai sono cambiati; e quando chiede uno specchio, non si riconosce più. Dopo sua figlia, entra Mr Wriothesley. «Allora, cosa vi ha detto di Harry Phillips? C’era qualcosa che non sapevate?».

Lo specchio e la luce, Hilary Mantel, Fazi, traduzione di Giuseppina Oneto e Stefano Tummolini. La trilogia si chiude come meglio non si potrebbe con questo romanzo non certo a caso finalista all’edizione di quest’anno del prestigiosissimo Man Booker Prize, solido, compiuto, d’amplissimo respiro, raffinato, elegante, dettagliatissimo, confezionato con cura sopraffina e sorprendente, che, come accade alle grandi prose d’ambientazione storica, è più attuale che mai: nel maggio dell’anno del Signore millecinquecentotrentasei, in Inghilterra, Thomas Cromwell, sempre più deciso a compiere la propria scalata al potere, assiste alla decapitazione di Anna Bolena, per poi banchettare assieme ai suoi sodali. Il lord custode del Sigillo Privato, astuto e tenace, per i risultati che ottiene viene premiato da Enrico VIII, re non più giovane e provato dalla vita, ma ora felice assieme alla remissiva Jane Seymour, con la nomina a cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera. Si sa che però ogni cielo terso è destinato a rabbuiarsi quando le nuvole si addensano all’orizzonte, e… Impeccabile e imprescindibile.

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“Cercando Beethoven”

di Gabriele Ottaviani

«Non vi sottovalutate, illustre dottore… Voi leggete Goethe, e avete frequentato Novalis. Qualcosina l’avrete imparata, o no?». «La ritengo una presa in giro, signor musico, e se è così me li rimetto in tasca e buonanotte». Mi misi a ridere e glieli sfilai da davanti. Rise anche lui riprendendo in mano il sigaro come se dovesse riaccenderlo. «Avanti», disse, lasciando elegantemente scivolare un rimasuglio di cenere, «ridammeli, fammi iniziare, è nel tuo interesse». Mimando un gesto di benevolenza glieli restituii. Sorrise soddisfatto, sospirò fingendo indignazione per doversi sobbarcare la fatica di riordinarli, poi si schiarì la voce con un colpo di tosse teatrale e iniziò. Wegeler aveva iniziato raccontando che Beethoven aveva fatto l’aiuto cuoco durante una crociera sul Reno. Nell’occasione gli avevano anche dato un diploma che conservava gelosamente. Era in una scatola sul cui coperchio c’era un sigillo fissato con alcuni filamenti della fune di una nave. Un altro aveva parlato dei suoi atteggiamenti a lezione: un momento si commuoveva, subito dopo ti prendeva a pugni sulla schiena, una volta lo aveva costretto a tornare in fretta a casa da una passeggiata in campagna e si era messo a improvvisare per mezz’ora ancora col cappello in testa. «Perdonatemi», gli aveva detto, «oggi non potrò farvi lezione», e quello, di rimando: «Ma è stata la mezz’ora più utile della mia vita!». L’aneddoto più gustoso riguardava l’esecuzione di un quartetto di un altro compositore in cui Beethoven era al pianoforte…

Cercando Beethoven, Saverio Simonelli, Fazi. Per la prima volta Ludwig van Beethoven è il protagonista assoluto di un vero e proprio romanzo: il genio della musica mondiale, capace di cambiarne per sempre le sorti, colui che pur non udendo è stato capace di comporre armonie immortali, nella ricorrenza del duecentocinquantesimo anniversario della sua nascita rivive nel ritratto intimo, delicato, suggestivo ed emozionante che ne fa con raffinatezza Saverio Simonelli prendendo le mosse dalla ricerca quasi ossessiva che i tre protagonisti, per tentare di elaborare l’inquietudine che li attanaglia, compiono sulle sue tracce. Intenso e magnetico.

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