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“La grande stagione”: intervista all’autore

copertina-romanzo-libro-paolo-ruggiero-grande-stagione-castelvecchidi Gabriele Ottaviani

Paolo Ruggiero ha scritto il bellissimo La grande stagione: Convenzionali lo intervista con immenso piacere per voi.

Qual è secondo lei la grande stagione della vita di ognuno?

È la stagione che ritorna ogni volta in cui si è di nuovo entusiasti, felici, proiettati in avanti, e non solo per un istante. Anche le “grandi stagioni” vissute contano, ci confermano e accompagnano nel nostro percorso, a patto che non diventino un freno nostalgico al presente.

La nostra società è sempre più rabbiosa, invidiosa, violenta, meschina, ma soprattutto precaria, dal punto di vista economico e affettivo: dov’è che si può trovare un po’ di sicurezza?

Non credo in una visione così fosca della società. In realtà penso che periodi di gioia se ne possano attraversare molti nella vita. A volte sono offerti dal caso, tante altre volte vanno cercati con l’azione, con il creare, cercando di trarre dal reticolo di opportunità in cui siamo immersi quelle a noi più congeniali, stimolanti, evitando di farsi sottrarre energie da persone o situazioni deleterie. La sicurezza in sé la si può trovare anche nella curiosità intellettuale, l’osservazione, lo sport e il superamento di se stessi, lo sguardo vorace sul mondo, la comprensione limpida e se possibile anch’essa gioiosa delle cose, liberata da griglie di interpretazione limitanti, statiche.

La generazione dei giovani italiani è quella a cui è stata rubata una grossa fetta di futuro: è per questa consapevolezza che spesso si cerca di rimandare il più possibile la fine degli studi e l’inizio della ricerca di un lavoro, che il più delle volte non si trova o non si può considerare lavoro, dato che nella migliore delle ipotesi è volontariato, nella peggiore e più frequente sfruttamento?

Il senso di precarietà che trasmette il mondo del lavoro, il futuro, per alcuni si traduce in un prolungamento oltre misura della giovinezza, qualcosa tipo “procrastino, resto in facoltà, galleggio fuoricorso, perché il mondo là fuori adesso non promette nulla di buono”. C’è anche da dire che l’Italia, certe sue città universitarie, con la loro bellezza, il ritmo scanzonato che infondono agli anni di studio sono spesso complici: si sarebbe tentati di continuare a viverci da eterni studenti. Un’esperienza all’estero, anche solo l’Erasmus, magari in una grande metropoli, imparare una nuova lingua, adattarsi a un’altra mentalità, può aiutare a uscire dal limbo, a vedere i propri giorni e le proprie ambizioni da altre prospettive.

Quanto conta il sesso nella formazione di un individuo?

Nella formazione non saprei, è qualcosa che fa parte del benessere di ogni persona.

Vivere è un viaggio, e la fine è nota: ma qual è lo scopo?

Averlo vissuto al meglio, fino all’ultimo, traendone gioia, rinnovando il viaggio, condividendo, fissando e creando qualcosa che resti.

Quand’è che si diventa realmente adulti?

Forse lo si ridiventa più volte nell’arco di una vita, dopo periodici, creativi ritorni alla giovinezza, magari anche all’infanzia, oppure lo si è sempre, se si è sempre guardato alla vita con uno sguardo al tempo stesso adulto e bambino.

Come si elabora la perdita?

Ognuno la elabora a modo suo. Ma credo che conservare il ricordo di chi non c’è più, soprattutto se si tratta di ricordi cari, sia come una scatola cui può far bene attingere in certi momenti, a volte anche solo per ridare un po’ di senso a certe giornate.

Perché scrive?

Un piacere da sempre e anche una necessità, per fissare immagini o idee sul foglio, prima che diventino troppo volatili.

Il libro che avrebbe voluto scrivere, il film che non si stancherebbe mai di rivedere.

Devo dire che questo libro che è il mio primo romanzo corrisponde bene a come lo immaginavo finito, quando ne ho iniziato la stesura. Mi sono preso il tempo di lavorarlo con calma, di farlo anche decantare, fino ad arrivare a un risultato finale che mi sembrasse compiuto, limpido, ed è così che lo riscriverei anche adesso.

Il film… In questo momento me ne vengono in mente tre, tre belle pellicole un po’ azzurrate e anni ‘70: Zabriskie Point, per la fotografia, i cieli, i tempi dilatati. L’uomo che amava le donne, di Truffaut. Infine, Profondo Rosso, per la sceneggiatura, il montaggio, il ritmo percussivo, la resa incalzante di un’atmosfera di sottile follia, di sospensione.

 

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