Intervista

Lo sport, Davide, Librino, i libri e la libertà

Davide Cifalà con la nonna, la sua prima tifosa

di Gabriele Ottaviani

Davide Cifalà è l’autore di Libero da ogni limite: Convenzionali lo intervista con gioia per voi.

Da quale esigenza nasce questo libro?

Libero da ogni limite nasce dalla necessità di ritrovare me stesso, soprattutto quella parte di me stesso combattiva, che dopo i tredici anni, dopo essere stato una sorta di ragazzo schiacciasassi soprannominato “Bud Spencer” a scuola e nel mio quartiere, era andata scemando. Inizialmente, questo libro era semplicemente un’agenda nella quale raccoglievo i miei pensieri: scrivevo per cercare di cavare un ragno dal buco da quella mia crisi esistenziale che mi colpì dai tredici anni in poi… Ebbi un crollo emotivo, dovuto alla realtà drammatica dalla quale stavo cercando di salvarmi. Una situazione familiare a dir poco orribile, con un fratello maggiore, più grande di me di quattro anni, completamente squilibrato (oltre che una vera e propria sanguisuga per i miei genitori, spesso troppo succubi di lui). Sono cresciuto credendo che fosse normale avere una persona adulta dentro casa che strisciava per terra come un verme, con la bava alla bocca, che urlava talmente tanto forte, sfondando i mobili e facendo disperare soprattutto mia madre, che a volte arrivavano i carabinieri a casa… Sono cresciuto e sono diventato inevitabilmente un ragazzo irruento: quando stavo con i miei coetanei mi accorgevo di essere diverso da loro. Loro ridevano spensierati, ridevano anche senza un motivo. Io invece, avevo sempre il broncio… E a volte rischiavo di diventare un mostro, molto peggio di mio fratello, rischiavo di diventare lo specchio di ciò che ero stato costretto a vedere dentro casa mia, così esplodevo di tanto in tanto con delle reazioni violente epiche che mi rendevano “terrificante”. Nel 2011 riuscii a trasformare quell’agenda nata per invocare il  “Davide Bud Spencer” in un romanzo autobiografico, il primo capitolo di quella che sarà una miniserie autobiografica, nella quale, come in tutte le mie autobiografie, ci sono le crepe nell’animo di un ex karateka che ha entusiasmato la gente e anche mille aneddoti sulla mia vita fatta di vittorie, ma anche di paurose parabole discendenti.

Quanto conta l’ambiente in cui cresciamo per le scelte che facciamo?

Parte tutto da lì. Io, partendo dal quartiere popolare di Catania nel quale sono cresciuto, Librino, a diciannove anni decisi di incanalare tutta la mia rabbia verso il tatami, diventando un karateka, rifiutandomi di pensare ad altro, perché tanto tutto intorno a me faceva schifo. Questo vuoto dentro mi diede la forza di reagire, e la gente nel momento stesso in cui cominciai a combattere nelle gare di karate mi ribattezzò come “la voce dei senza voce”, il primo simbolo di un sensibile e tangibile cambiamento per la gente meno fortunata, la gente che viveva in una realtà simile alla mia. Credo che il quartiere Librino e tutti i quartieri popolari in generale, specialmente in quel periodo in cui io combattevo (stiamo parlando del periodo tra il 2007 e il 2008) cercassero proprio un paladino.

I ragazzi spesso oggi hanno grandi fragilità e poca stima di sé: come fare a convincerli che hanno tutte le carte in regola per costruire il futuro che desiderano?

Questa storia, questo romanzo, in fondo e’ la testimonianza del fatto che… come diceva un grande saggio  “Tutto ciò che vogliamo è sempre dall’altra parte della paura.” Io avevo tutto per essere uno di quelli che mollano: quando cominciai con il karate, tutti mi dissero che c’era troppa gente forte, che non avrei mai potuto essere davvero competitivo. Gli inizi, devo ammettere che sono stati molto duri. Durante i miei primi allenamenti in palestra non ero capace neppure di fare due giri di corsa. Ricordo il mio maestro, Giulio Ragusa, colui che mi ha insegnato tutto sullo stile Wado Ryu, che mi correggeva spesso gli stessi errori e poi, avvicinandosi a me, mi chiedeva: “Come la vinci una gara, se il tuo cuore non riesce ad abituarsi neppure a fare due giri di corsa?” Io stavo zitto, oppure rispondevo che non lo sapevo… Questo, nel 2006. Sennonché, un anno dopo aver cominciato, esattamente il 23 dicembre del 2007, mi ritrovai contro ogni pronostico a gareggiare in un’importante gara di karate che si chiamava “Natale sotto l’albero.” Anche in quell’occasione, dissero che non avrei mai potuto portare a casa quel trofeo, e che sarei stato semplicemente una comparsa, la vittima sacrificale dei campioni quelli veri, l’avversario di comodo da prendere a calci facilmente. Teoricamente, stavano per mandarmi al massacro contro il lupo cattivo e io ci sarei andato. Perché dopo tutto quello che avevo passato, le cose brutte che avevo visto nella mia vita, le scene da film horror, non c’era niente che avrei potuto incontrare su quel tatami che fosse in grado di spaventarmi. Invece, pur stando male quella mattina del 23 dicembre 2007, con un tremendo virus allo stomaco che a stento mi faceva stare in piedi, ottenni un incredibile secondo posto, in circostanze eroiche. E il giorno dopo, qualcuno mi definì “La stella nascente della gara “Natale sotto l’albero.”” Quel giorno capii che un anno intero di duri allenamenti e fallimenti in palestra, aveva dato i suoi frutti: l’avversario che per mezzo punto soltanto mi batté, ai miei occhi non apparve poi tanto forte, pur avendo molta più esperienza di me. Probabilmente lo avrei battuto facilmente se solo quel giorno fossi stato al massimo della forma, lui apparve piuttosto lento ai miei occhi, lento e prevedibile. Questo perché, fallendo in palestra, sono andato oltre ai miei limiti e sono migliorato nel giro di un anno in un modo incredibile: li ho testati e mi sono reso conto che c’è un momento mentre ti alleni, mentre combatti, in cui, a dispetto della stanchezza, anche quando pensi che le gambe non ti reggeranno più a lungo, la corsa, il combattimento, cominciano di colpo a pesarti meno, perché la volontà ti spinge oltre…

Quali sono i valori dello sport?

Nel mio caso, lo sport mi ha messo nella società. Prima il calcio, nel periodo adolescenziale, e quindi il karate, dai diciannove anni in poi. Lo sport è formativo, terapeutico. Per quanto mi riguarda, la gara di karate è sempre stato il pretesto per far ascoltare agli altri ciò che avevo da dire. Prima che diventassi un karateka, sembrava che avessi un talento naturale nel farmi odiare dalle persone. E la colpa era anche un po’ mia, perché pur di nascondere il fatto che fossi un ragazzo non soltanto triste, ma anche con poca autostima, preferivo sembrare “il cattivo da battere”, e ci ho marciato sopra per così tanto tempo su questa cosa che, nei miei libri, ad un certo punto, mi sono anche inventato il mio alter ego estremo, che ho chiamato “ VillainDavid-Davide il mascalzoncello”, personaggio che, nel mio terzo libro “Ritornai a volare” (versione graphic-novel di “Libero da ogni limite”) è diventato una sorta di antieroe manga, che mi ha avvicinato moltissimo anche al pubblico di bambini, sui quali avevo già capito precedentemente di avere un certo ascendente. Non ho mai pensato di essere davvero un campione, ma i bambini ed anche gli adulti, hanno questa immagine di me, quella di supereroe proveniente dalla vita reale, ed io sono fiero di rappresentare i ghetti, in particolare, il ghetto nel quale sono cresciuto, Librino, dove c’è tanta brava gente che ogni giorno, attraverso i suoi sacrifici, ci dimostra che tutto e’ possibile nella vita se si lavora sodo. Le mie vittorie, non sono solo per me stesso e per la mia famiglia, ma anche per “la mia gente”, alla quale ho dato voce tramite le mie imprese da karateka. E Davide Cifalà, o se preferite “VillainDavid”, è nato per rappresentare i sogni dei bimbi e i desideri degli adulti.

Che cos’è la libertà?

Nel mio caso è un vero autentico miraggio. Qualcosa che inseguo da tutta la vita. Essere liberi, credo significhi non scendere mai a compromessi, non vendere mai sé stessi. Non farsi condizionare dai giudizi altrui, perché tanto chi non ti capisce ti criticherà in ogni caso. Non permettere a nessuno di trasformarti secondo la sua visione e le sue aspettative. Non cadere nella trappola di cercare negli altri, ciò che non troviamo dentro noi stessi. La brutta situazione che ho in casa ha sempre fatto sì che lo spirito che mi faceva vincere le gare a volte fosse anche un demone che mi portava dritto nell’oscurità. Il mio avversario più duro nel karate sono senz’altro stato io stesso. La sofferenza di mia madre e la disperazione di mio padre causate da mio fratello erano il mio pensiero fisso ogni volta che combattevo e tuttora, anche se la mia carriera da artista marziale è finita da tempo, è così… Mi sono sempre sentito responsabile per cose di cui non avevo invece nessuna responsabilità. Tutto questo mi ha sempre tarpato le ali, la mia vita è sempre stata di altri e mi sono sempre preoccupato per tutti tranne che per me stesso. Oggi, a quasi trentacinque anni, sto cercando di imparare a non avere sensi di colpa verso nessuno, se non verso me stesso, per tutti gli istanti di vita che ho sprecato, per via della mia infanzia rubata.

Perché scrive?

Non conosco altro modo per ascoltarmi dentro, per esprimere tutti quei pensieri, quelle emozioni, che nella vita, essendo uno di poche parole, non riuscirei a esprimere a parole e neppure voglio farlo… Non è facile trovare qualcuno che ti ascolti veramente, o che sia in grado di capire fino in fondo quel che dici… Molti ti chiedono della tua vita non per reale interesse, ma solo per curiosità… io ho imparato a non dare ciò che ho dentro a chi non sa apprezzare ciò che sono.

Come immagina Librino tra dieci anni?

Uno dei miei sogni è che un domani, uno dei miei libri, magari anche “Ritornai a volare”, possa essere distribuita nelle scuole come libro di testo, possibilmente nella stessa scuola elementare di Librino che ho frequentato io da bambino. Sarebbe molto bello raccontare ai bambini di oggi che la mia storia è partita da lì. Spero che chi ha in mano il potere possa far crescere questo quartiere, anche se so già che molti ci stanno provando, attraverso manifestazioni canore ed altre iniziative. Chissà, magari un giorno farò una presentazione lì… sarebbe bellissimo.

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Intervista, Libri

Il mondo perfetto di Clarissa Goenawan

di Gabriele Ottaviani

Clarissa Goenawan ha scritto Il mondo perfetto di Miwako Sumida: noi di Convenzionali siamo felicissimi di intervistarla.

Da quale intima esigenza nasce questo romanzo?

Sono affascinata dall’idea che spesso pensiamo di conoscere bene una persona, ma in realtà non è affatto così.

Chi è Miwako?

In questa storia è una studentessa universitaria a cui piace leggere. Ma allo stesso tempo chiunque può essere Miwako. Forse è una vicina, un’amica, una sorella. Può essere chiunque di noi.

Che importanza hanno nella vita e nella letteratura i silenzi, le attese, le speranze, i segreti?

I silenzi spesso sono la voce più forte. Le aspettative potrebbero condurre alla delusione, ma le speranze ci danno la forza per andare avanti. I segreti sono la verità che teniamo dentro di noi.

Come nasce un amore? E di cosa ha bisogno per rendere la vita più felice?

L’amore nasce inaspettatamente – ecco perché la gente dice che ti stai innamorando. Non puoi imparare a cadere. Cadi e basta. La felicità dipende dalle tue priorità. Se l’amore è la tua priorità, allora averlo nella tua vita ti renderebbe probabilmente più felice.

Come si elaborano il ​​lutto e il dolore?

Ognuno di noi ha il proprio modo di elaborare il dolore e il lutto. In caso di dubbio, dagli tempo. Il tempo guarisce.

Il più grande intellettuale italiano, Luca Serianni, recentemente scomparso, diceva che si scrive per tanti motivi, uno dei quali è parlare a sé stessi: pensa anche lei?

Sì. Di sicuro imparo a conoscermi meglio attraverso la scrittura.

Quali sono i suoi prossimi progetti?

Il mio terzo romanzo, Watersong, è appena uscito a giugno di quest’anno e spero che la traduzione sia pronta molto presto (verrà pubblicato da Carbonio Editore nel duemilaventitré). Proprio come Rainbirds e Il mondo perfetto di Miwako Sumida, Watersong è un mistero letterario con elementi di realismo magico ambientato in Giappone. Sto anche lavorando alla bozza di un nuovo romanzo. Tutti i miei lavori sono ambientati nello stesso universo, quindi si potrà incontrare qualche personaggio familiare.

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Intervista, Libri

The perfect world of Clarissa Goenawan

by Gabriele Ottaviani

Clarissa Goenawan wrote The Perfect World of Miwako Sumida: Convenzionali is so glad to interview her.

From what intimate need does this novel arise?

I’m fascinated with the idea that often, we think that we know a person well, but actually, we don’t. 

Who is Miwako?

In this story, she’s a university student who enjoys reading. But at the same time, anyone can be Miwako. Perhaps she’s a neighbor, a friend, a sister. She can be any of us.

What importance do silences, expectations, hopes, secrets have in life and in literature?

Silences often carry the loudest voice. Expectations could lead to disappointment, but hopes give us the strength to go on. Secrets are the truth we keep within ourselves.

How is a love born? And what does it need to make life happier?

Love is born unexpectedly – that’s why people say you’re falling in love. You can’t learn to fall. You just fall. Happiness depends on your priorities. If love is your priority, then having it in your life would likely make you happier.

How are grief and pain processed?

Each of us has our ways of processing grief and pain. When in doubt, give it time. Time heals.

The greatest Italian intellectual, Luca Serianni, recently passed away, used to say that you write for many reasons, one of which is to talk to yourself: do you think so too?

I do. For sure, I get to know myself better through writing.

What are your next projects?

My third novel, Watersong, just came out in June this year and hopefully, the translation would be ready very soon. Just like Rainbirdsand The Perfect World of Miwako SumidaWatersong is a literary mystery with elements of magical realism set in Japan. I’m also working on a draft of a new novel. All my works are set in the same universe, so you’ll meet a few familiar characters.

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Intervista, Libri

Rossella Rossini racconta Eleanor Roosevelt

di Gabriele Ottaviani

Rossella Rossini è una straordinaria esegeta della figura di Eleanor Roosevelt, di cui dona a Convenzionali uno splendido ritratto. Grati, ecco a voi le sue risposte alle nostre domande.

Chi era Eleanor Roosevelt?

Eleanor Roosevelt è stata una delle massime rappresentanti del pensiero e dell’azione progressista del ‘900, negli Stati Uniti e non solo. Appartenente a una famiglia della upper class newyorkese, dopo un’infanzia e un’adolescenza infelici, segnate dalla perdita precoce di entrambi i genitori, compì gli studi in Inghilterra presso una scuola femminile internazionale a poca distanza da Londra la cui direttrice e insegnante, Marie Souvestre, di origine francese e di grande cultura, femminista e pacifista, ebbe su di lei una grande influenza e le consentì di acquisire sicurezza e indipendenza. Al rientro in patria, appena diciottenne, la giovane Eleanor s’impegnò subito in attività di volontariato sociale e civile svolgendo indagini per la Lega dei consumatori sulla sicurezza e salubrità delle merci e sulle condizioni di lavoro della manodopera in fabbriche di abbigliamento e grandi magazzini e facendo doposcuola a bambini immigrati, sporchi e dagli abiti sdruciti, in una casa di accoglienza nel Lower East Side, uno dei quartieri più fatiscenti, poveri e malfamati della città. Una volta si fece accompagnare dal lontano cugino Franklin, allora studente a Harvard, con il quale nacque un rapporto profondo e duraturo, basato anche sulla condivisione del senso di giustizia sociale, che nel 1905 avrebbe condotto la coppia al matrimonio, celebrato a New York nella cattedrale di St. Patrick, dove a condurre la sposa all’altare fu lo zio, Theodore Roosevelt, allora presidente degli Stati Uniti. La vita andò avanti tra gli impegni istituzionali di Franklin – senatore, sottosegretario alla Marina e governatore dello Stato di New York – e la militanza di Eleanor nel partito democratico e nell’associazionismo femminista e antirazzista, la nascita dei figli e le sue attività professionali di insegnante, imprenditrice e titolare di rubriche giornalistiche, più tardi anche radiofoniche, lette e ascoltate fino negli angoli più remoti della sua immensa nazione, che non si stancò mai di visitare. Quando Franklin, colpito dalla poliomielite che nel 1921 gli aveva paralizzato le gambe, fu eletto presidente era il 1932 e il paese era nel pieno della Grande Depressione scoppiata dopo il crollo di Wall Street nel 1929. A partire dall’ingresso alla Casa Bianca nel marzo del 1933 e fino alla morte del marito nel 1945, la first lady non esitò ad agire come “occhi e orecchie” del presidente, percorrendo più di 40.000 chilometri per riferirgli delle condizioni in cui versava, in ogni settore, una popolazione che si trovava ad affrontare la peggiore crisi economica della storia. Anche su tali resoconti Franklin Delano Roosevelt basò le politiche riformatrici del New Deal. Dopo l’esperienza della first ladyship Eleanor, senza mai allentare l’impegno politico, civile e sociale che ha caratterizzato la sua intera esistenza, in particolare a fianco delle donne, dei neri e degli immigrati, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia come delegata degli Stati Uniti nella neonata Organizzazione delle Nazioni Unite spendendosi, con sapienza e diplomazia in un mondo diviso in due blocchi contrapposti, per la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata a Parigi il 10 dicembre 1948, di cui è considerata la principale artefice.

Che ruolo ha ricoperto nella storia americana e non solo?

Il ruolo che Eleanor Roosevelt ha ricoperto nella storia americana e mondiale è legato all’azione da lei svolta su più piani e in molteplici campi di attività sotto la spinta della sua fede progressista, come succintamente illustrato nella risposta precedente. Qui vorrei sottolineare che i cambiamenti collegati alla presenza di questa figura e alla sua straordinaria capacità di incidere sul corso degli eventi non sono stati cancellati dalla difficile fase di negazionismo che ha portato l’America dei Roosevelt, del New Deal, della guerra al nazifascismo, del Piano Marshall e così via nelle mani di Donald Trump e alle esplosioni di violenza razzista contro i neri e gli ispanici. Una volta sparsi, i semi restano e sono sempre pronti a produrre nuovi frutti. I semi gettati da Eleanor nel terreno della sua nazione e in quello della politica e delle relazioni internazionali hanno continuato e continuano a fermentare.

Qual è l’aspetto della sua parabola esistenziale che ritiene più interessante?

La parabola esistenziale di Eleanor Roosevelt ha visto una giovane donna lottare con la massima dedizione per la tutela e la promozione dei diritti dei più bisognosi e portare avanti questo impegno anche una volta assurta a posizioni di primissimo piano, soprattutto in qualità di moglie prima del del vice-ministro alla Marina, poi del governatore dello stato di New York e infine del presidente degli Stati Uniti, per gli oltre tre mandati che ne hanno fatto la padrona della Casa Bianca dal 1933 al 1945. In questo lungo arco di tempo, che copre alcuni decenni, quella di Eleanor è stata un’esistenza vulcanica. Mentre svolgeva il suo ruolo istituzionale, Eleanor non ha mai rinunciato ad avere la propria vita, la propria professione e la propria indipendenza, anche economica. Pur avendo avuto sei figli, di cui uno perso in tenera età, insegnava in una scuola femminile, della quale era anche co-proprietaria, e gestiva una fabbrica di mobili. Era attiva nel partito democratico, di cui curava la pubblicazione del giornalino “Women’s Democratic News”. Militava nell’associazionismo, sia femminile, sia a sostegno degli immigrati e in tutela dei consumatori, sia volto a tutelare e migliorare le condizioni di lavoro. Teneva conferenze, parlava alla radio e scriveva: dal 1921 fino alla sua scomparsa nel 1962, Eleanor scrisse 27 libri, oltre 8.000 rubriche, 580 articoli e 850 saggi. Ricevette una media di 45.000 lettere l’anno, con picchi fino a 300.000 quando era first lady. Dal 1945 al 1948 la sua voce poté essere ascoltata via radio in 30 interviste o discorsi radiofonici e tra il 1948 e il 1961 fu ospite di 326 trasmissioni. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta affrontò con successo anche lo schermo televisivo, conducendo propri programmi e tavole rotonde. Alle cifre citate vanno aggiunte circa 150 conferenze l’anno, negli Stati Uniti e anche all’estero, spesso retribuite. Se poi alla biografia affianchiamo il suo pensiero, in buona misura dedicato proprio a promuovere i diritti delle donne, il quadro è completo ed è a tutto tondo. Mi sono così spinta oltre la vita vissuta da Eleanor a fianco di Franklin Delano, inoltrandomi negli anni successivi che l’hanno vista dare un contributo fondamentale alle relazioni internazionali e alla costruzione del mondo che noi conosciamo, regolato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite con le sue agenzie e i suoi obiettivi di pace e sviluppo, dove svolse un ruolo di primo piano nella elaborazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, universalmente riconosciuta come “Magna Charta” dell’umanità. Nella sua capacità di portare le grandi potenze della terra ad aderire a un progetto di tale portata (il documento fu approvato con 48 voti a favore, 8 astensioni e due assenze) dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, del nazifascismo e dello stalinismo e alla vigilia della Guerra fredda sta, a mio avviso, il punto più alto della parabola esistenziale e politica di Eleanor Roosevelt.

Eleanor Roosevelt ha delle eredi nella contemporaneità?

Sono fermamente convinta dell’unicità della figura di Eleanor Roosevelt nella vicenda politica del Novecento e odierna, almeno nella civiltà e nella cultura occidentali cui appartengo. L’unica erede che intravedo nella contemporaneità è Angela Merkel, per le sue doti di statista e alla quale va il merito di aver unificato un paese diviso in blocchi contrapposti. Il confronto è possibile perché, se è vero che la Roosevelt non ha mai governato in prima persona ed è stata soltanto la consorte del presidente, non possiamo sottovalutare gli sforzi da lei compiuti per influenzare la legislazione del New Deal, per esempio verso il sostegno dell’occupazione femminile o con le sue visioni in economia, favorevoli all’aumento della spesa pubblica e agli investimenti federali e locali e in supporto di quelle che riteneva le basi della democrazia – politiche abitative, assistenza sanitaria e istruzione; o per il superamento delle contrapposizioni tra blocchi a livello internazionale in qualità di delegata degli Stati Uniti all’ONU. Detto questo, a mio avviso restano troppe le differenze sia collegate alla diversità dei ruoli, sia ai rispettivi modi di essere e di porsi come persone. Eleanor, da grande comunicatrice, intrattenne rapporti quotidiani con gli ordinary americans attraverso le rubriche (l’equivalente dei nostri blog) che ogni giorno, dalle colonne di decine di giornali (la più nota, “My Day”, uscì per sei giorni alla settimana dal 31 dicembre 1935 al 26 settembre 1962 su 62 testate negli Stati Uniti e a giorni alterni dal 1961, quando Eleanor era troppo malata per lavorare di più, toccando una vetta di 90 giornali in ogni angolo della nazione e raggiungendo un pubblico di oltre 4 milioni di lettori) e attraverso le onde della radio, portavano la sua voce e il suo pensiero nelle case di milioni e milioni di concittadini, fino negli angoli più remoti della sua immensa nazione: nazione che peraltro percorse in lungo e in largo, fino a compiere quasi 40.000 i chilometri solo nei primi mesi del primo mandato di Franklin alla Casa Bianca, anche agendo in qualità di “occhi e orecchie” di un presidente limitato negli spostamenti dalla poliomielite che lo aveva colpito, paralizzandogli le gambe, nel 1921, al quale riferiva sullo stato in cui versava un paese devastato dalla Grande Depressione seguita al crollo del Borsa del 1929. Basterebbe questo radicamento materiale nella nazione, testimoniato da numerosi episodi da me riferiti nel corso della narrazione, a confermare l’eccezionalità di questa figura nella storia politica del suo paese.

Quale rilevanza ha lo studio della storia nella società frenetica dei nostri giorni?

A mio avviso, il ritmo frenetico a cui oggi si susseguono gli eventi e la loro divulgazione, con conseguente difficoltà a fissarli nella memoria umana, singola e collettiva, rende ancora più importante lo studio della storia affinché sia sempre possibile diffondere e tramandare la loro conoscenza, pena un impoverimento o addirittura la perdita di saperi.

Com’è cambiata, se è cambiata, la politica dai tempi di Roosevelt?

La politica è cambiata di pari passo con l’aumento della sua complessità e con il moltiplicarsi dei luoghi e delle forme del suo esercizio conseguenti alla maggiore scolarizzazione delle popolazioni, alla diffusione dell’informazione e delle conoscenze e alla crescita della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e alla gestione della cosa pubblica, ai diversi livelli. Sperando di non peccare di eccessivo ottimismo, vedo un legame positivo tra gli elementi che ho citato e la politicizzazione delle società. Se si pensa a quando la politica era un mestiere riservato alle élite, il cambiamento è stato enorme. A partire dagli ultimi decenni del secolo XIX si cominciarono a delineare i caratteri di quella che verrà in seguito chiamata “società di massa”, a significare che la società si delineava sempre di più come un luogo di soggetti collettivi: i popoli, le classi sociali, le categorie lavorative e perfino i gruppi di genere, come le donne che diventeranno soggetto sociale e politico con la nascita del movimento femminista. A questo nuovo modello di società non potevano più essere adeguati i vecchi partiti di notabili, gruppi ristretti che rappresentavano élite a loro volta esigue, in parlamenti generalmente eletti a suffragio limitato sulla base del censo. Le classi lavoratrici, soprattutto gli operai delle grandi città industriali, per poter avere un’adeguata rappresentanza parlamentare, anche in relazione al progressivo allargamento del suffragio avvenuto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dovettero dotarsi di forme politiche differenti, dando vita ai moderni partiti di massa. Il percorso è stato progressivo. Piuttosto che affermare che la politica è cambiata rispetto ai tempi di Roosevelt, mi sembra più corretto dire che la politica è cambiata, radicalmente, a partire dai tempi di Roosevelt e ha continuato a cambiare nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale grazie all’ampliamento e alla diffusione di forme di democrazia rappresentativa ai diversi livelli civici e sociali, accentuando il processo di politicizzazione innescato dalla nascita dei partiti di massa.

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Intervista, Libri

Gloria Bovio, l’arte e il “postpubblico”

di Gabriele Ottaviani

Gloria Bovio è l’autrice di Postpubblico: Convenzionali la intervista con gioia per voi.

Da dove nasce Postpubblico?

Nel 2016 ho iniziato a dedicarmi allo studio dello spettatore delle arti, per capire il ruolo che il pubblico assume oggi nel confronto con l’opera. Ho fondato un think tank, Dialoghi d’Arte, per raccogliere riflessioni multidisciplinari sui consumi culturali in relazione con i cambiamenti sociali ed economici del nostro tempo. Da quel momento ho invitato sociologi, filosofi, antropologi, storici, curatori, critici, economisti e direttori di istituzioni culturali a confrontarsi sul rapporto tra le arti e il pubblico, ognuno dal proprio punto di vista. Ne sono nate conversazioni particolarmente interessanti per il taglio insolitamente multidisciplinare, era come mettere insieme pezzetti di un grande puzzle. Le conversazioni più significative che si sono svolte tra il 2019 e il 2020 sono state raccolte in Postpubblico, durante la pandemia, perché in quel momento i caratteri dello spettatore contemporaneo sono emersi molto chiaramente.

Che valore ha l’arte oggi?

Inestimabile. E non parlo di valore del possesso – il punto oggi non è più possedere l’opera – parlo del valore della sua fruizione. L’arte e la cultura ci rendono persone migliori, perché ci abituano a confrontarci con ciò che è diverso da noi e che non conosciamo, ci fanno vivere sensazioni sconosciute, ci fanno stare bene, anche fisicamente. Le esperienze che viviamo rapportandoci con l’opera sono parte della nostra identità e, anche se non sempre ce ne rendiamo conto, ci aiutano nel nostro quotidiano nelle nostre scelte. Questo succede perché arti e cultura coinvolgono l’immaginazione e risvegliano la nostra curiosità, attivano i nostri sensi e ci fanno pensare. Tutto questo oggi è ancora più importante, perché siamo i protagonisti di un periodo storico di grande turbamento e incertezza economica e sociale. L’arte può aiutarci a superare tutto questo, ma per favorire una vera transizione culturale occorre partire dal pubblico contemporaneo, quello che io chiamo Postpubblico, aiutando le persone a essere spettatori più consapevoli e in grado di capire il valore e il significato dell’arte e della cultura. Goethe diceva che non esiste un metodo più sicuro per evadere dal mondo che seguire l’arte, ma anche che nessun metodo è più sicuro dell’arte per unirsi al mondo. L’arte è un mezzo per evadere dal mondo, ma nello stesso tempo è il modo migliore per comprenderlo e avvicinarvisi.

Che cos’è la modernità?

Modernità è qualcosa che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle con questa emergenza. Modernità era stabilità, solidità, certezza del presente e del futuro, fiducia incondizionata nel progresso, nell’inesauribilità delle risorse naturali, nel posto di lavoro sicuro per la vita, nella fatica fisica per il raggiungimento di un obiettivo. Modernità era la società di massa compatta e unidirezionale novecentesca. Tutto questo appartiene al passato, perché oggi tutti questi elementi non esistono più. Oggi tutto è precario, flessibile, dinamico, fluido. Abbiamo una visione del mondo radicalmente diversa e riuscirà a vivere meglio chi anziché opporsi al cambiamento ancora in atto, sarà in grado di cavalcare questa flessibilità e ci si adatterà sapendone trovare gli aspetti positivi.

Ha senso parlare di bellezza dopo il dramma del Covid?

Credo abbia ancora più senso oggi, ne abbiamo un gran bisogno. Abbiamo più bisogno di cultura e abbiamo più bisogno di arte.

Torneremo a teatro, al cinema, in un museo come prima, con lo stesso spirito, la stessa disposizione d’animo?

L’emergenza sanitaria lascerà il segno per molto tempo in tutti noi. Gli adolescenti saranno quelli che ne subiranno le conseguenze più pesanti. A loro è stato rubato un pezzo di vita in un periodo fondamentale per la formazione della loro identità personale. Se la guerra al Covid 19 e alle sue varianti è davvero stata vinta e non si presenteranno altre forme virali altrettanto gravi, credo che dopo qualche tempo la maggior parte di noi tornerà a teatro, al cinema o al museo sostanzialmente come prima. Lo faremo per autodifesa, perché vogliamo dimenticare, vogliamo tornare alla nostra normalità, perché siamo esseri sociali incredibilmente bisognosi di relazioni. Il punto è se le istituzioni torneranno a essere quelle di prima, se torneranno a proporre arte e cultura allo stesso modo e questo non credo sia possibile.

Chi sono i fruitori dell’arte oggi? E come sono cambiati e stanno cambiando nel tempo gli spettatori culturali?

Innanzitutto oggi tutti siamo spettatori di qualcosa più o meno consapevolmente. Siamo tutti parte di un variegato Postpubblico, formato da pubblici diversi e instabili che comprendono individui che possono essere anche molto diversi tra loro. All’interno di queste diversità individuali ci sono però dei caratteri che accomunano un po’ tutti quanti. Quello più evidente è il protagonismo che porta lo spettatore contemporaneo a voler rivendicare in ogni azione la propria centralità rispetto a tutti quelli che gli stanno intorno, per emergere dalla moltitudine che lo circonda e per uscire dall’anonimato. È un Postspettatore che non vuole più stare semplicemente a guardare, ma creare, passare cioè dalla parte di chi realizza l’opera piuttosto che restare da quella di chi la fruisce. Gli interessa raggiungere il successo prima ancora che il benessere economico attraverso corsi e concorsi o altri percorsi da autodidatta per la facilità con cui è possibile oggi ricevere informazioni e conoscenze attraverso la rete. Questo non è altro che la risposta ai cambiamenti economici, politici e sociali del nostro tempo perché lo spettatore a qualsiasi epoca appartenga non è altro che l’espressione della società sua contemporanea. La modernità e la società di massa aveva prodotto un pubblico massificato e compatto, mentre oggi, nell’era dell’instabilità e della fluidità il pubblico si è completamente trasformato e continua a evolvere in risposta ai cambiamenti che lo circondano.

Quale sarà il futuro delle arti in un mondo sempre più digitalizzato?

L’arte continuerà a essere fruita in presenza e in modo diretto, perché l’arte è relazione, è incontro con l’opera e con le persone e non c’è nulla che possa sostituire l’esperienza fisica. Non smetteremo di andare a teatro, né di andare al museo e il lockdown ha dimostrato come il tour virtuale della mostra non possa sostituire l’esperienza fisica e relazionale che innesca la partecipazione in presenza. Questo non significa che la digitalizzazione debba rimanere distante dall’arte e dalla cultura. Benissimo la digitalizzazione degli archivi, delle biblioteche, ma anche delle opere di un museo, per permettere di contemplare l’opera che si trova in luoghi lontani non raggiungibili da chiunque. Ma quello che è davvero interessante oggi è la digitalizzazione che dà al pubblico la possibilità di creare contenuti mediali a partire da opere o prodotti culturali che vengono presi, modificati e rimessi in rete da “spettatori iperconnessi” attraverso video, fotografie, articoli. Questo processo innesca nuovi rapporti di relazione tra le persone, ma può portare anche a nuovi dialoghi tra le istituzioni culturali come musei e biblioteche e i loro pubblici, i cui sviluppi si vedranno nei prossimi anni.

Qual è il ruolo fondamentale della cultura per la ripresa del nostro sistema-Paese?

L’emergenza sanitaria ha accentuato le differenze sociali tra le persone, colpendo soprattutto i più giovani perché è stato interrotto il loro percorso educativo e la formazione della loro identità culturale e sociale. La cultura ha certamente un ruolo fondamentale, che è quello di mettere le persone in condizione di essere più consapevoli delle proprie potenzialità e di costruire la propria identità personale e sociale.

Prossimi progetti?

Come co-fondatore di Dialoghi d’Arte sto avviando per il mese di luglio Cultura Capitale, un progetto di cittadinanza culturale all’interno dello spazio culturale dell’ex Ospedale Civico di San Paolo di Savona. L’obiettivo è creare una nuova coscienza critica nelle persone attraverso il dialogo, la partecipazione e l’interazione con il mondo della cultura. Nel prossimo autunno partirà Culterapy, un progetto sulla partecipazione culturale come sorgente di benessere psicofisico le cui ricerche saranno tradotte in una prossima pubblicazione.

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Intervista

Giovanni Sollima e i pezzi tesotici

di Gabriele Ottaviani

Psichiatra, esperto di psicodiagnostica clinica, criminologia, storia della medicina, igiene mentale dell’adolescenza, giudice onorario minorile e poeta, Giovanni Sollima è al suo Quinto libello di pezzi tesotici: Convenzionali, con gioia, lo intervista per voi.

Il primo Libello è del millenovecentonovantaquattro: cosa è cambiato in questi ventisei anni?

La mia matrice lirica di sentire è sempre la stessa. La mia modalità formale d’espressione poetica è, invece, via via cambiata. È maturata e si è sempre più aperta alla chiarezza del canto e dei significati espressivi. Ho abbandonato i dintorni di una personale rupe ermetica per librarmi con sempre più sicurezza negli spazi condivisi della comprensione e della rappresentazione comunicata. Qualcuno dice che questo è accaduto quando ho conosciuto mia moglie, ed oggi penso che, sì, fondamentalmente abbia ragione.

Lei scrive: L’elemento scatenante è stato il movimento di ripresa con il progetto editoriale “tesotico”, che prende corpo dalla mia fonte lirica, rappresentata dalla raccolta cronologica madre del mio agire poetico, che è “Tesos”. Questo è un mio termine originale, di classica risonanza, concepito dall’unione delle abbreviazioni di servizio “tes. os.”, tessuto osseo, che è immagine suggestiva e denominativa solidale con vissuti di studi biomedici, nonché evocativa di rimandi letterari. La durezza viva della realtà, passata al vaglio interpretativo e rappresentativo del poeta, è continuità significativa del proprio spazio percepito, sintonia di coscienza e sinfonia del tempo. Qual è il tessuto osseo dell’esistenza umana?

È un processo di confronto e scontro, un dialogo con la realtà, che appare dura e scabra, a volte crudele, non di rado inesorabile. D’altro canto il tessuto osseo, pur meno nobilmente pensato rispetto ad altri, come il tessuto nervoso o muscolare cardiaco, è l’entità strutturale che dà corpo al sistema che ci sostiene: è duro ed è vivo!

Lei è uno psichiatra e un poeta, dunque conosce e indaga l’anima: come si affronta lo smarrimento di una pandemia che ha reso pericolosi gli abbracci, che spesso per chi invece soffre sono l’unica e concreta, benché basata sull’immaterialità del sentimento d’affetto, àncora di salvezza?

Ne so qualcosa per esperienza professionale diretta, giacché lavoro in una Comunità terapeutica e riabilitativa per pazienti psichiatrici. Le Comunità residenziali sono in isolamento preventivo dall’inizio dell’instaurazione delle misure contro la pandemia: gli ospiti vedono i parenti da lontano, attraverso un vetro o, più frequentemente e facilmente, attraverso le video-chiamate. I pazienti sono stati, e tuttora lo sono, eccezionali, perché ognuno di loro, a modo proprio, ha capito la gravità della situazione e la peculiarità del momento storico vissuto. Ma è quotidianamente difficile. Ogni operatore di Comunità sa quanto sia importante, oltre che la parola consolatrice e terapeutica, la vicinanza fisica, il sorriso, la carezza, l’abbraccio. Il rispetto di un codice profilattico limita tutto ciò. Si sopperisce con lo sguardo ed il sorriso degli occhi, con un atteggiamento gioviale e sdrammatizzante, positivo e propositivo. Si è instaurata nel tempo una nuova sintassi comunicativa non verbale ad integrazione e complemento del consueto assetto dialogico. Allo stesso modo e in generale, nella società, si sono instaurati nuovi usi e abitudini, nuove modalità di saluto. Il distanziamento non ha soffocato la voglia di comunicare e di esprimersi degli uomini, la quale a volte, grazie ai mezzi messi a disposizione dal progresso tecnologico, si è fatta sentire con più forza e con maggiore coraggio d’esistenza.

Perché scrive di aver cercato la Medicina come un amante?

Leggendo la poesia, a un lettore è venuto spontaneo commentare Ed è stata una grande storia d’amore! Lo è, naturalmente, tuttora. La stessa Medicina, come arte e applicazione, è un’amante gelosa, ma molte cose modernamente sono cambiate nella concezione e nella pratica di questa nobile disciplina, che ancora fa i conti con la difesa dei propri connaturati valori classici di scienza e conoscenza e la trasfigurazione di una propria intima percezione romantica. Qualche tempo dopo ho scritto un’altra lirica, Ti ho trovato, ma questa è un’altra storia, che spero raccontare in un successivo pubblicato libello.

Quali sono le settembrine corde dell’irresistibile?

Sono quelle di un movimento di ripresa, anche ispirativo, proprio di Settembre. È un mese aperto al nuovo, pieno d’aspettative e contenuti, di sentimentale preludio e introspettivo istinto.

Dedica molte poesie al tema del ricordo: perché è così importante?

È quanto di più prezioso abbiamo. È quello che siamo. Non è solo la nostra traccia vitale, è la natura del nostro significare nel tempo ed oltre il tempo.

Qual è il regno dell’ineluttabile?

È la realtà in cui siamo immersi. È tutto ciò da cui non ci si può sottrarre, verso cui possiamo solo andare incontro con la nostra sensibilità e la nostra capacità di accettazione trasformativa.

Una sua poesia si intitola Una tempesta di sereno: è dall’unione dei contrari che nasce il futuro?

È un’ipotesi interessante, e intrinsecamente vera. Di certo è una dinamica suggestivamente estetica, che amplifica il portato dei significati. E nella relazione dipolare genera il movimento.

Qual è il finale di un’uscita incompiuta?

La lirica prende spunto da un finale storico, da una “finale”. Si riferisce alla finale del campionato europeo di calcio, persa dall’Italia con la Spagna nel 2012.

Lei ha scritto Dignità e libertà: come si riesce a conciliarle?

Non è facile. È una lotta. Sono gli orizzonti di richiamo verso cui l’essere umano grida tutta la vita. Sono ideali, che non si esauriscono con una vita. E sono valori di ricerca da comunicare ed esprimere sempre, da passare agli altri, vicini e lontani, alle generazioni future.

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Intervista

I Gamberetti tornano, più scintillanti che mai: intervista a Geoffrey Couët

di Gabriele Ottaviani

Xavier, folle, scandaloso, colorato, chiassoso, orgoglioso, molto più delicato, fragile, profondo e sensibile di quanto in realtà possa apparire a un primo e superficiale sguardo, torna in piscina, e con lui tutta l’irresistibile compagine che ha fatto impazzire non solo Cannes ma il mondo intero: il grido liberatorio dei gamberetti luccicanti (Les crevettes pailletées) che combattono l’omofobia e bruciano di desiderio per la vita e la felicità si leva ancora una volta dallo schermo. Per Convenzionali è come sempre un piacere immenso parlare con Geoffrey Couët, attore e attivista, bello, bravo, simpatico, brillante, intelligente, generoso: ne ha fatta di strada lo straordinario protagonista dell’eccezionale Théo et Hugo dans le même bateau…

La bella notizia, in un anno che ne è stato decisamente avaro, ha colpito tutti coloro che hanno visto le prime foto sul tuo profilo Instagram: come sarà questa nuova avventura per Les crevettes pailletées? Da dove si riparte?

Prima di tutto, grazie per questa gentile introduzione. Come dicono i personaggi in Théo et Hugo: Un po’ più d’amore nel mondo! È molto carino! Dire qualcosa in merito a Les crevettes per me non è facile, ma sbaglio o sembra che stiano vagando tra Russia e Giappone? Abbiamo avuto la gioia di scoprire la sceneggiatura durante il primo lockdown, ed è stata una vera ballata piena di avventura, sorprese, umorismo e amore! In questi tempi difficili questo è un copione che ti permette di evadere, spero che lo stesso avvenga per il film! In ogni caso, è assolutamente gratificante, ed è un piacere essere stati tutti insieme per qualche giorno per le prove.

Come si evolverà il tuo personaggio?

Il mio personaggio si sta evolvendo, sì! E ne sono particolarmente felice. Xavier è ancora così gay&proud, ma penso che sia cresciuto, che la vita gli faccia guardare il mondo e gli altri in modo diverso… Tutti i Gamberetti si evolvono, affermano i loro destini, i loro ideali. Ancora una volta è complicato dire qualcosa, sono vincolato dal segreto, ma ne vale la pena!

Di recente ti abbiamo visto spesso partecipare a manifestazioni di piazza per i diritti civili e dei lavoratori: qual è al momento la situazione in Francia?

Il nostro governo sta cercando di far passare leggi particolarmente repressive, è normale lottare contro ciò in cui non crediamo. Trovo magnifica la consapevolezza collettiva degli ultimi anni (il #metoo, il movimento Black Lives Matters, l’ecologia…), A patto che la consapevolezza si estenda attraverso effetti e azioni concrete! Ebbene, quando vediamo che Trump non è stato rieletto negli USA, diciamo a noi stessi che c’è speranza!

Come stai vivendo l’esperienza del Covid-19 e che conseguenze sta determinando in Francia? In Italia il settore culturale e dello spettacolo sta attraversando una grande sofferenza dal punto di vista economico e non solo: al di là delle Alpi com’è la situazione?

Il primo lockdown è stato un momento particolare di totale interruzione professionale, e improvvisamente una buona scusa per rimettersi a fuoco, ritrovarsi con sé stessi, ridefinirsi. Per me è stato stranamente benefico! Il secondo è molto più frustrante perché non è chiaro, soprattutto in Francia, con decisioni politiche a volte assurde. Ovviamente è difficile per la cultura, ma anche per la ristorazione, l’intrattenimento e molto altro ancora. Rimaniamo uniti e solidali, e spero vivamente che potremo dimenticare queste orribili maschere! Ho avuto la fortuna di lavorare durante questo secondo lockdown, quindi non mi lamenterò.

Stiamo pagando alla pandemia un enorme prezzo sanitario, sociale ed emotivo, senza carezze, abbracci e baci: come ne usciremo? E qual è la cosa che ti manca di più?

Ricordo che, prima di tutto questo, poteva essere persino fastidioso arrivare a una festa e baciare ogni persona, a volte quindici persone, estranei… Ma penso che ora sia qualcosa che mi farebbe quasi piacere, e che vorrà dire che la pandemia è finita. Poi, io amo ballare, amo l’abbandono della follia e la libertà che si respira profondamente quando si balla. È questo sfogo che mi manca di più. Trovare degli amici, andare a ballare tutta la notte con gioia e passione, senza pensare.

Quale sarà il primo viaggio che farai appena sarà possibile? Suggerisco Roma, ovviamente…

È una buona idea e l’Italia mi è cara! Ho il sogno di andare un giorno a trascorrere l’estate a Procida. Immagino un’amaca, una pila di libri, il sole e il mare… In questo momento stiamo girando Les Crevettes all’estero, quindi una volta terminate le riprese sarei felice di tornare nel mio paese. Ma adoro viaggiare così tanto, sono in viaggio, presto ci saranno altri viaggi!

Di che parla Hurler sur les murs, il tuo film da regista?

Hurler sur les murs è il mio primo film da regista di documentari. Si tratta di un viaggio assieme al movimento femminista che fa affissioni di manifesti non autorizzati sui muri delle città. Forse ce ne sono anche in Italia? Fare un documentario è stata un’avventura meravigliosa, sto pensando alla prossima!

Facci sognare: dopo Haut perchés tornerai ancora a lavorare con Olivier Ducastel, Jacques Martineau e soprattutto con François (Nambot)?

…Lo spero con tutto il cuore! Ma è più a loro che la domanda dovrebbe essere posta. Tuttavia, non sono preoccupato: adesso siamo una famiglia e le famiglie finiscono sempre per riunirsi!

Cosa ti auguri per il futuro e per Les crevettes pailletées?

Che la Terra possa ballare un valzer di nuovo nella giusta direzione, che possiamo tenerci per mano e che possano i Gamberetti inondarci della loro esultante follia!

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Intervista

Les Crevettes sont de retour, plus pailletées que jamais: interview avec Geoffrey Couët

par Gabriele Ottaviani

Xavier, fou, scandaleux, coloré, bruyant, fier, beaucoup plus délicat, fragile, profond et sensible qu’il n’y paraît au premier coup d’œil superficiel, retourne à la piscine, et avec lui toute l’équipe irrésistible qui a rendu fou non seulement Cannes mais le monde entier: le cri de libération des Crevettes pailletées combattant l’homophobie et brûlant d’envie de vie et de bonheur s’élève à nouveau de l’écran. Pour Convenzionali, c’est toujours un grand plaisir de parler à Geoffrey Couët, acteur et activiste, beau, talentueux, gentil, brillant, intelligent, généreux: l’extraordinaire protagoniste de l’exceptionnel Théo et Hugo dans le même bateau a parcouru un long chemin…

La bonne nouvelle, dans une année décidément avare, a frappé tous ceux qui ont vu les premières photos sur votre profil Instagram: à quoi ressemblera cette nouvelle aventure pour Les crevettes pailletées? D’où partons-nous?

Avant tout merci pour cette introduction si gentille. Comme les personnages le disaient dans Théo et Hugo: Un peu plus d’amour dans le monde! Ça fait très plaisir! Pour Les Crevettes il m’est difficile d’en dire trop, mais ils sembleraient qu’elles se baladent entre la Russie et le Japon? Nous avons avons eu la joie de découvrir le scénario pendant le premier confinement, et ce fut une véritable ballade pleine d’aventure, de surprises, d’humour et d’amour! Dans ces temps difficile c’est un scénario qui permet complètement de s’évader, j’espère qu’il en sera de même pour le film! En tout cas c’est absolument réjouissant, et un bonheur de nous retrouver tous ensemble depuis quelques jours pour les répétitions.

Comment votre personnage évoluera-t-il?

Mon personnage évolue, oui! Et j’en suis particulièrement heureux. Xavier est toujours aussi gay&proud, mais je pense qu’il grandi, que la vie l’amène à regarder le monde et les autres différemment…! Toutes les Crevettes évoluent, affirment leur destins, leurs idéaux. Encore une fois, il est compliqué d’en dire trop, je suis tenu au secret, mais patience, ça vaut le coup!

Récemment, nous vous avons souvent vu participer à des manifestations de rue pour les droits civils et ouvriers: quelle est la situation en France en ce moment?

Notre gouvernement essaye de faire passer des lois particulièrement répressives, il est normal de lutter contre ce en quoi on ne croit pas. Je trouve magnifique les prises de consciences collectives de ces dernières années (Me too, Black Lives Matters, l’écologie…) pourvue que la prise de conscience se prolonge par des effets et des actes concrets! Bon, quand on voit que Trump n’a pas été ré-élu aux USA, on se dit qu’il y a de l’espoir!

Comment vivez-vous l’expérience de Covid-19 et quelles conséquences cela a-t-il en France? En Italie, le secteur de la culture et du divertissement subit de grandes souffrances d’un point de vue économique et non seulement: quelle est la situation au-delà des Alpes?

Le premier confinement était un moment particulier d’arrêt professionnel total, et du coup un bon prétexte pour se recentrer, se retrouver avec soi-même, se re-définir. Il m’a été bizarrement bénéfique! Le second est bien plus frustrant car pas clair, particulièrement en France avec des décisions politiques parfois absurdes. C’est évidemment dur pour la culture, mais aussi la restauration, le divertissement et tant d’autres. Restons unis et solidaires, et j’espère vivement que nous puissions oublier ces affreux masques! J’ai eu la chance de travailler pendant ce second confinement, aussi je ne me plaindrai pas.

Nous payons un prix sanitaire, social et émotionnel énorme à la pandémie, sans caresses, câlins et baisers: comment en sortirons-nous? Et quelle est la chose qui vous manque le plus?

Je me souviens qu’avant tout ça, cela pouvait être pénible d’arriver à une soirée et de faire la bise à chaque personne, des fois 15 personnes, des inconnus… Mais je crois que maintenant c’est quelque chose qui me ferait presque plaisir, et qui voudra dire que la pandémie est terminée. Ensuite, j’aime danser, j’aime l’abandon la folie et la liberté qui respirent à fond quand on danse. C’est cet exutoire qui me manque le plus. Retrouver des amis, aller danser toute la nuit avec joie et fougue, sans réfléchir.

Quel sera le premier voyage que vous ferez le plus tôt possible? Je suggère Rome, bien sûr…

C’est une bonne idée, et l’Italie m’est précieuse! J’ai le rêve d’aller un jour passer un été à Procida. J’imagine un hamac, une pile de livre, le soleil et la mer… Pour l’instant nous tournons les Crevettes à l’étranger, aussi une fois le tournage terminé, je serais heureux de retrouver mon pays. Mais j’aime tellement voyager, j’ai la bougeotte, il y aura vite d’autres voyages!

De quoi parle Hurler sur les murs, votre film de réalisateur?

Hurler sur les murs est mon premier en tant que réalisateur de documentaires. Il fait un voyage avec des colleuses, le mouvement féministe qui fait de l’affichage sauvage sur les murs des villes. Peut être avez vous des colleuses aussi en Italie? Réaliser un documentaire a été une aventure merveilleuse, je réfléchis à la prochaine!

Faites-nous rêver: après Haut perchés allez-vous retourner travailler avec Olivier Ducastel, Jacques Martineau et surtout avec l’adorable François (Nambot)?

… je l’espère de tout mon coeur! Mais c’est d’avantage à eux qu’il faut poser la question. Cependant je ne suis pas inquiet: nous sommes une famille à présent et les familles finissent toujours par se retrouver!

Que souhaitez-vous pour l’avenir et pour Les crevettes pailletées?

Que la Terre se remette à valser dans le bon sens, qu’on se prenne la main, et que les Crevettes nous arrosent de leur folie jubilatoire!

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Intervista

Crescita, cambiamento, sviluppo: l’Open Innovation secondo Leonardo Valle

di Gabriele Ottaviani

Leonardo Valle, esperto internazionale di Open innovation, Digital trasformation, Design thinking, autore del best seller Advanced Advisory. Da Adriano Olivetti ad Alain Deneault, dal progresso intelligente alla lotta contro la mediocrazia. La forza delle nuove competenze, saggista, editorialista, titolare della scrittura dei nuovi paradigmi di business Advanced Advisory®, Cross Platform Competence® e Intelligent Sharing Economy®, tra i primi ad affrontare i temi della Quarta rivoluzione industriale, uno dei riferimenti nazionali per la transizione digitale delle PMI, primo Advanced Advisor in Italia, curatore del corso avanzato di formazione e specializzazione per professionisti e imprese nato dai nuovi paradigmi, ex Manufacturing Manager presso la Koch-Glitsch, attualmente Direttore Generale della Financial & Capital Advisor s.r.l. impegnato nella divulgazione delle opportunità per le PMI italiane rappresentate dal Green Deal europeo, indaga il cambiamento e le possibilità di sviluppo nel suo interessantissimo Open innovation: Convenzionali con gioia lo intervista per voi.

Cosa sono gli Open Innovation Center?

L’Open Innovation è lo scenario ideale per il raggiungimento e la creazione di nuove opportunità di business propedeutiche alla creazione di maggiore produttività. Si basa sulle relazioni tra azienda e soggetti esterni, in primis Università e le supply chain integrate. Il passaggio da innovazione chiusa a Open Innovation mette in discussione le caratteristiche sulle quali le imprese tradizionali hanno basato la propria egemonia per decenni, con effetti anche sulla trasformazione dei modelli di business. Io sostengo che l’innovazione chiusa non esiste più oppure è di fatto non più sostenibile, e che l’innovazione aperta sia il modo più corretto per fronteggiare i cambiamenti del mercato, e passare dal nanismo imprenditoriale a ecosistemi competitivi in grado di attrarre tutte quelle risorse e tecnologie che le aziende da sole non sono in grado di attrarre.

Quale prezzo pagheremo dopo il Covid? Economico, sanitario, emotivo, culturale, sociale, scolastico?

Il Covid-19, come tutte le crisi, ha accelerato una crisi di sistema che già era economica, sanitaria, culturale e sociale, perché le imprese italiane, pubbliche e private, non sapevano neppure che la quarta rivoluzione industriale era arrivata, usavano le nuove tecnologie solo in modo passivo, da consumatori, e non in modo attivo; la classe dirigente non ha prodotto piattaforme digitali ne in ambito sanitario né in ambito scolastico e soprattutto il sistema universitario non sta formando i nostri giovani su quelle che saranno le professioni di domani. Il prezzo più grande che potremmo pagare dopo il Covid-19 è ripartire con le nostre imprese così come le avevamo prima, è cambiato il mercato, sono cambiate le tecnologie, se non comunichiamo il cambiamento in atto e se non saremo in grado di cambiare, gran parte del tessuto economico del paese potrebbe essere non competitivo. Per questo, il libro Open Innovation, che in modo serio e concreto rappresenta uno strumento per gli imprenditori, manager e professionisti che decidono di investire su se stessi senza aspettare dall’esterno e tantomeno dal pubblico soluzioni e indicazioni che non sono in grado di dare.

L’Italia vuole davvero cambiare, progredire, innovare?

Al di là della volontà di cambiare, abbiamo il dovere di farlo e noi italiani abbiamo una grande chance in questo nuovo scenario, ovvero il talento, che è l’elemento più importante che viene valorizzato dalle nuove tecnologie. È il talento che è alla base di startup di successo di tantissimi nuovi mestieri che i nostri giovani potranno esercitare con successo in tutto il mondo.

Quali sono le responsabilità della politica e della burocrazia nell’attuale situazione del nostro sistema nazionale?

Sicuramente siamo di fronte alla più grande crisi del dopoguerra con la peggiore classe dirigente, ma comunque nella terza rivoluzione industriale basata sul grande consumo energetico, del territorio, produzioni sempre più invasive e infrastrutture pesanti, noi come sistema Italia non potevamo competere. Al contrario, nella quarta rivoluzione industriale, dove le tecnologie abilitanti sono alla portata di tutti, con il talento italiano e la capacità di problem solving che abbiamo, possiamo essere protagonisti di un nuovo rinascimento italiano.

Cosa dovremmo imparare dall’estero e quali abilità possiamo diffondere ed esportare?

Possiamo imparare ad operare in open innovation, cioè le imprese italiane si devono aprire e condividere il loro know how con fornitori, partener, università, ecc. L’abilità che possiamo diffondere è il problem solving e soprattutto il vero made in Italy, che grazie alla block chain può essere meglio valutato e protetto rispetto al passato.

Ha ancora senso parlare di identità nazionale nell’era della globalizzazione?

Siamo cittadini europei di nazionalità italiana e nella globalizzazione possiamo essere protagonisti mantenendo due grandi patrimoni: il primo è quello italiano, leader in settori come l’agroalimentare, turismo e manifatturiero ad alto valore aggiunto tecnologico; il secondo è quello di essere europei e quindi di trovarsi all’interno di uno dei più grandi mercati del mondo con la capacità di fare sistema in modo veloce e semplice con altri partner europei di altissimo livello.

Quali opportunità del progresso tecnologico non abbiamo ancora saputo sfruttare pienamente?

Non abbiamo piattaforme e dorsali digitali italiane e questo ci impedisce di essere autonomi nella tecnologia; non stiamo sfruttando nuove tecnologie già disponibili come le stampanti 3D, la realtà virtuale, aumentata, immersiva e soprattutto non stiamo sfruttando le potenzialità delle nuovi reti quali wi-fi 6 e il 5G.

Perché l’Italia è ancora molto indietro per quel che concerne l’occupazione giovanile e femminile?

Anche questo è progresso mancato perché sia il pubblico sia il privato sono imbottiti di Mediocrazia e il mediocre che occupa quella posizione non per merito ma perché cooptato in quel ruolo non ha capacità e coraggio di aprirsi ai giovani e al prezioso contributo femminile. Non a caso, giovani e donne sono più presenti laddove l’innovazione e il progresso sono più presenti.

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Intervista

Silvia De Laude intervista Mariano Lamberti: ecco “La vita nascosta del tempo presente”

Convenzionali ha l’immenso onore di pubblicare una grande esclusiva: Silvia De Laude, curatrice con Walter Siti delle opere di Pasolini per Mondadori, intervista Mariano Lamberti sulla Vita nascosta del tempo presente.

Silvia De Laude e Walter Siti

Quello che colpisce subito nel tuo ultimo romanzo è un allargamento: è, banalmente, un testo molto più lungo delle tue prove narrative precedenti (il tuo primo “vero romanzo”, hai detto), ma soprattutto è un testo che si ‘allarga’ nello spazio e nel tempo, non più nel segno dell’allucinazione, come nel Lungo risveglio dell’impiegato E., sulla vita di Franz Kafka (2018), ma nel segno della realtà. Si va, con continui scarti temporali, avanti e indietro nel tempo, dal ’42 al 2018; c’è la Grecia, Dachau, Viterbo, Roma, Tel Aviv, dove si è trasferita con il marito la sorella del protagonista, il pittore omosessuale Max. Hai parlato per La vita nascosta nel tempo presente della tua “prima incursione nel romanzo storico”. Nella terminologia di Manzoni, un «componimento misto di storia e d’invenzione», nel quale entrano figure reali, fatti storici documentati, ma anche le figure reali cedono una minima parte della propria storicità per ottenere una più plausibile consistenza romanzesca. Tu sei un artista che ama contaminare linguaggi diversi, ma in questo caso da dove viene l’esigenza di misurarsi con la Storia con la S maiuscola? E in che misura le storie dei protagonisti riguardano la tua?

Nella cinematografia si parla di film da girare in costume quando la storia è ambientata dagli anni 80 in giù, perché gli oggetti, gli abiti, le scene sono per forza di cosa storicizzati. Credo che anche nel romanzo il margine di reinvenzione rispetto ai fatti storici sia sempre più ridotto; a parte l’episodio che si svolge nel 43, per la storia ambientata agli inizi del duemila non ho fatto solo un lavoro di memoria, ma anche di documentazione rispetto alle abitudini dei personaggi: per esempio ho dovuto dosare l’uso del cellulare e della comunicazione via web che non era esplosa in maniera incontrollata come oggi. Il romanzo non parte dall’esigenza di misurarsi con la Storia né con il romanzo storico, ma di seguire una volatile ma persistente intuizione: la sotterranea contiguità tra regimi totalitari e società capitalistica, la serializzazione dei corpi e delle anime destituiti dal libero arbitrio, c’è un parallelismo nel libro che potrebbe apparire eccessivo per qualcuno, tra il consumismo sessuale dei corpi e la deprivazione di dignità degli stucke, i corpi dei detenuti nei campi di stermino nazisti. Per rispondere alla tua domanda sulle storie dei protagonisti che mi riguardano, ognuno è portatore insano di fuga e d’inquietudine, chi fugge dall’artefatta funzionalità di una metropoli come Tel Aviv, chi fugge da Dachau e dall’incomprensibile ingiustizia cosmica e chi come Max, il pittore personaggio chiave del romanzo, fugge dal posto fisso e dall’incasellamento sociale.

La vita nascosta del tempo presente

Ogni esperimento di romanzo storico s’interroga con maggiore o minore consapevolezza da parte di chi scrive nel quadro dissidio latente tra invenzione e storia o, se si preferisce, tra finzione e realtà. Qui però c’è anche il tema della finzione che assicura una specie di riscatto del protagonista, mi pare, quando alla fine, riesce a realizzare l’opera che l’ha paralizzato per tanto tempo. Perché La vita nascosta nel tempo presente è una ambiziosa riflessione sul male nella storia, sul suo rapporto con l’arte, sulla responsabilità individuale dell’artista. Ma è anche la storia (per Max) di una impasse, un blocco che è insieme creativo e esistenziale, e trova uno scioglimento nel finale. Le ragioni di questo blocco sono diverse: personali e storiche (i due fili si intrecciano), e forse anche di “poetica”. Per due terzi del libro Max ingiallisce d’impotenza in rabbiosi tentativi d’arte materica che vorrebbero rappresentare l’orrore dei campi di sterminio: lo blocca anche un rifiuto di ‘estetizzare’ l’orrore, che sarebbe una diversa forma di banalità del male? Dare perfezione formale al male, alla Leni Riefensthal, sarebbe in qualche modo assecondarlo, e quindi un’altra forma di disumanizzazione?

Hai colto bene il tema centrale del libro,  affidato al personaggio di Max il pittore che si rifiuta di spettacolarizzare il dolore e l’orrore dei campi di sterminio dove celo, neanche troppo, una mia riflessione  sulla funzione  dell’artista che, a mio modo di vedere, non deve avere nessuna funzione, essere  invece una pietra di inciampo per  benpensanti e imprenditori filantropi che vorrebbero dettare anche le leggi della creatività con i loro social annacquati e senza drammi,  una coscienza infelice sempre contro,  una figura  nostalgica di artista puro che crea interrogando l’uomo… Sì, hai ragione, dare perfezione formale al male è un’altra forma di disumanizzazione: uno dei personaggi del libro comincia a disegnare figure geometriche imperfette per sottolineare che la creazione umana non è perfetta né seriale,  solo una macchina crea forme perfette.

Attraverso il personaggio di Melissa, che ha abbracciato il buddismo, e sta morendo di cancro, è introdotto nel libro il tema di una rinuncia al possesso che riporta alla cultura orientale. È uno dei tuoi temi, non solo nel filone poetico (penso a Fukyo, uscito quest’anno) Anche nel Lungo risveglio dell’impiegato E., che io ho amato molto, il “risveglio” di cui si parla è (anche) un risveglio in senso religioso buddista (Buddha in sanscrito significa appunto “il Risvegliato”), oltre ad altre  cose ancora: per il Lungo risveglio dell’impiegato E., il tuo continuo confronto con la grande tradizione romanzesca otto-novecentesca mi aveva fatto pensare addirittura che lo sconvolgimento percettivo del finale alludesse anche al più celebre “risveglio” del romanzo modernista, l’arduo e magnifico Finnegan’s Wake di Joyce. Qui quale funzione è da attribuire al personaggio di Melissa, che Max accompagna nella malattia con dolcezza, standole vicino fino alla fine? In che modo cioè si inserisce in una riflessione sul male nella storia, e nel suo rapporto con l’arte?

La malattia come metafora di Susan Sontag è un bellissimo libro che ho letto da ragazzo in cui la Sontag racconta come guarì della sua malattia ribellandosi all’idea che si è vittime del male del secolo; Melissa invece nel libro muore di cancro ma guarisce dalla malattia dell’eternità che è il tema del libro, per questo diventa un soggetto da dipingere nel quadro che Max tenta inutilmente di finire su Dachau. Melissa sta perdendo il suo peso come i deportati nei lager, tant’è che nel finale Max continua a ritirarla fino all’ultimo respiro. Melissa rappresenta il senso della fratellanza con la quale concepisco l’amicizia che è molto vicino all’amore, ho molti amici con i quali ho questo tipo di rapporto: totale, contrastato, assoluto. Melissa nel suo essere una star della malattia si avvicina alla morte con grande dignità e diventa  iconica: lascia la materia per diventare puro spirito, quando abbandoniamo ogni forma di attaccamento ci avviciniamo alla perfezione umana, artistica.

Si può dire che il romanzo abbia un lieto fine? Dopo la riuscita dell’opera, e l’atto psicomagico del gallo nero ucciso e cucinato al miele per venire a patti con il fantasma paterno Max arriva a godere di ogni attimo, emozioni rigeneranti come quando il fulmine ripulisce improvvisamente l’atmosfera dalle cariche vaganti di energia elettrica. Godere ogni attimo, che è la cosa più difficile del mondo.

Mentre scrivevo il finale pensavo che fosse una vera conclusione felice, in realtà l’idea che chiusi i conti con il passato si possa finalmente vivere il presente è un’idea estremamente ambigua che tu con la tua intelligente e sensibile accortezza mi hai fatto notare; godere di ogni attimo non è un atto consapevole ma una preghiera, e per pregare intendo entrare in uno stato meditativo con l’essenza della vita.

Quando hai parlato di “prima incursione nel romanzo storico” intendevi che ne hai già in mente un altro?

In effetti ho pronto un altro romanzo storico, “Il Maestro“, che più storico non si può, si svolge nel Giappone medievale ed è la biografia romanzata di Nichiren Daishonin, il controverso e amatissimo ri-fondatore del buddismo giapponese, e la storia è raccontata dal suo allievo prediletto Nikko Shonin, un racconto epico ma narrato in maniera umana troppo umana dal suo allievo. Il libro uscirà a fine agosto con un’importante casa editrice romana.

Mariano Lamberti
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