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“Tu non sapevi”: intervista a Luca Cerullo

COVER-Tu-non-sapevi-725x1024-210x310di Gabriele Ottaviani

Luca Cerullo ha scritto Tu non sapevi: Convenzionali con gioia lo intervista per voi.

Da dove nasce questo libro?

Da un’idea e da un’immagine. L’idea di una ragazza che non riesce ad essere adulta, che a un certo punto comincia a riflettere sulle ragioni di una fatica che per gli altri sembra non esserci. È Sara, la protagonista del libro. Il suo volto mi girava in testa da diverso tempo, la immaginavo mentre si muoveva, faceva cose, sempre un po’ goffa nei gesti e nelle parole, provando a tenere in piedi una vita in fondo così normale. E poi l’immagine di una donna sola, che si ostina a tacere riguardo a sé stessa. Quest’altra donna, Flora, era per me un enigma. Proprio non riuscivo a trovare le ragioni di quel silenzio prolungato.

Quanto contano le radici nella formazione della nostra identità?

Bellissima domanda, ma anche molto impegnativa. Credo che dipenda anche dal luogo in cui quelle radici si piantano. Esistono luoghi e luoghi, radici profonde e altre che lo sono un po’ meno, facilmente estirpabili. Nel romanzo alcuni personaggi fanno di tutto per recidere, poi però alla fine poco possono contro la natura stessa delle cose.

Napoli e Procida: non solo due luoghi, ma due veri personaggi nella sua storia. Cosa rappresentano?

Entrambe sono schiave di profonde contraddizioni, incastrate in una storia che le vuole immortali ma anche estremamente vulnerabili. Questo logorio, che muove un passo ogni giorno ma non arriva mai ad annientare, le rende affascinanti. Non so se siano veri personaggi, di certo condizionano il modo di pensare e di vivere dei personaggi di carne e ossa. Questi ultimi, a più riprese, sentono il desiderio di andare via. È una sensazione che sia Napoli che Procida, prima o poi, possono generare. Perché spesso da queste parti appare tutto difficile, incomprensibile e inaccettabile. È una logica inesistente, eppure ci sono sfumature, spesso impercettibili, che rimettono a posto le cose. Dura poco, ma quanto basta per non odiare.

Quand’è che si diventa realmente adulti?

Non so se esista “il momento in cui”. Esiste di certo una tensione tra l’adulto che siamo o diventeremo e il bimbo spaventato che non vuole crescere. Credo che sia più importante che una volta grandi, quella parte lì non sparisca del tutto, perché sono sicuro che è il bimbo a fare grandi cose, non l’adulto. L’adulto le declina secondo le regole, ma non ci mette quasi mai l’idea.

Come si elabora la perdita?

Altra domanda a cui so rispondere solo in modo parziale.  Suppongo che ognuno prenda la propria strada, il che non vuol dire che sia quella giusta. Nel romanzo Sara affronta la perdita con iniziale sollievo, senza ascoltare il vuoto che l’attraversa, appena la vita si ferma un secondo per farla rifiatare. Però, probabilmente, tornerà tutto all’improvviso e chiederà il conto.

Perché scrive?

Perché mi piace, tutto qui. Perché riesce a farmi evadere e mi impone di vedere le cose da un punto di vista diverso, mettendomi in contatto con quella parte infantile di cui parlavo prima. Quella che crede a tutto.

Il libro che avrebbe voluto scrivere, il film che non si stancherebbe mai di rivedere.

La camera azzurra, di Simenon. Lo trovo un capolavoro di equilibrio, sensualità e ritmo narrativo. E rivedrei mille volte Shining, di Kubrick, perché non è film di paura, è un film sulla paura e credo che per raccontare storie la paura sia molto più importante del coraggio, o almeno porta in luoghi diversi da quelli soliti.

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