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“La leggenda dei giocolieri di lacrime”

81c8ty-3XsL._AC_UY218_di Gabriele Ottaviani

Ed ecco che in una via di Szeged appare uno strano carro. Passa rumorosamente per le strade innevate, si ferma un poco davanti alla sinagoga, al caravanserraglio, alle terme, sotto lo snello minareto, e intanto dal fondo della vettura si affacciano a spiare alcuni personaggi particolari. O forse sono figure del tutto normali. Insomma, ormai li conosciamo bene. Alla fine dei suoi giri, il carro si ferma vicino all’accampamento illuminato dalle torce dei tartari, che si trova poco fuori dal quartiere Palánk. Uno di quei personaggi, suscitando sghignazzamenti maligni da parte degli uomini di Iszmail, chiede di essere ricevuto dall’agha. L’orario è insolito. La sfrontatezza è insolita. Disturbare la caviglia ornata d’oro di sua maestà il Khan quando il sole se l’è già svignata dal cielo non dimostra coraggio, ma segnala piuttosto una stoltezza letale. Ovunque vadano, qualunque parte del corpo d’Europa calpestino, i tartari sono abituati a essere accolti con terrore, e a questo sentimento si accompagna solitamente anche l’odio nei loro confronti, che a volte può essere clamoroso e rumoroso, in altre occasioni invece è più nascosto, deducibile più che altro da certi tremori delle ciglia, certi picchiettii delle unghie. I viaggiatori sul carro sono cinque uomini comuni. Pazzi, temerari, oppure in possesso di qualche segreto in grado di difendere la loro vita ovunque vadano, con chiunque abbiano a che fare.

László Darvasi, La leggenda dei giocolieri di lacrime, Il saggiatore. Traduzione di Dóra Várnai. Ambientato, durante tutto il corso della dominazione, nell’Ungheria ottomana, il territorio mitteleuropeo occupato – e in gran parte sfruttato fino allo stremo – fra il millecinquecentoquarantuno e il milleseicentonovantanove dall’impero che fu anche di Solimano il Magnifico, questo monumentale romanzo, complesso e articolato ma mai arduo oppure ostico o respingente, anzi, dal respiro suggestivo, ampio ed epico, nell’accezione più omnicomprensiva del termine, rifugge ogni genere di categorizzazione tassonomica, squadernando dinnanzi al lettore una potenza evocativa e inventiva assolutamente non comune, che si deve non solo alle pressoché infinite possibilità della letteratura e del linguaggio, ma anche a un’impostazione ontologicamente visionaria: sono simbolici, scombiccherati e sgangherati saltimbanchi quelli che attraverso una terra che la guerra ha reso desolata si accostano sul loro circense e sbrindellato conestoga, un carro di Tespi sui generis, a ogni sorta di personaggio, ognuno con una dote assurda e fascinosa, intessendo una narrazione fatta di prodigi spaventosi e destabilizzanti, che rappresentano l’assoluta e inesorabile imprevedibilità della condizione umana.

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