di Gabriele Ottaviani
Avevano addirittura la stessa voce, tanto che risultava difficile distinguere l’uno dall’altro. Inoltre, fra loro esisteva un legame intrinseco e un’affinità peculiare, tanto che quando uno si ammalava, succedeva la stessa cosa pure all’altro. Come si suol dire, erano una sola mela divisa in due. Ad ogni modo, entrambi scelsero la stessa professione di mercante e quando compirono vent’anni si recarono in India, esportando i tipici prodotti di Rey, ovvero vari tipi di tessuti, sete, cotonine stampate, mantelli, scialli, aghi da cucito, ceramiche, argilla per lavare i capelli e astucci portapenne. Mio padre si stabilì a Benares, mentre mio zio iniziò a commerciare viaggiando per l’India. Dopo un certo lasso di tempo, mio padre s’innamorò di una ragazza vergine, una danzatrice sacra presso un tempio dedicato al Lingam. I suoi doveri comprendevano le danze rituali davanti al grande idolo Lingam, nonché prendersi cura del luogo. Era una fanciulla dal sangue caldo, dalla pelle olivastra, i seni a forma di limone, grandi occhi allungati con le sopracciglia che s’incrociavano sulla fronte e in mezzo alle quali si dipingeva un neo rosso. Riesco a immaginarmela, mia madre, in un sari di seta colorata con rifiniture in oro, il petto scoperto, con una fascia di broccato legata alle pesanti trecce nere come la notte eterna, raccolte sulla nuca, polsi e caviglie fasciati da bracciali che tintinnano e l’anello d’oro al naso.
La civetta cieca, Sadeq Hedayat, Carbonio. Traduzione e introduzione di Anna Vanzan. Miniaturista di portapenne divorato dalla follia, sposato con la sua sorella di latte, che chiama la Sgualdrina, perché lo odia, non gli si concede, ha amanti a bizzeffe, di bassissima istruzione e della più varia estrazione, venditori di trippa, rosticcieri di frattaglie, capi della polizia, filosofi, che comunque gli preferisce, il protagonista di questo deflagrante e devastante viaggio allucinato e allucinatorio, intriso d’alcol e droga, nell’abisso della coscienza abietta, romanzo breve e lacerante, infuocato, lancinante, travolgente, vibrante pietra miliare della letteratura dell’Iran, terra in cui ancora oggi, a ottantaquattro anni dalla prima pubblicazione, è ancora assai censurato, libro maledetto per la prima volta reso in italiano non per il tramite di una lingua ponte ma direttamente dal persiano, è un uomo in balia di sé e dei suoi demoni. Volutamente ripetitiva, circonvoluta, labirintica, ossessiva, la prosa del coltissimo e raffinatissimo Hedayat, nato a Teheran, ma profondo conoscitore e critico anche dell’occidente oltre che della sua nazione d’origine, nel millenovecentotré, morto suicida a Parigi quarantotto anni dopo, è un’esplosione. In cui si rivela tutta la policromia dell’angoscia umana, in un turbine di rimandi, riferimenti, citazioni, contiguità (Sartre, Cocteau, Apollinaire…). Monumentale, sensazionale, imprescindibile: dopo aver letto La civetta cieca è impossibile essere rimasti gli stessi di prima.
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