di Gabriele Ottaviani
Ricordo di aver posato la lettera in preda a una sorta di panico. Come mi capitava spesso mentre lavoravo, temevo che mi stessero osservando. Avevo colleghi ficcanaso che mi chiedevano di frequente che cosa stessi facendo, su cosa fossi al lavoro, che compito stessi svolgendo al momento. Sapevo che se gli avessi mostrato la lettera, il mio capo avrebbe reagito con disgusto e me l’avrebbe fatta buttare via. Magari mi sbagliavo, ma sentivo che non l’avrebbero trovata di alcuna importanza. Probabilmente il loro principale cruccio sarebbe stato capire come avesse fatto quel detenuto a trovarci. Non riuscivo a decidere che cosa fare, quindi mi misi la lettera in borsa e quella sera la portai a casa con me.
Lingua nera, Rita Bullwinkel, Black coffee, traduzione di Leonardo Taiuti. Fossero tutti così gli esordi, il mondo della letteratura sarebbe il giardino delle Esperidi, e invece talvolta tocca affondare tra sabbie mobili e rovi: qui, invece, anche quando l’indagine si sposta dal piano del reale a quello del surreale, dell’abietto, dello squallido, del grottesco, dell’ossessione, soprattutto quella generata dalla mente, dalla ragione che, quando cede il passo al sonno, si sa, dà sovente vita a mostri abominevoli, ci si trova di fronte alla promessa della bellezza, che emerge come la luce di un faro dall’oscurità più buia quando, attraversando il travaglio del desiderio, gli uomini e le donne protagonisti di questi racconti dalla voce nuova, originale, stentorea, fresca, matura, canora, corale e caleidoscopica scendono a patti con le proprie imperfezioni per immergersi in quelle degli altri e costruire il futuro. I corpi sono oggetti, gli oggetti corpi, amore e disamore si avviluppano e alimentano, affondano le radici nello stesso fertile ma sdrucciolevole terreno, si scaldano al fuoco della medesima passione: sensazionale.