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“L’alfabeto di fuoco”

51I-3ZjyqsL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

All’inizio di dicembre cominciammo a restare chiusi in casa. Muti. Se parlavamo, i nostri visi si indurivano in un precoce rigor mortis. Il nostro quartiere era diventato un deserto, soffocato dall’inverno. Per i pochi bambini rimasti faceva troppo freddo persino per andare a caccia. Non so come altro potrei definire quello che facevano ma qualche volta sciamavano per l’isolato, impestando le case di parole finché gli adulti non erano costretti a rifugiarsi nei boschi. Vedevi un vicino con un fucile e poi sentivi lo sparo. Gli alberi erano esangui, faticavano a stare ritti nel vento. Noi andavamo alla finestra e aspettavamo, spiando i bambini quando uscivano in branco. Avrebbero dovuto essere chiamati in un altro modo: abbaiavano vocali tossiche nei megafoni mentre vagavano per le strade tenendosi per mano. Speravo che non si voltassero, vedendoci alla finestra. Speravo non venissero sotto casa, premendo il megafono contro il vetro. E speravo sempre di non vedere la nostra Esther, ma troppo spesso era nel branco, più alta degli altri, che saltellava nella nebbia notturna dell’inverno, scaldandosi le mani con il fiato. Alla fine aveva trovato un gruppo di bambini con cui uscire. Se c’era una fuga da organizzare, noi non ci eravamo ancora riusciti, anche se sempre più vicini riempivano le macchine e lasciavano di soppiatto la città quando ne avevano abbastanza. La quarantena non era stata dichiarata, ma nella nostra area fermavano i bambini ai posti di blocco, lasciando passare solo gli autobus. Un isolamento basilare. Se volevi andartene, andavi da solo. E comunque nei bagagliai venivano caricati fagotti ingombranti. Oggetti che dovevano essere trasportati da due persone.

L’alfabeto di fuoco, Ben Marcus, Black coffee, traduzione di Gioia Guerzoni. È una delle frasi dal significato simbolico, allegorico e metaforico in assoluto più usate fra tutte. Le parole uccidono. Perché gli insulti, gli improperi, le calunnie possono spezzare il fragile equilibrio delle anime. La situazione però in questa fattispecie è ancora più grave. Perché in un’America distopica eppure attualissima, apocalittica, orrenda e orrorifica, si è diffusa una piaga concretamente mortifera: inizialmente solo i bambini sembrano portatori sani di questa malattia che colpisce gli adulti, li fa ammalare, avvizzire, morire, ma via via non si può più evitare di guardare in faccia la realtà. Che dice chiaro e tondo che tutta la comunicazione, sia quella parlata che quella scritta che finanche quella mimata è esiziale. Sam e Claire sono giovani. Hanno una figlia, Esther, un’adolescente come tutte. Hanno sempre avuto molte energie. Ora sono nella catatonia più totale. Ma si rifiutano di credere che sia colpa delle parole di Esther: pare proprio però che l’unica possibilità per loro di salvarsi sia abbandonarla e andare via lontano. Quando è tutto deciso, tuttavia, Claire scompare: e Sam inizia a cercare. Lei, ma non solo. Che potere ha il linguaggio? Che significa essere genitori?… Imprescindibile.

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