di Gabriele Ottaviani
Giorno dopo giorno, per sette infiniti anni, Teresa, prima di fuggire in Germania, aveva sperato e disperato di trovare nella cassetta della posta una lettera decisiva, una lettera che facesse balzare il suo cuore e svincolasse dai suoi polmoni un grido liberatorio: ma nessun editore italiano, grande o piccolo, del Nord o del Sud, era stato in grado di scriverla, nessuna delle loro ipocrite e inconcludenti lettere, di quelle lettere che sordamente si affastellavano l’una sull’altra, era andata mai al di là di vacui giudizi lusinghieri, per lei altrettante subdole lame. Una via pulita e diretta, o anche una via con ostacoli e deviazioni, ma logica e percorribile fino alla meta, senza protezioni, senza appartenenze a corti, senza corruzione del midollo nella politica, con le proprie sole forze e il vanto di un reale talento, magari sostenuto dalle ali della fortuna, in Italia, non era neanche lontanamente prevista. C’erano solo vie tortuose, fatte tutte di giravolte e beffe, vie complicate all’infinito, che non portavano in nessun luogo. E non era nemmeno possibile, al momento opportuno, guadagnarsi con l’abilità un appoggio. Questa conclusione è inoppugnabile, perché non ci fu mai artista altrettanto testardo, indomabile e perseverante di Teresa, la quale, si può esserne certi, le ha provate tutte. Il letargo e l’inaccessibilità delle case editrici erano, come se non bastasse, abbondantemente rispecchiati dal letargo e dall’inaccessibilità di coloro che contavano, i quali parevano aver stretto con quelle un patto leteo, sì che tutte le porte sembravano chiuse e ogni affermazione letteraria impossibile. Non essendoci una personalità del mondo letterario o culturale che potesse ammirare e venerare dal profondo del cuore, la quale, riconosciuta la sua più che giusta causa, l’avesse sollevata con la propria forte e autorevole mano dall’oscurità, rompendo l’incanto di quella foresta pietrificata, Teresa aveva dovuto ripiegare su personaggi di relativo o dubbio merito, per cui nutriva poca o nessuna stima, purché celebri o affermati.
L’ultima estate di Teresa Tellez, Lodovica San Guedoro, Felix Krull. Andrea, Teresa, Giovanni. Tre scrittori. Tre artisti. Tre geni. Tre amici. Tre morti. Suicidi. Si sono avvelenati. Con delle erbe. Giovanni ama Teresa. Che è vittima di forti tormenti dell’anima. E che è la compagna di Andrea. Che vuole bene, riamato, a Giovanni. Che, come ognuno di loro, soffre terribilmente quel male di vivere che già spesso ha incontrato e che gli impedisce di riconoscersi in un mondo che pare non saper proprio cosa fare della sua sensibilità d’artista, che pare non essere in grado di rapportarsi alla natura senza violarla con estrema superbia. Con il consueto stile classicheggiante e gravido di riferimenti sin già nell’onomastica, ricco di digressioni, cesellato nel dettaglio, variegato e dal multiforme ingegno, originale e d’ampio respiro, tale da ricordare, se ci trovassimo a parlare d’arte figurativa, l’estro di un capitello corinzio, Lodovica San Guedoro, da due anni presenza fissa nella longlist del Premio Strega, per il quale è stata presentata finanche da Dacia Maraini, racconta una storia intensa e, anche nei suoi passaggi più immediatamente riconoscibili come concreti, profondamente simbolica.