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“Boy erased”

Piatto_bc_BoyErased_B-704x1030di Gabriele Ottaviani

«E in chiesa ci vai?» domandò David. Il semestre era iniziato da un paio di mesi e ancora ci conoscevamo a malapena. Dopo la nostra chiacchierata notturna sull’evoluzione avevo ritenuto necessario mantenere le distanze, sebbene di tanto in tanto ci incontrassimo in uno dei dormitori e talvolta andassimo a correre insieme. Era seduto nella sala comune, con i pantaloncini rossi calanti che quasi toccavano terra. Di solito andava a correre molto presto la mattina, poi restava seduto per ore a guardare i talk show col sudore che gli si asciugava addosso e il respiro che lentamente si placava. Bevve un sorso d’acqua da una bottiglia con lo stemma del college, poi si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Ci vado» dissi, alzando gli occhi da una copia di Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. «Ogni tanto». Era una bugia. Dopo due mesi ancora non avevo preso parte neanche a una funzione. Quando mia madre telefonava, mi inventavo delle balle su quanto fossero tutti molto gentili nella chiesa battista locale, sulle cene cui prendevo parte, sui maccheroni al formaggio, i fagiolini e il pollo arrosto che mangiavamo dopo la messa domenicale. A David non dicevo niente. Ogni notte, in camera, fissavo le costellazioni sul soffitto a buccia d’arancia e immaginavo che Dio mi guardasse, che stesse decidendo che farne dei miei pensieri peccaminosi, quelli in cui immaginavo di sgattaiolare giù per la scala antincendio fino al dormitorio di David, fino al suo letto, di rannicchiarmi dietro di lui e sfregargli l’erezione tra le chiappe dando inizio a qualcosa che non poteva più essere cancellato. Mi leccai il dito per girare pagina e cambiai posizione sulla sedia accanto alla finestra. Come l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, anch’io non lasciavo quasi mai la mia stanza o la sala del dormitorio di David, a meno che non fosse assolutamente necessario. Andavo e tornavo dai corsi senza incrociare lo sguardo dei miei compagni, perché temevo che anche il più piccolo scambio presagisse qualcosa di sinistro. Le ragazze, per le quali prima che perdessi peso non esistevo neanche, ora bisbigliavano tra loro al mio passaggio, mi lanciavano occhiate furtive. Pur sapendo che molto probabilmente cercavano solo di farsi notare, non potevo fare a meno di pensare che si stessero sussurrando il mio segreto, che riuscissero chissà come a vedere la parte più nascosta di me. Per scoraggiare qualsiasi approccio mi mettevo sempre la maglietta di Kid A dei Radiohead, un intrico di righe puntute bianche e nere che ricordavano un inquietante Kilimangiaro, e stavo bene attento a non mostrare mai divertimento o sorpresa, soltanto un cipiglio introverso. Se non avessi parlato, se non mi fossi fatto notare, allora forse sarei riuscito a sfuggire anche al sauronesco occhio di Dio.

Boy erased – Vite cancellate, Garrard Conley, Black coffee, traduzione di Leonardo Taiuti. Non c’è nessuna vergogna a essere quel che si è, purché non si sia delle persone malvagie. Ma non tutti la pensano così. Anzi. Spesso vogliono imporre a qualcun altro ciò che va bene per loro stessi, ritenendo che sia la cosa giusta da fare. E lo è. Senza dubbio. Sempre che l’obiettivo sia rovinare l’esistenza a chi si sostiene di amare. Perché chi ama non giudica. Altrimenti non è amore. E non è facile essere il figlio di un pastore battista nonché profondamente integrato nella vita della comunità e soprattutto della chiesa nella piccola città natia dell’Arkansas, America profonda, cento per cento Bible belt, e al tempo steso accettare il fatto di essere gay. Non perché ci sia nulla di male nell’esserlo, evidentemente. Né nell’avere una chiesa e una famiglia, com’è ovvio. Però come si fa a non lasciarsi devastare dal dolore e a trovare la forza del perdono quando chi ti ha messo al mondo ti dice che o ti fai curare – pleonastico a dirsi, l’omosessualità non è affatto una malattia – o perderai tutto, e sarai inqualificabile reietto? Garrad Conley spiega come ha fatto lui. In un libro splendido e importante, che ha ispirato un film con Nicole Kidman. Da non perdere assolutamente (né l’uno né l’altro).

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