Intervista, Libri

“La realtà non è mai realtà in sé”: intervista a Mario Bramè

download (1).jpgdi Gabriele Ottaviani

La notte dei ragni d’oleandro è il bel romanzo di Mario Bramè, che Convenzionali ha il piacere di intervistare.

Perché immaginare un “altro” Bataclan?

Mi serviva un’altra prospettiva, estraniante. Mi serviva il paradosso, come accade per quegli incubi in cui le persone sognate hanno un’identità ambigua, che addirittura cambia nel corso dello stesso sogno. Ecco, in quei casi l’identità paradossale e instabile spesso amplifica la sensazione di angoscia e la rende più vera. In breve, mi serviva raccontare una bugia estraniante per andare ancora di più al cuore delle cose.

Come si coniugano nella vita e nella scrittura fantasia e realtà?

La realtà non è mai la realtà in sé. È sempre la realtà di qualcuno. E anche senza scomodare empiristi e Kant ci rendiamo ben conto che non esiste una cesura di questo tipo. La fantasia è ovunque, anche in quegli ambiti in cui sembrerebbe dover essere bandita per definizione. Mi riferisco al giornalismo d’inchiesta o, meglio ancora, alla scienza. La scrittura giornalistica, come ben sappiamo, è ben distante dall’essere oggettiva e anche la scienza ha bisogno, in una determinata fase della dinamica della scoperta, di una vivace predisposizione alla creatività.

Che ruolo ha la memoria?

La memoria è una mappa.  È un modo per attenuare la paura di fronte all’ignoto, per comprenderlo. Se ancora esiste un ignoto. Ognuno, poi, costruisce la propria mappa e usa la memoria a suo piacimento.
Dal punto vista sociale, invece, parliamo di memoria collettiva, di Storia. Ecco, qui diventa importante metterci d’accordo e, se necessario, scontrarci per arrivare a una memoria perlomeno condivisa.

A cosa serve la letteratura nel nostro tempo?

Serve a ciò cui serviva in passato: a parlare della vita. Ogni romanzo, in ultima istanza, parla della vita. La letteratura è uno dei tramiti attraverso i quali far fuoriuscire, più o meno violentemente, quel magma di smarrimento esistenziale che costituisce il nostro stare, involontario, al mondo. Un altro tramite è il sesso. Poi la religione, il tifo sportivo…

Perché scrive?

Per lasciare una traccia e per infettare gli altri con i miei smarrimenti. Sostanzialmente per paura ed egoismo.

Cos’è che determina un’azione: una passione o un bisogno?

Il bisogno, senza dubbio. La passione è solo uno dei mezzi per colmare e placare un bisogno. I musicisti e gli spettatori del Contest musicale del mio romanzo, per esempio, avvertono nelle loro viscere, in maniera violenta, angoscia e mancanza di senso di fronte alla vita. È dal bisogno di provare a colmare quell’abisso che nascono le loro passioni e, infine, le loro azioni.

Qual è il principale aspetto di un racconto?

Devo ripetermi: il suo parlare della vita. Non delle faccende della vita, ma della vita in sé. Deve servirsi delle faccende per andare al cuore del problema. I racconti di Carver, per esempio, sono perfetti perché ci fanno toccare la vita senza mediazioni, un po’ come Hemingway. Poi c’è chi mette in piedi percorsi un po’ più complessi, come Saramago. Ma la faccenda, l’obiettivo, è sempre quello. E, ovviamente, c’è chi è più bravo e chi è meno bravo nell’impresa: per questo parliamo di romanzi belli o romanzi brutti.

Che cosa rappresenta la musica, per lei e nella società?

La musica è il grande rito mistico che ha sostituito la religione. In solitaria, o in folle oceaniche, ha sostituito in parte il rito trascendentale. Ci si raduna in migliaia di persone ad ascoltare e adorare un idolo (mai parola fu più azzeccata), per andare oltre se stessi, per diventare coscienza collettiva o qualcos’altro. È ciò che succede nella notte del mio romanzo.
In solitaria, poi, è estasi, è distacco, è – di nuovo – trascendenza. Una specie di sufismo spicciolo da consumo.

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“La notte dei ragni d’oleandro”

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Bruno, per un momento libero dalle faccende, se ne stava in piedi dietro il bar, con l’uniforme slacciata per il caldo. Dall’altra parte del banco c’erano Naima, il piccolo Reno, due avventori sconosciuti e Sebac. Poco distanti, ma lo stesso attenti alla conversazione, l’immancabile Mohammed *** e un signore sulla cinquantina. «Dovete affidarvi all’istinto,» iniziò Bruno, «perché c’è ben poco da studiare, preparare, progettare. Ho visto di tutto, ai Contest di questi anni. Gente che si esercitava per giorni alla performance che avrebbe voluto portare avanti, gente che passava di qui per caso e decideva, all’ultimo, di salire sul palco e farsi una suonata. Mi spiace ammetterlo, ma sono sempre stati premiati i secondi.» «Un po’ di tutto, ci vuole.» Reno si inclinò all’indietro, con le braccia incrociate. E aggiunse che nel secondo caso si aveva meno da perdere: se pensava a Garrincha, non sapeva darsi pace per lui. «Garrincha sbaglia a votarsi del tutto alla musica. È esagerato. E qualcuno, o qualcosa, lo sta punendo. Ci vuole sempre una via di fuga, altrimenti il pubblico si sente intrappolato insieme a te. Perché, signori miei, non mi vorrete dire che ciò che si ascolta durante una qualunque jam session sono solo delle note messe in fila…» Bruno teneva le mani a guglia, polpastrello contro polpastrello, ben visibili sopra il banco. Non pareva rivolgersi a nessuno in particolare. Naima alzò la testa. Nella sua interminabile fase adolescenziale era sempre alla ricerca costante di una guida, di una frase emblematica, che potesse esprimere il proprio stato d’animo, o una qualche indicazione sulla strada da percorrere. Lui se ne accorse: «Si ascoltano le storie delle persone, gli stati d’animo, le speranze. Se tu sei in trappola, se la musica diventa la tua missione disperata, il pubblico lo sente e ne soffre. Le persone sono qui per vedere se qualcuno, là sopra, è capace di dire con la musica ciò che loro non sono capaci di esprimere a parole. Ma vogliono pure una via d’uscita, capite? Non vogliono mica che qualcuno gli racconti che sono in trappola.»

La notte dei ragni d’oleandro, Mario Bramè, Transeuropa. È una notte come tutte le altre. In apparenza. Una parentesi di buio, preludio dell’alba. Un simbolo, ma anche un fatto reale, concreto, naturale. Mario in quella notte ha deciso di abbandonare definitivamente i suoi sogni. Non vede futuro. Non lo hanno portato da nessuna parte. La musica è fatta d’aria, e lui ha bisogno di solidità. Un vero e proprio demonio, invece, ha per quella stessa sera in programma un altro progetto. Una strage. In un club. Di Parigi. Il Bataclan. È un ricordo che scuote ancora le coscienze pure semplicemente di chi ne ha solo sentito parlare. È da qui che prende le mosse Bramè con la sua prosa elegante e ampia, indagando i recessi più reconditi dell’animo umano, andando oltre il contingente. Da non perdere.

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