di Gabriele Ottaviani
Bohemian rhapsody. Ossia la summa dell’eclettismo funambolico di una band straordinaria il cui frontman, Freddie Mercury, nato a Zanzibar da una famiglia dalle chiare ascendenze parsi, ucciso dall’AIDS nel millenovecentonovantuno, è semplicemente una leggenda. E quel pezzo in particolare, ma in realtà tutte le composizioni formidabili dei Queen, ha fatto letteralmente la storia. Ma questo simbolico titolo è anche quello che Bryan Singer sceglie di dare al suo film, un biopic dall’ampio e valido cast in cui, fatta salva qualche lungaggine, non c’è nulla di malvagio ma nemmeno nulla di eccelso, classico, generalista e come ci si aspetta sotto ogni punto di vista, che tratteggia nell’arco di tre lustri, tra il millenovecentosettanta e il millenovecentoottantacinque, vita e opere del divin gattaro, si consenta l’epiteto giocoso, data la passione per i felini, dalla sublime estensione vocale e dall’impareggiabile capacità di stare sul palco, ben interpretato – in maniera fin troppo mimetica – da Rami Malek. In sala dal ventinove di novembre per 20th Century Fox.