di Gabriele Ottaviani
Possono mentire i calvi? La natura della pelle dice no:
è pallida come neonata, sostanza tenera come erezione,
ogni pensiero visibile – conoscenza pura,
mente attiva – brilla attraverso il cranio…
La letteratura è salvifica, ha un grande potere. Creando mondi altri permette di esorcizzare le paure, di sopportare i dolori. Jo Shapcott, anche se questo suo volume pubblicato in Italia da Del Vecchio e tradotto per la prima volta nella lingua di Dante da Paola Splendore (c’è comunque, ed è sempre un’ottima cosa, il testo a fronte, in questa, come di consueto, raffinata edizione) non è particolarmente autobiografico, almeno non esplicitamente – il discorso comunque lascia il tempo che trova, perché in ogni produzione umana c’è traccia del suo autore, anche non volendo, proprio perché si tratta di un artefatto compiuto da una persona, che vive, sente e vibra di emozioni –, indaga l’insondabile. Ciò che non si può conoscere. Perché, come diceva il poeta, quando c’è lei non ci siamo noi. E viceversa. Ossia la morte. La paura che essa genera. E la necessità del cambiamento. Della mutabilità ha la forma dell’acqua, sempre diversa eppure sempre la stessa. Quarantatré poesie, ognuna con una sua cifra unica, un’identità a sé niente affatto però incoerente col resto della produzione, una porzione dello stesso prisma caleidoscopico: una più struggente dell’altra, ma senza retorica, frammenti di viaggio in una vita. E anche in quelle di chi legge.