Cinema

“Teneramente folle”

download (1)di Gabriele Ottaviani

Nostro padre è un orso polare, dice Faith, interpretata da una deliziosa Ashley Aufderheide, che somiglia alla mamma, l’incantevole Zoe Saldana, agli amici, i primi che finalmente varcano la soglia del loro modesto e caotico appartamento. Si dice bipolare, replica la sorellina maggiore, Imogene Wolodarsky, anche lei meravigliosa e tutto pepe, fisicamente più simile al papà. E così hanno già detto tutto. Infinitely polar bear, tradotto in italiano non letteralmente, ma per una volta in un modo che è sintesi  e definizione perfetta del film, e soprattutto del suo protagonista, un sensazionale Mark Ruffalo (ma quand’è che non è bravo, lui? Aveva credibilità attoriale perfino nell’inguardabile In the cut…), con Teneramente folle, nelle sale dal prossimo diciotto di giugno, è un film – presentato al Sundance, di cui è forse un vero e proprio manifesto di poetica, a Toronto e a Torino – che fa sì che il tuo cuore sia come il granello di senape della parabola biblica. In certi momenti ti diventa piccolo piccolo piccolo, e ti commuovi senza possibilità di freno – come per Bambi, Spartacus o Anna Nigiotti, quando salta la fila, sgraffigna lo zucchero filato, balla stretta stretta al figlio e poi gli si accascia tra le braccia -, ma poi, quando sboccia, si trasforma nel più grande degli alberi, con la chioma che ombreggia un parco intero, e sotto alla sua protezione c’è spazio per tutti. È la storia vera della sceneggiatrice Maya Forbes, per la prima volta alla regia. E fossero tutti così gli esordi… Recitato in stato di grazia, scritto con intimità, delicatezza, pudore, misura, leggiadria, amore, tenerezza, indulgenza, bonomia, felicità e rara bravura, è un orologio dal meccanismo perfetto. È il millenovecentosettantotto. Siamo a Boston. Cam, al secolo Cameron, è il rampollo di una famiglia che più wasp e blasonata non si può. Ma per l’appunto è bipolare. Non ha un soldo (il clan ogni tanto gli dà qualche briciola di dollaro, e porzioni ancor più irrisorie di affetto), fa crêpe e omelette strepitose, ama la natura, raccogliere i funghi, non lavora, non sta un secondo senza sigaretta in bocca (e le figlie gli appendono al collo disegni di polmoni neri), qualche volta beve troppo e non è costante nell’assumere il litio, ha tante di quelle cose belle nell’anima da dare che ogni tanto fa un caos che mezzo basta, ingolfandosi come il motore dei catorci che cambia una volta a stagione, usando perfino delle teglie per ripararli, cercando di offrire sempre qualcosa di più bello alle sue tre donne adorate, salva cani maltrattati da padroni infami, ha un mucchio di scatoloni che straboccano di cianfrusaglie e passa da un eccesso all’altro. Sua moglie lo ama, ma non riesce a gestirlo. Non più. Quando si sono messi insieme erano gli anni Sessanta, e chi è che non aveva almeno  un esaurimento nervoso, a quel tempo? Ma ora… Del resto, non è mica facile… Lui finisce in un centro di recupero. Dove si abbrutisce. Ma poi esce. E lei deve andare fuori città per studiare e migliorare la propria condizione e quella delle sue figlie. Che non può portare con sé a New York. Ma tornerà ogni fine settimana in quei diciotto mesi. Le bambine, però, per cui entrambi i genitori vogliono prima di tutto un’istruzione di eccellenza, che apra loro le porte del futuro, devono stare col papà. Talmente fragile, imbranato, bambino, traballante e imperfetto da essere sublime: è come lo spettacolo della natura per Kant, non te lo sai spiegare eppure ti atterrisce e ti ammalia. Lo vorresti abbracciare, forte forte, quando ha la faccia da pulcino tramortito dall’acquazzone, che abbia in mano tre gerbere o mezza dozzina di giacinti o cerchi di fischiare senza riuscirvi. Le mette in imbarazzo, le sue figliole, per cui cuce gonne da flamenco, fa fiorellini di frutta quando hanno la febbre e vuole indipendenza, benessere, sicurezza, gioia e un’infanzia normale, con amici davanti ai quali non provare mai per nessun motivo vergogna (e quanto è più puro di quello adulto il cuore dei bimbi…), quella che lui non ha, ma non per sfacciataggine, bensì per candore. È un uomo che ama, e ricorda il giudizio che il maestro Manzi, contrario ai voti, a definire una persona con un numero, dava dei suoi alunni detenuti: fa quel che può. Quel che non può, non fa. La mamma torna, però una donna di colore con prole a Boston non è granché competitiva come candidata nel mercato del lavoro (evitiamo di aprire parentesi o di fare paragoni con la situazione attuale nostrana, va’…), e quindi, forse… Ma… Se non avete un cuore, non vi piacerà. Chi sa amare, lo adorerà.

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