Libri

“La casa delle madri”

di Gabriele Ottaviani

La nostra ignoranza attribuisce l’handicap, la lesione, la mancanza, solo a ciò che ne porta le stimmate: per essere riconosciuto in qualità di gravemente cerebroleso (prima di farsi sottoporre a bombardamento nucleare) è necessario sbavare, roteare gli occhi, avere difficoltà di pronuncia e di linguaggio, evidenti incapacità cognitive. Ernesto si era laureato, parlava correntemente tre lingue (negli anni a venire ne avrebbe imparata altrettanto bene una quarta, anche se si sarebbe rifiutato di parlarla), si esprimeva con una proprietà di linguaggio e un’ampiezza di vocabolario che avrebbero fatto invidia a un accademico della Crusca (peraltro senza un briciolo di accento, grazie al meticciato regionale e culturale da cui proveniva – le origini bergamasche di Nina, quelle umbre di Ilide, i soggiorni all’estero e le lunghe frequentazioni con stranieri), possedeva una capacità di penetrazione non comune dei meccanismi dell’animo umano, condita con un’ironia pungente e uno spirito pronto e sferzante. Aveva, è vero, una mano paralizzata e una gamba un po’ più corta dell’altra, ma niente lasciava immaginare una lesione come quella che si sarebbe rivelata anni dopo. Chi mai gli avrebbe riconosciuto lo status di menomato, a prima vista? Chi poteva capire lo sforzo sovrumano che la parte attiva del suo cervello – della sua personalità – doveva compiere per adeguarsi non solo a una normalità stabilita dagli altri, da un canone esterno e tutto sommato estraneo, ma addirittura a un’eccellenza che gli derivava dal continuo stato di tensione provocato dal confronto con Elia, per il quale tutto sembrava, sempre, più facile e immediato?

La casa delle madri, Daniele Petruccioli, Terrarossa edizioni. Traduttore esperto, capace, abile, noto, appassionato e raffinato, Daniele Petruccioli, uomo di multiforme ingegno e di sensibilità rara, dà alle stampe un romanzo, proposto con pieno merito al Premio Strega da Elena Stancanelli, felicemente perturbante, commovente fino alle lacrime, che tocca il cuore e, pur trattando una vicenda particolare, conosce e manifesta la molteplicità dell’universale, splendido sin dall’azzeccatissima copertina: perché è il labirinto delle emozioni e delle relazioni umane il fulcro di questa narrazione dal tono mai urlato, ampio ed elegante, ma non privo di vibrante tensione, che indaga fin nelle profondità più oscure l’animo e le sue nuvole. Quando si ha un fratello si è due e uno insieme, si è uno moltiplicato, all’infinito quanti sono gli sguardi che ci si possono cambiare nel corso di una vita: quando un fratello manca, o uno dei due ha più bisogno, e quindi si cresce da subito con le spalle incurvate dalla responsabilità della cura, una cura che non si sceglie, che non pesa ma che fa stare male, non per egoismo, ma per l’angoscia innominabile e indefinibile di non esserne all’altezza, la vita dell’altro, ineluttabilmente, già inestricabilmente connessa e condivisa, muta e acquista un senso diverso, che dimezza gli encomi e raddoppia le colpe, e il sentimento dell’inadeguatezza, dell’incapacità di raggiungere quell’impossibile miraggio che superi l’impotenza e renda abili a far star bene chi amiamo, che però bene, come le intendiamo noi, non potrà mai stare. Ernesto ed Elia, figli di un uomo bello, inquieto e non troppo maturo e di una donna colta, ricca e indomita, sono uguali ma diversi: e la differenza di uno, rispetto a tutti, è un dolore sordo, un’ingiustizia a cui, almeno inizialmente, non ci si può arrendere a rassegnarsi. Eccezionale.

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