di Gabriele Ottaviani
Nel 1971 cessai di pagare le mie quote di iscrizione a Fatah e mi avvicinai al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), che era guidato da un amico di mio padre, George Habash. Conoscevo bene diverse figure del FPLP – erano sempre a casa nostra e trascorrevano ore intere insieme a mio padre. Mi vedevano come una “figlia” del FPLP e anch’io mi consideravo una figlia legittima dell’organizzazione. Noi giovani rivoluzionari eravamo conquistati – di più, rapiti – dalla retorica marxista-leninista del FPLP. Il mio attaccamento al FPLP, tuttavia, fu sempre di natura emotiva e intellettuale, e non divenni mai membro ufficiale del gruppo. Arafat, diversamente dai quadri del FPLP, era intimamente un islamista. Da giovane aveva avuto un flirt con i Fratelli Musulmani in Egitto. Il suo approccio islamista era chiaramente in contraddizione con le nostre posizioni laiche e rivoluzionarie. A quel tempo iniziavo a considerare il mondo capitalista in cui ero cresciuta come reazionario, arretrato e in definitiva sbagliato. Aspiravo a una società senza classi, in cui la ricchezza fosse egualmente distribuita. Volevo abbattere i regimi filo-occidentali del mondo arabo e mi dilettavo di comunismo radicale, socialismo e marxismo. Ero palestinese, ma il mio orientamento e l’ideologia che andavo maturando erano internazionalisti. Dopotutto, Beirut era una città internazionale. A beneficio della sua numerosa popolazione cristiana, Beirut era raggiunta dai media occidentali – vi si potevano seguire gli stessi eventi sportivi, le stesse notizie e le stesse celebrità che gli europei e gli americani seguivano alla radio e in TV. Beirut era tra le destinazioni turistiche preferite dagli europei. La nostra Università Americana era stata fondata negli anni Sessanta dell’Ottocento e rappresentava una testimonianza della presenza di lunga data degli americani nella nostra città. Come comunista, in ogni caso, io non approvavo i governi capitalisti occidentali, per quanto forte fosse la loro presenza culturale a Beirut.
L’Achille Lauro, affondata nel millenovecentonovantaquattro per un incendio al largo della costa somala, era una nave da crociera. D’altronde il nome stesso dell’imbarcazione rimanda a una delle più grandi e celebri famiglie di armatori italiane, nonché a uno dei più noti sindaci del dopoguerra, quel monarchico che ebbe l’endorsement, così si direbbe al giorno d’oggi, persino da Totò, il principe della risata, e che davvero seppe essere di fatto una sorta di re in quella Napoli repubblicana che si era liberata da sola in poche giornate, come racconta un famoso e magnifico film. In uno dei momenti più bui della nostra contemporaneità quella nave, che era nata con un altro nome, cambiato (si dice non porti bene: la travagliata storia sembrerebbe confermare la superstizione…) nel momento dell’acquisto, negli anni Sessanta del secolo scorso, da parte della compagnia di navigazione partenopea, che la riconvertì dalla originale destinazione d’uso di transatlantico, venne presa d’assalto. Dirottata. Era il sette di ottobre del millenovecentoottantacinque. Ci si trovava al largo delle coste egiziane, nel Mediterraneo. A bordo oltre duecento passeggeri e trecento uomini dell’equipaggio. I dirottatori erano membri di un commando del fronte per la liberazione della Palestina. Tra costoro Abu al-Abbas, uno dei primi luogotenenti di Yasser Arafat. La vedova, Reem al-Nimer, che nulla inizialmente sapeva del piano, ricorda e racconta. Contestualizzando la tragica vicenda dell’anziano Leon Klinghoffer, statunitense, ebreo e paralitico, passeggero della nave e vittima del dirottamento, nell’ambito delle azioni compiute da chi credette nella lotta armata e nel crimine per affermare quelle che riteneva fossero le sue ragioni, le sue richieste legittime, che affondano le proprie radici in una storia lunga e lastricata di dolore. Un libro, corredato di illustrazioni, note e commenti, curato da Diego Siragusa, che lascia a tratti spiazzati, e che porta comunque a riflettere, a porsi delle difficili domande. La maledizione dell’Achille Lauro, Zambon.