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“Viaggio in Oman”

41wT1Ny5tYL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Un tempo Mirbat fu un porto importante per l’esportazione dell’incenso…

Viaggio in Oman, Paolo Luigi Zambon, AlpineStudio. Con prosa semplice, chiara, dettagliatissima, divertente, fiorita di sapida aneddotica, vivida e avvincente e uno splendido corredo di immagini che riproducono luoghi impervi ma di indubbio e raro fascino, Paolo Luigi Zambon, artista del viaggio e della narrazione, conduce il lettore tra oasi e deserti profumati di datteri e caffè aromatizzato col cardamomo: l’Oman, luogo di nitido splendore, incanta anche attraverso quest pagine che ci ricordano come diverso sia viaggiare dall’essere turisti, perché nel primo caso, come quando si dialoga ascoltando sul serio il proprio interlocutore, si torna inevitabilmente diversi, non solo per quel che si è visto, ma anche, soprattutto, per quel che si è vissuto.

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“Un Sessantotto lungo una vita”

grimaldi3.indddi Gabriele Ottaviani

Chiamarci organizzazione rivoluzionaria era giustificato non tanto da una palingenesi rimasta poi nelle intenzioni, quanto che ci si trovava a inventare nuovi e innovativi percorsi di analisi sociale e di contrapposizione di classe. Traducevamo in politica ciò che altri andavano costruendo nei campi della cultura e della scienza: sociologia, psicoanalisi, antipsichiatria, liberazione sessuale, problematiche dell’età evolutiva e conflittualità intergenerazionale. Obiettivo comune era mettere al centro l’uomo nella sua capacità di relazionarsi con la collettività in direzione “ostinata e contraria” rispetto a un onnidivorante profitto, per mezzo del quale il Potere puntava a plasmare “l’uomo a una dimensione” (Nello Russo). Obiettivo qualche decennio dopo perseguito attraverso il potenziamento di totalizzanti tecnologie dell’alienazione e del controllo su soggetti privi di specificità e di memoria. Vedi gli espropri operati tramite la sociocida e nazionicida “operazione migranti”.

Un Sessantotto lungo una vita, Fulvio Grimaldi, Zambon. È stato finanche conduttore televisivo e attore, in particolare con un piccolo cameo in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, film del millenovecentosettanta dalla storia onusta, com’è giusto che sia, di trofei, con Florinda Bolkan e Gian Maria Volonté, ma soprattutto è scrittore e giornalista, dalla coscienza politica solida, ferrea, incorrotta, eloquente, coerentemente connessa alle ideologie in quanto Weltanschauung, visioni vere e proprie del mondo: Fulvio Grimaldi, cronista di guerra e non solo di lunghissimo corso, spesso scomodo perché schietto e libero, testimone della Bloody Sunday del millenovecentosettantadue in Irlanda e di tanti altri fondamentali eventi che ha documentato con dovizia di particolari, con la consueta prosa incisiva e gravida di senso, si racconta e racconta. Un anno che ha segnato un’epoca ma anche l’idea stessa e il significato dell’essere un inviato militante. Da non perdere.

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“Un pezzo di terra tutto per me”

51tUgIbr-lL._SY346_di Gabriele Ottaviani

I primi di dicembre nel sentiero dopo la quercia la terra traspare chiaramente sotto un reticolo di erba secca. Tutte le foglie larghe sparite. L’inverno o i miei passi? Strani posti i sentieri. C’è chi dice che sono stati il primo segno che noi umani abbiamo inciso nel paesaggio. Proprio all’inizio, ben prima del Neolitico, prima di diventare nomadi o stanziali. Probabilmente i primi uomini hanno cominciato a spostarsi nello spazio illimitato usando le piste che le migrazioni degli animali aprivano nella vegetazione. Poi, millennio dopo millennio, noi umani abbiamo sviluppato sempre di più la capacità di scovare, e soprattutto ricordare, certe risorse nell’indistinto della foresta o della savana…

Un pezzo di terra tutto per me – Un giardino per fiorire in ogni stagione, Lorenza Zambon, Ponte alle grazie. Lorenza Zambon, attrice e giadiniera, come ama definirsi, si unisce trentasette anni fa alla società di produzione e promozione teatrale “Casa degli alfieri”, all’epoca ancora col nome di “Teatro del Magopovero”, dopo aver lasciato Padova, nella quale si è laureata in scienze politiche con indirizzo sociologico e si è formata presso il Centro Universitario Teatrale, ovverosia il Teatro Popolare di Ricerca diretto e fondato, nel millenovecentosessantaquattro, da Lorenzo Rizzato, una delle prime formazioni sperimentali del Veneto, che ha rappresentato nel tempo Sartre, Shaw, Caserta, Bene, Havel, Kundera, Fassbinder e tanti altri, un vero e proprio punto di riferimento, in quegli anni ma non solo, per tante generazioni di attori. Il percorso di creazione e ricerca ovviamente a questo punto non si arresta, anzi, diventa sempre più appassionato e originale: la sua passione per le piante, i giardini e i paesaggi fa sì che lei faccia sbocciare tutta una serie di ibridi, di innesti fra teatro e natura, che del resto sono elementi dell’esistenza fra loro assai prossimi e che l’un nell’altro si rispecchiano e riverberano: entrambi fanno bene, entrambi richiedono attenzione, entrambi curano e danno frutto. Il giardino è un luogo dell’anima, si sa, da Cicerone in giù. Lorenza Zambon un giorno dunque approda infatti in cima a una collina del Monferrato insieme a un piccolo gruppo di artisti e trova una casa diruta e abbandonata circondata da alberi pressoché secolari: è l’inizio di tutto. Di questa storia fatta di terra, stagioni, personaggi, animali, umani, vegetali… Da non perdere.

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“Progetto Apocalisse”

schede italiane4.indddi Gabriele Ottaviani

Di certo, nel corso del mio studio giunsi alla conclusione che, in aggiunta ai grossi problemi creati dal fatto che le nostre diverse agenzie si intralciavano a vicenda, un nostro limite cruciale era rappresentato da alcune rigidità ideologiche e incoerenze logiche. Per quanto riguardava la rigidità dogmatica, la difficoltà è esemplificata dall’incapacità di tanti responsabili politici di alto livello di comprendere che era in gioco molto di più della differenza tra «comunismo» e «libertà». Sebbene occasionalmente un funzionario potesse descrivere a tinte forti l’immensa distanza culturale tra il mondo primitivo del Laos e il nostro mondo moderno, non veniva quasi mai fatta alcuna distinzione tra un combattente del Pathet Lao o del Vietminh, da un lato, e un apparatchik moscovita o un membro del partito di Lipsia, Pechino o Bucarest, dall’altro. Un comunista era un comunista, ovunque e in qualunque momento – privo di differenze legate alle tradizioni culturali o alle influenze nazionaliste, e immune dalle forze legate all’ambiente e alle circostanze che plasmano le esistenze, i pensieri e in ultima analisi anche l’organizzazione sociale del resto dell’umanità. Molto semplicemente, i comunisti non erano considerati soggetti alle leggi del comportamento che dominavano la condotta di tutti gli altri esseri umani.  Sapevamo che si trattava di un mondo diverso. Ma la nostra visione di esso rimaneva inequivocabilmente etnocentrica. Valutavamo gli eventi del Laos con la lente della mitologia dominante negli Stati Uniti del 1960.

Progetto Apocalisse  –  Le memorie di un osservatore impotente – Dentro i piani per la guerra nucleare del Pentagono, memoriale di Paul H. Johnstone, con un commento di Diana Johnstone, Zambon. Introduzione di Paul Craig Roberts. Lo storico, economista e statistico statunitense Paul Johnstone, nato centoquattordici anni fa e morto nel millenovecentoottantuno, agli albori dell’era Reagan, è stato tra i collaboratori più stretti del vicepresidente democratico Henry Wallace presso gli uffici del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America negli anni in cui, grazie al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, il mondo conosceva il progresso. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato in Asia, coinvolto in operazioni di intelligence, e in seguito è rimasto per vent’anni al Pentagono come uno fra i principali analisti. In questo suo memoriale intenso, coinvolgente, sconvolgente, disturbante, interessante, istruttivo, scritto col ritmo di un thriller, che non manca di sviscerare con estrema dovizia di particolari tutti i meccanismi che costituiscono la fitta trama di relazioni che funge da sostrato per le operazioni, il più delle volte a dir poco torbide, in cui si intrecciano il potere e la politica internazionale, racconta le pianificazioni degli attacchi nucleari aerei, che mettono letteralmente in conto, come se fossero le percentuali della riduzione del costo di una merce in periodo di saldo, le quote delle perdite umane sulle aree bombardate. Non calcolando però, per esempio, i danni a lungo termine. Come le mutazioni genetiche. Imperdibile. Pare scritto domani. Da leggere. Per capire davvero cosa la storia ci insegna.

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“Guerra nucleare”

Cover GUERRA NUCLEARE.Il giorno prima.Da Hiroshima ai giorni nostri.Manlio Dinucci.Zambon Editoredi Gabriele Ottaviani

Da questo momento la pressione USA/NATO sulla Russia cresce in progressione geometrica. In quattro anni, dal 2014 al 2018, gli Stati Uniti spendono 10 miliardi di dollari per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa» (ERI), il cui scopo ufficiale è «accrescere la nostra capacità di difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Quasi la metà della spesa serve a potenziare il «preposizionamento strategico» USA in Europa, ossia i depositi di armamenti che, collocati in posizione avanzata, permettono «il rapido spiegamento di forze nel teatro bellico». Un’altra grossa quota è destinata ad «accrescere la presenza su base rotatoria di forze statunitensi in tutta Europa». Le restanti quote servono allo sviluppo delle infrastrutture delle basi in Europa per «accrescere la prontezza delle azioni USA», al potenziamento delle esercitazioni militari e dell’addestramento per «accrescere la prontezza e interoperabilità delle forze NATO». I fondi della ERI – specifica il Comando Europeo degli Stati Uniti – sono solo una parte di quelli destinatati all’«Operazione Atlantic Resolve, che dimostra la capacità USA di rispondere alle minacce contro gli alleati». Nel quadro di tale operazione, viene trasferita in Polonia da Fort Carson (Colorado), nel gennaio 2017, la 3a Brigata corazzata, composta da 3.500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi, 144 veicoli da combattimento Bradley, oltre 400 Humvees e 2000 veicoli da trasporto. La 3a Brigata corazzata viene successivamente rimpiazzata da un’altra unità, così che forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in territorio polacco.

Guerra nucleare – Il giorno prima – Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe, Manlio Dinucci, Zambon. Il mondo è in pericolo. Lo è stato e lo sarà sempre. Perché non si può mai dare niente per scontato. Nessun diritto può essere considerato come acquisito a priori. Nulla è assolutamente sicuro. Nulla è per sempre. Solo una cosa dev’essere costante: l’impegno per mantenere l’unico pianeta su cui abbiamo la possibilità di esistere in pace. Quindi evitare ogni guerra. Il che non significa sottostare a ogni protervia. Anzi. È proprio il contrario. E non significa nemmeno non favorire con ogni mezzo il progresso e la ricerca scientifica. Ma certo un conto è sfruttare l’atomo per ricavarne energia pulita e inesauribile, un conto è farne uno strumento di morte. Ci si illudeva che dopo le ultime atroci fasi della seconda guerra mondiale il mondo avesse capito. Pare di no. La storia è eccellente maestra, ma va ascoltata. Altrimenti parla al vento. Un muro, uno qualsiasi, dà più soddisfazione. Manlio Dinucci scrive con voce stentorea e parole potenti e chiarissime un testo di estremo rigore e altrettanto valore morale. Da leggere. Per riflettere e capire.

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“La sporca guerra contro la Siria”

ANDERSON-COVER.indddi Gabriele Ottaviani

Nell’agosto del 2015 Avaaz e The Syria Campaign pubblicarono fotografie di cadaveri di bambini tra le macerie di un edificio, dichiarando che si trattava delle vittime di attacchi sferrati dal governo siriano nel 2015 contro la Ghouta Orientale, occupata dal Fronte Islamico. La stessa foto era stata utilizzata un anno prima per illustrare un articolo secondo cui l’ISIS aveva massacrato 700 membri di una tribù a Deir el-Zor (Chronicle 2014). Risalendo ancora più indietro, la foto risultava di proprietà di Getty News nel marzo 2014, quando era stata attribuita al fotografo Khaled Khatib come immagine dei bambini vittime di precedenti attacchi con «barili bomba» ad Aleppo (Getty Images 2014). Khatib viene descritto come un «attivista» che opera in aree occupate dai gruppi armati dell’Esercito Libero Siriano, nonché come «membro di Aleppo della “Difesa Civile Siriana”», alias Caschi Bianchi (al Khatib 2015; Laughland 2015). In un  post su Twitter dell’agosto 2015, i Caschi Bianchi (2015a) utilizzarono la fotografia di un edificio bombardato per fingere di essere «arrivati sulla scena dell’esplosione» dove «una dozzina circa di barili bomba [avevano] sventrato un’intera palazzina». La foto era stata pubblicata 28 mesi prima da Christian Science Monitor (CSM 2013). È evidente che ha avuto luogo un intenso riciclaggio di fotografie di guerra, e che gli elementi embedded organici ai gruppi islamisti hanno ben pochi scrupoli riguardo a questo tipo di disinformazione faziosa.

La sporca guerra contro la Siria – Washington, regime e resistenza, Tim Anderson, Zambon. Traduzione a cura di Cristiano Screm. La Siria è un paese del Vicino Oriente. Confina con Turchia, Iraq, Giordania, Israele e Libano. Si affaccia sul Mediterraneo. Ha per capitale Damasco. La sua lingua ufficiale è l’arabo. È una repubblica presidenziale. Almeno in teoria. Da cinquantaquattro anni è governato dal partito del risorgimento arabo socialista Ba’th, da quarantasette il capo dello stato è un membro della famiglia Asad, da sei è una terra devastata da una guerra civile che è esplosa dopo le proteste in occasione della cosiddetta primavera araba che è spirata come un vento in molti stati a noi prossimi. Ogni giorno è crivellata di colpi, di bombe. Ogni giorno la gente muore. Ogni giorno la gente fugge. Tenta di approdare alla pace. Spesso non vi riesce. Ma qual è davvero la situazione in Siria? Perché sta succedendo tutto questo? Chi c’è dietro? Quali interessi? Qual è il ruolo delle potenze internazionali? Dove si trova la verità? Come si può discernere tra vero e falso, fra propaganda e realtà? Quali sono le autentiche dimensioni di questa che comunque non può non essere interpretata come una tragedia umanitaria, che si configura ogni istante di più con tinte più fosche e aberranti. Tim Anderson, senior lecturer in economia politica all’Università di Sydney, scrive un libro, definito dal sociologo James Petras come una lettura essenziale per tutti gli attivisti in nome della pace e della giustizia, che con ogni probabilità sarà destinato a fare molto scalpore, portando all’attenzione dei lettori una messe imponente di informazioni che appare ricercata con acribia  e che al tempo stesso mette in discussione, partendo dall’assunto ideologico che si debba difendere strenuamente il diritto all’autodeterminazione del popolo siriano, che non deve sottostare ad alcuna ingerenza esterna, la più diffusa visione del mondo occidentale.

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“La maledizione dell’Achille Lauro”

9788898582280di Gabriele Ottaviani

Nel 1971 cessai di pagare le mie quote di iscrizione a Fatah e mi avvicinai al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), che era guidato da un amico di mio padre, George Habash. Conoscevo bene diverse figure del FPLP – erano sempre a casa nostra e trascorrevano ore intere insieme a mio padre. Mi vedevano come una “figlia” del FPLP e anch’io mi consideravo una figlia legittima dell’organizzazione. Noi giovani rivoluzionari eravamo conquistati – di più, rapiti – dalla retorica marxista-leninista del FPLP. Il mio attaccamento al FPLP, tuttavia, fu sempre di natura emotiva e intellettuale, e non divenni mai membro ufficiale del gruppo.  Arafat, diversamente dai quadri del FPLP, era intimamente un islamista. Da giovane aveva avuto un flirt con i Fratelli Musulmani in Egitto. Il suo approccio islamista era chiaramente in contraddizione con le nostre posizioni laiche e rivoluzionarie. A quel tempo iniziavo a considerare il mondo capitalista in cui ero cresciuta come reazionario, arretrato e in definitiva sbagliato. Aspiravo a una società senza classi, in cui la ricchezza fosse egualmente distribuita. Volevo abbattere i regimi filo-occidentali del mondo arabo e mi dilettavo di comunismo radicale,  socialismo e marxismo.  Ero palestinese, ma il mio orientamento e l’ideologia che andavo maturando erano internazionalisti. Dopotutto, Beirut era una città internazionale. A beneficio della sua numerosa popolazione cristiana, Beirut era raggiunta dai media occidentali – vi si potevano seguire gli stessi eventi sportivi, le stesse notizie e le stesse celebrità che gli europei e gli americani seguivano alla radio e in TV. Beirut era tra le destinazioni turistiche preferite dagli europei.  La nostra Università Americana era stata fondata negli anni Sessanta dell’Ottocento e rappresentava una testimonianza della presenza di lunga data degli americani nella nostra città. Come comunista, in ogni caso, io non approvavo i governi capitalisti occidentali, per quanto forte fosse la loro presenza culturale a Beirut. 

L’Achille Lauro, affondata nel millenovecentonovantaquattro per un incendio al largo della costa somala, era una nave da crociera. D’altronde il nome stesso dell’imbarcazione rimanda a una delle più grandi e celebri famiglie di armatori italiane, nonché a uno dei più noti sindaci del dopoguerra, quel monarchico che ebbe l’endorsement, così si direbbe al giorno d’oggi, persino da Totò, il principe della risata, e che davvero seppe essere di fatto una sorta di re in quella Napoli repubblicana che si era liberata da sola in poche giornate, come racconta un famoso e magnifico film. In uno dei momenti più bui della nostra contemporaneità quella nave, che era nata con un altro nome, cambiato (si dice non porti bene: la travagliata storia sembrerebbe confermare la superstizione…) nel momento dell’acquisto, negli anni Sessanta del secolo scorso, da parte della compagnia di navigazione partenopea, che la riconvertì dalla originale destinazione d’uso di transatlantico, venne presa d’assalto. Dirottata. Era il sette di ottobre del millenovecentoottantacinque. Ci si trovava al largo delle coste egiziane, nel Mediterraneo. A bordo oltre duecento passeggeri e trecento uomini dell’equipaggio. I dirottatori erano membri di un commando del fronte per la liberazione della Palestina. Tra costoro Abu al-Abbas, uno dei primi luogotenenti di Yasser Arafat. La vedova, Reem al-Nimer, che nulla inizialmente sapeva del piano, ricorda e racconta. Contestualizzando la tragica vicenda dell’anziano Leon Klinghoffer, statunitense, ebreo e paralitico, passeggero della nave e vittima del dirottamento, nell’ambito delle azioni compiute da chi credette nella lotta armata e nel crimine per affermare quelle che riteneva fossero le sue ragioni, le sue richieste legittime, che affondano le proprie radici in una storia lunga e lastricata di dolore. Un libro, corredato di illustrazioni, note e commenti, curato da Diego Siragusa, che lascia a tratti spiazzati, e che porta comunque a riflettere, a porsi delle difficili domande. La maledizione dell’Achille Lauro, Zambon.

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“La porta d’ingresso dell’Islam”

copertina_zambondi Gabriele Ottaviani

Stabilito che la popolazione della Bosnia Erzegovina desidera che la nazione diven­ti uno Stato sovrano e indipendente, il riconoscimento potrà essere giustificato e confermato solo da un referendum. Fra il 13 e il 15 gennaio, lo Stato del Vaticano riconosce con due giorni d’anticipo le Repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia. La Francia riconosce le Repubbliche indipendenti di Croazia e Slo­venia e sarà seguita dagli altri membri della CEE. 7 febbraio, con il Trattato di Maastricht i paesi membri decidono l’unione monetaria europea e assumono la denominazione di Comu­nità Europea. 9 marzo, la Conferenza sulla Jugoslavia, presieduta da Lord Peter Carrington e alla presenza dello statunitense Cyrus Vance, si riunisce a Bruxelles. Partecipano i presidenti di cinque repub­bliche jugoslave, la Serbia è rappresentata dal Ministro degli Esteri Vladislav Jovanović in assenza del Presidente della Ser­bia, Slobodan Milošević infortunato in un incidente d’auto. Rag­giungono un accordo sulla continuazione del lavoro dei gruppi delle tre conferenze su argomenti istituzionali, diritti delle mino­ranze e argomenti economici. 23 marzo, il quarto incontro della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa si svolge a Helsinki per iniziare a determi­nare una piattaforma per il futuro sviluppo del processo OSCE. La Slovenia, la Croazia e altri Stati dell’Europa Orientale ed ex URSS partecipano in qualità di membri effettivi. 30-31 marzo, a Bruxelles si svolge il sesto incontro di negozia­zioni sulla Bosnia Erzegovina, presenti i rappresentanti delle tre par­ti. Sono richieste separate correzioni al “Piano Coutilhero”, ma i principi generali del documento sono confermati.

La Bosnia è un paese strano, particolare, di bellezza sospesa e sorniona. Singolare sin dal luogo in cui si trova. Incastonata nel ventricolo più orientale dell’Europa, frastagliata dai verdi Balcani dove non mancano stazioni termali. Ha un piccolissimo sbocco sul mare, sopra e sotto è sempre Croazia. È un paese diviso, fatto di enclavi, nel quale le poltrone sono state moltiplicate per quattro, per far contenti tutti, dove si vedono quartieri musulmani, con le caratteristiche case verdi, basse, nel cui profilo sporge la mole della stanza da bagno, ma di fedeli della religione islamica se ne vedono in giro assai pochi. Eppure le moschee vengono costruite e ricostruite. Un esempio è Banja Luka, a tal punto rivale di Sarajevo che il volo da Roma passa da Belgrado. Da un’altra nazione. E i cartelli stradali, al di fuori dei centri urbani, non indicano reciprocamente né l’una né l’altra. E tutto è scritto tre volte, anche sulle confezioni di merendine, sui pacchetti di sigarette: croato, bosniaco, serbo. Ora, se quest’ultima lingua quantomeno ha dalla sua il fatto di avere un altro alfabeto, il cirillico, le prime due sono identiche. Stesse parole, stesso ordine dei vocaboli nella frase, stessa grafia, stessa pronuncia. Uguali ma diverse. Perché quelli di etnia croata dicono che è il bosniaco a essere uguale al loro idioma, non il contrario. E viceversa. Frammentata come un documento che non si deve leggere, la Bosnia. Affascinante, e dalla storia travagliata, polveriera di sogni irredentisti e guerre inumane e  palcoscenico di tragedie abominevoli. Il libro edito da Zambon, di Jean Toschi Marazzani Visconti, La porta d’ingresso dell’Islam – Bosnia Erzegovina: un paese ingovernabile, è un saggio chiaro, documentato, non scontato, interessante: fa riflettere.

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“Che Guevara e i suoi compagni”

img_21500di Gabriele Ottaviani

Dovevamo reagire. Eravamo ancora in piena lotta e così la prima domanda che ci facemmo fu: “Gli ideali per cui siamo venuti qui a combattere sono scomparsi? Le ragioni sono venute meno? No. La miseria rimane”. In altre parole, le idee del Che erano ancora valide. Il Che non era andato laggiù per il gusto di farlo, ma per costruire una società migliore, per sradicare l’analfabetismo e la povertà, per realizzare una migliore distribuzione della ricchezza: era questo l’obiettivo. L’idea non era di andare laggiù per il socialismo in quanto tale: noi ci eravamo andati per ciò che il socialismo rappresentava per noi e per ciò che avrebbe rappresentato per i popoli latinoamericani. Nel Programma del Moncada, al primo punto figura lo sradicamento dell’analfabetismo, al secondo il raggiungimento della piena occupazione, al terzo dare la terra a chi la lavora. Vi sono elementi che sono determinanti per creare condizioni di vita migliori e un mondo migliore, un mondo a cui aspiriamo e per il quale continuiamo ancora oggi a lottare. Vi erano ancora molte questioni irrisolte laggiù, e per questa ragione dovevamo continuare a combattere. La morte del Che non significava che la nostra lotta fosse conclusa, e decidemmo che avremmo continuato a combattere fino alla vittoria o alla morte, e che avremmo proseguito a lottare per le idee della rivoluzione e del Che. Dovevamo sfuggire all’accerchiamento per riorganizzarci e ritornare sulle montagne, e per questo la consegna di Inti nel suo opuscolo, che contiene tutte queste considerazioni è: “Torneremo sulle montagne”. Era chiaro che non potevamo dividerci; concordammo anche su questo, dovevamo continuare tutti insieme, uniti – e qui ritorna il riferimento che viene fatto nel manifesto: “unità”. Un altro aspetto era che non potevamo abbandonare nessuno; a questo impegno non potemmo tenere fede del tutto, perché uno dei compagni rimase ferito a morte e fu lui stesso a chiederci di proseguire senza di lui. Disse che la rivoluzione era più importante della sua vita, e ci chiese di finirlo.

Che Guevara e i suoi compagni – Uomini della guerriglia in Bolivia, Enrica Matricoti, Zambon. Quarantanove anni fa. Ne manca uno all’anniversario. Uno al mezzo secolo. Pochi mesi alla ricorrenza. Cinquant’anni. Cinquant’anni che non c’è più. Ernesto Guevara. Per tutti il Che. Il rivoluzionario dei rivoluzionari. Per chi lo detesta, un assassino. Per chi lo ama, un mito, un simbolo, una leggenda. Comunque la si pensi, certo un personaggio che ha scritto pagine di indubbia rilevanza nella nostra storia. Perché ogni evento è figlio di qualcosa, e genitore di altri. La morte di Guevara, sua e dei suoi compagni, è al centro del libro della poliedrica Enrica Matricoti, barese cresciuta a Bologna che ora vive e lavora a Cuba, opera importante per diverse ragioni: prima di tutto perché della Bolivia si sa in genere poco o nulla, e questo libro invece ne parla diffusamente e la ricolloca laddove deve trovarsi. Poi perché ha una precisione storiografica rara, e al tempo stesso si legge come un romanzo. Inoltre mantiene viva la memoria, e si sa quanto questo sia indispensabile: senza ricordo non può esserci futuro. Infine, avvalendosi di una messe di testimonianze fa in modo che i protagonisti finalmente non appaiano più come laicissimi santini, ma come uomini, veri, con tutte le loro caratteristiche. Da non perdere.

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“Hillary Clinton – Regina del caos”

clinton-cover2.indddi Gabriele Ottaviani

Agli occhi di buona parte del mondo, il fatto che i governi occidentali accolgano le Pussy Riot e le Femen come eroine, o addirittura come martiri e modelli a cui ispirarsi, non può che confermare la crescente convinzione che l’Occidente liberale stia precipitando nella più totale decadenza. Perfino in Occidente vi è un crescente rifiuto dei valori dell’illuminismo, della società liberale e dell’individualismo. Quando la “libertà” vede ridursi il suo significato a quello di volgare esibizionismo, trova ben pochi sostenitori convinti. In realtà, questi gruppi esibizionisti rappresentano una reductio ad absurdum tanto del femminismo quanto della libertà, che scredita entrambi e rafforza proprio quegli atteggiamenti tradizionalisti che tali gruppi pretendono di attaccare. Queste esibizioni non possono che confermare le concezioni più misogine delle “donne liberate” come streghe isteriche. Non è facile comprendere che cosa i loro sostenitori occidentali sperino di ottenere da queste piazzate, a parte un ulteriore inasprimento del “conflitto di civiltà”. Se c’è una tendenza a cui le Femen hanno contribuito, questa è il ritorno a una tradizione conservatrice. Gruppi di donne musulmane hanno reagito riaffermando il proprio attaccamento al velo quale vera “liberazione”. Perfino nei paesi occidentali, centinaia di giovani si convertono all’Islam e partono per il Medio Oriente per unirsi a una fanatica guerra santa di rivolta contro un Occidente che si fa vanto della sua decadenza. Milioni di donne nel mondo stanno lottando per i diritti più elementari. Che cosa possono pensare di organizzazioni occidentali per i diritti umani che spendono milioni per promuovere un pugno di donne privilegiate che mettono in scena futili capricci in pubblico?

Diana Johnstone, Hillary Clinton – Regina del caos, Zambon. Per alcuni l’ideale candidata a succedere a Obama, per altri una perdente di successo fredda e calcolatrice. Un grande avvocato per certuni, per certi altri un emblema delle lobby, che decidono delle sorti di popoli interi dal chiuso di una qualunque stanza dei bottoni. La futura prima donna a sedere sulla poltrona del presidente degli Stati Uniti d’America, a scapito di Trump (o Cruz?), o colei che, per uno scandalo a base di email, rischia di perdere persino le primarie democratiche a vantaggio di Bernie Sanders, capace secondo alcuni di intercettare il voto giovanile e liberal meglio di lei. Un grande segretario di Stato, una donna che ha saputo risollevarsi dall’umiliazione del tradimento sotto gli occhi del mondo, una paladina dei diritti civili e dell’assistenza sanitaria per tutti, oppure una mera, ambigua e scaltra professionista della politica? Il saggio di Diana Johnstone (tradotto da Cristiano Screm), reporter di lunghissimo corso, donna da sempre impegnata nel sociale, convinta pacifista, analista e studiosa di geopolitica dalla storia e formazione più che progressista, comunque la si pensi è davvero interessante. Da leggere.

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