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“La piaga dei gabbiani”

di Gabriele Ottaviani

La folla si accalca intorno a noi. Sento il braccio di Brian intrecciarsi al mio, come se potesse proteggermi dall’impatto. Grida: «Una strage, un bagno di sangue! Te l’avevo detto, te l’avevo detto!». Il mazzo di lupini si schiaccia sempre più contro il mio petto a mano a mano che la gente si stringe intorno a me per evitare la putrida acqua nera che schizza dai palazzi, dilaga sull’asfalto e si raccoglie in pozzanghere sotto i nostri piedi, o per avanzare e avvicinarsi al centro dell’azione, là dove ruggisce il motore del camion dei pompieri, e sbirciare in alto, nel punto in cui il vigile del fuoco e i gabbiani combattono faccia a faccia. Tutti noi alziamo gli occhi. In cima alla scala, l’uomo si rannicchia su se stesso, schiva i colpi e agita il braccio libero mentre i gabbiani lo colpiscono in testa. Con l’elmetto che gli è scivolato di lato, momentaneamente cieco, si aggrappa con entrambe le mani alla ringhiera della pedana e la manichetta comincia a spruzzare selvaggiamente, si contorce e si allunga nel vuoto lontano da lui per poi tornare a contorcerglisi intorno come un enorme serpente. L’uomo recupera l’equilibrio, mentre la folla trattiene il fiato, e riprende il controllo della manichetta, punta il getto dritto sui gabbiani e li sgomina; in tre vorticano verso il basso, spezzati nell’impatto, e si abbattono sulla strada. L’aria è una spirale di ali e acqua, un lurido arcobaleno.

La piaga dei gabbiani, Stephen Gregory, Wojtek, traduzione di Monica Pezzella. Nonostante il titolo, non è un libro che parla di Roma, di Malagrotta, dell’incuria, dei rifiuti, dell’inciviltà, dell’inadeguatezza dell’AMA e dei cassonetti strapieni da cui sovente si alzano nugoli di volatili famelici e inferociti dai quali si rischia di venire aggrediti peggio che in una pellicola di Hitchcock, che almeno, a differenza di molti amministratori pubblici, era un genio assoluto: Stephen Gregory, che è bravissimo, ambienta nel nord del Galles, terra dalle mille suggestioni, la vicenda di un ragazzo che il giorno del suo diciottesimo compleanno salva un gabbiano. Non è che l’inizio di un legame, dai risvolti allegorici e finanche inquietanti… Maestoso.

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“Luminosa”

di Gabriele Ottaviani

I primi giorni come proprietaria della fabbrica – per eredità e per diritto – furono surreali. Non c’era nessuno più in alto di lei, e questo le provocava la nausea. Per la prima volta in vita sua ebbe paura di non potersi fare carico degli affari. Si chiese una dozzina di volte perché non aveva studiato per essere qualcos’altro, perché non si era tenuta lontana da quel posto. Se fosse stato così, in quel momento avrebbe potuto vendere la fabbrica, dimenticarsene, ricominciare da zero, continuare a fingere. Se lo chiese una dozzina di volte, e una dozzina di volte sentì che amava quel posto e che la presenza di suo padre, lontano dallo spaventarla, la stimolava. Che la morte è gelida, smisurata, invincibile, ma che non capisce niente. Suo padre era morto, ma era ancora lì, con Fausta, che era viva. La morte non capisce che le cose stanno così; la morte pensa di avere l’ultima parola. Dopo quei primi giorni di paura e incertezza, Fausta si trasformò – poco a poco, con i suoi tempi – in ciò che aveva sempre voluto: l’anima, il cervello e la colonna vertebrale della fabbrica. Con l’aiuto di suo zio, riuscì a mantenere i contratti con le aziende e il ritmo di lavoro come se non fosse successo nulla; quasi tutti i clienti si aspettavano che la povera ragazza vendesse la fabbrica, e la città si riempì di voci di licenziamenti che preoccupavano gli impiegati. Non successe niente di tutto ciò. Fausta non sapeva da dove tirare fuori la forza e il talento per gli affari in quel momento della sua vita, ma lo fece.

Luminosa, Gilda Manso, Wojtek, traduzione di Antonella Di Nobile. Per la pluripremiata scrittrice e giornalista di Lanús, Buenos Aires, l’aggettivo luminosa non è solo il titolo del suo più recente romanzo, ma si addice anche perfettamente alla sua prosa e alla personalità che da essa traspare e si sprigiona, come un fiume carsico che sorprende sempre e si dipana in mille rivoli, che irrigano e fertilizzano, e al tempo stesso seducono e turbano: splendida sin dalla copertina, è un’opera deflagrante e allegorica, folgorante come un trillo, che ha i sacri e solenni connotati della rivelazione e parla d’amore, identità, maternità. Impeccabile e imprescindibile.

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“Moonlight Motel, Parigi”

IMG-2516di Gabriele Ottaviani

I cuori si sciolgono in petali appassiti. Non sto combattendo solo per me stessa. Non è così. C’è guerra in un interno. Ovunque. In ognuno. Nessuno altrimenti mi avrebbe segnato la pancia con una croce. Nessuno mi avrebbe armato. Nadine non vorrebbe piangere e non odierebbe. Avanzo verso Orléans perché è lì che dovrà compiersi tutto. Sono stata scelta per mettere le cose nel posto giusto, quello che spetta loro. De par le Roi du Ciel. Fino a quando ci sarà ingiustizia ci sarà guerra, urla Sinéad O’Connor alla televisione in un filmato di repertorio, con gli occhi lucidi puntati nella telecamera. Urlo anch’io trafiggendo l’addome di un soldato. Il batterista degli Spiritual Front aveva fatto esplodere la sua batteria e le schegge erano andate a conficcarsi nei corpi e nelle facce dei nemici colti impreparati. Poi aveva lasciato la scena ridendo. Simone Salvatori spara con la mitragliatrice a una pattuglia nemica, la sua corista sussurra il numero dei nemici uccisi. Cadenza le cifre come fosse un’oscura marcia. Ne avevano già contati altri Ordo Rosarius Equilibrio: Tomas Pettersson e Rose-Marie Larsen avevano aperto la serata, lui a ogni canzone faceva fuori un componente di un piccolo nucleo di legionari che tentava un’incursione – ma Gilles aveva previsto tutto, facile no? – e poi baciava Rose-Marie Larsen, lei a ogni bacio, a ogni morte, veniva bagnandosi le mutandine già fradicie per la pioggia: baci di pioggia. Labbra di pioggia e piacere. Su Three Is an Orgy, Four Is Forever, la morte si era intensificata e a ogni numero corrispondeva una vittima Uno è per la libertà Due è per il male Tre è un’orgia Quattro è per sempre. Simone Salvatori spara con un’evidente erezione sotto i pantaloni da cavallerizzo, impugna un revolver. Stivali neri al ginocchio. Urlo penetrando il mio ventre con steli di rosa essiccata e come Rose-Marie, quasi come lei, vengo, comincio a venire; lei dà un bacio anche a me, mentre il bassista degli Spiritual Front, vestito e truccato da pagliaccio, fa scoppiare fiori di metallo i cui petali sfigurano quattro poliziotti. Il sangue scorre nell’acqua battente…

Sergio Gilles Lacavalla è scrittore, drammaturgo – sue tra l’altro le opere, rappresentate anche in diverse occasioni e location, del Ciclo del Rimpianto e della Perdita (Jeanne e Gilles, L’hotel degli amori perduti, amoR…), per la propria compagnia teatrale Le Soldat Perdu, nome preso da Apocalypse Now Redux – , regista, attore, fotografo (la poliedricità di interessi e talenti è evidente nella sua prosa che  non si può costringere in nessuno schema, tanto è deflagrante, varia, destabilizzante, policroma, caleidoscopica, psichedelica), e questo è il suo ultimo libro, enormemente suggestivo sin dal titolo, che fa risuonare nelle orecchie degli appassionati, cambiando quel che dev’essere cambiato, l’eco del nome di una splendida canzone di Bruce Springsteen, Moonlight Motel, Parigi, edito da Wojtek: Milla, Milla Pfaff Reims, per la precisione, ha dodici anni quando, dieci anni prima che – forse perché stanca dalle ennesime bugie che ha sentito – decida di raccontare la sua storia, e soprattutto quella della sua sola amica (in realtà raccogliendo l’unica cosa che di lei le è rimasta, ossia le sue parole sparse, quelle con cui sapeva riscaldarla), Jeanne, che le manca come l’aria, che ha nel cuore, che portava un anellino al piede che ora è sul suo, tutto succede. Dieci anni non sono pochi, eppure Milla ricorda ogni cosa. Ogni azione, ogni parola, ogni sguardo. Pensa così intensamente a Jeanne che può quasi sentirla vicina. Mentre fuma con calma una sigaretta, mentre aspetta l’alba, mentre ascolta la musica. A Jeanne la musica che Milla, la bambina della porta accanto, metteva, accendendo lo stereo dall’altra parte del muro, alzando il volume, condividendo con lei canzoni d’amore  e di lotta di guerra e d’amore, piaceva: la aiutava ad andare avanti. Perché Jeanne viveva segregata, annichilita dagli abusi del marito; però un giorno, mentre vede alla tv il film di Luc Besson del millenovecentonovantanove, con, tra gli altri, Milla Jovovich, John Malkovich, Faye Dunaway e Dustin Hoffman, dedicato all’eroina di Francia per antonomasia, colei che ha sedotto anche Shaw, Rossellini e Preminger, solo per fare qualche nome, e cui hanno prestato corpo, volto e voce anche, per esempio, Renée Falconetti, Florence Delay, Ingrid Bergman e Jean Seberg, ha come una rivelazione. Lei ha lo stesso nome della pulzella d’Orléans: e anche lei ha una battaglia da affrontare, combattere, vincere. Perché quando non c’è giustizia, uccidere gli ingiusti è un atto divino. Dunque… Da leggere.

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“Teorie della comprensione profonda delle cose”

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Il Pelato cominciava a singhiozzare, bagnando gli occhiali e le pagine patinate della rivista. Ma già adesso, la crepa operava in lui, Toni ne era convinto: erano i dubbi che, giorno dopo giorno, si accumulavano in lui; il constatare come il dottorato si fosse rivelato solo un modo per farsi sfruttare meglio dal potere, quello che non molla mai le redini, ti lusinga, ti accarezza per intrappolarti ma resta sempre al timone e ti spreme fino alle ultime energie, succhiandoti la vitalità, facendoti avvizzire. I successi delle poesie di Antonio Dattero, la pubblicazione della sua prima antologia, la nuova, ferma intenzione di diventare uno Scrittore di Successo, dovevano per forza averlo colpito. Dovevano aver scalfito la corazza di convinzioni, il castello di carte accademiche che il Pelato si era costruito dopo aver dimenticato i bei tempi e rinnegato il passato senza alcun rimorso. I racconti di Toni Date, pubblicati su bohèmeravigliosa, con l’ausilio degli adesivi che avrebbero aumentato a dismisura le visualizzazioni (e, di conseguenza, la vendita di Pelatide), stavano per fare il resto. Il romanzo, una volta scritto e uscito in tutte le librerie, sarebbe stato il colpo di grazia.

Teorie della comprensione profonda delle cose, Alfredo Palomba, Wojtek. Nominato al premio Strega di quest’anno da Antonella Cilento con la seguente, appropriatissima, motivazione: Il romanzo, multiplo e sperimentale, ritrae un gruppo di protagonisti irregolari, dall’autore di un blog anonimo a un tossicodipendente che crede d’essere cavaliere errante, sullo sfondo di una immaginaria città, Paesone. Voce di enciclopedia, poesia, tema in classe, imitazione donchisciottesca e rinascimentale, note a margine sulla trap: tutto confluisce nella magmatica narrazione di Palomba che aspira a un formato di romanzo aperto e ricco di codici, che ritrae l’estrema solitudine di una Mancha italiota due punto zero. Il romanzo si segnala per coraggio e qualità, certo ancora in via di maturazione e precisazione trattandosi di un esordio. Uno è un genio, anche se è solo un ragazzino, uno ha trentacinque anni e molti più disturbi, soprattutto nella sua psiche, fragile come il cuore dell’adagio di Bufalino, foglio sottilissimo di carta velina che sanguina per nulla come la pelle dei vecchi, un altro è un tossico che si crede un cavaliere errante, un altro ancora gestisce un blog anonimo: e non sono solo loro i protagonisti di quest’opera in cui viene declinato con prestigiosa sapienza e sottile cura il male di vivere nel mondo d’oggi, alienato finanche nei confronti di sé medesimo, prendendo le mosse da un onirico Paesone di nome e di fatto, in mezzo al nulla, su cui aleggia il ricordo della mole d’un’antica torre… Da leggere.

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“Il tempo di morire”

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I giudici italiani sono stati molto criticati per le decisioni assunte nel caso di Eluana. Per molti, hanno sostituito il potere legislativo: le Camere sollevarono infatti conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale, che però lo respinse: incredibile attivismo istituzionale di un potere legislativo paralizzato e balbettante ma pronto a reagire alle scomuniche del presidente di turno della cei, ogni volta che si tratta di affrontare temi etici e, soprattutto, bioetici. Non sono un difensore della magistratura italiana, che soffre di gravi difetti ed evidenti deficienze, ma ho imparato una cosa da uno dei miei maestri, Benedetto Conforti: se l’individuo ha qualche speranza di vedere affermati i suoi diritti, questa speranza non può che essere riposta nel potere più indipendente e imparziale, cioè nel potere giudiziario. Quando l’individuo invoca un diritto, come quello all’autodeterminazione nel campo della cura del corpo e delle decisioni finali sulla propria esistenza, non gli si può opporre l’assenza di una legge che regolamenti la materia nel dettaglio, ma, semplicemente, vanno ricostruiti i princìpi del sistema (tanto più in presenza di una carta costituzionale che riconosce e garantisce un ricco catalogo di diritti e libertà) in modo da assicurare, secondo le circostanze del caso concreto, il godimento di quel diritto, già esistente nell’ordinamento giuridico. Il vero errore di prospettiva, nell’esame del caso Englaro, è infatti pensare che l’esercizio della libertà di rifiuto delle cure equivalga ad affermare la legittimità dell’eutanasia…

Il tempo di morire – Breve esortazione per una cultura della morte, Eduardo Savarese, Wojtek edizioni. La morte non è niente, sono solo scivolato nella stanza accanto, recita un celebre e dolcissimo adagio: la morte del resto è parte integrante della vita, senza l’una non esisterebbe l’altra, e viceversa, è nella natura delle cose, è inevitabile, è giusta ed equanime, prima o poi si accosta, nella stessa maniera, a tutti. E nonostante non vada temuta, perché quando c’è lei non ci siamo noi, manca ancora sovente una cultura della morte: Savarese, con agile eleganza, muovendosi abilmente tra livelli, chiavi e riferimenti, con prosa bella e lieve indaga proprio questo decisivo aspetto del nostro tempo e del nostro mondo. Da non perdere.

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