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“Vani d’ombra”

specchio vani d'ombra.qxp_Un tangodi Gabriele Ottaviani

Fanno discorsi senza senso, è bello parlare di cose insulse, ricorda a entrambi di essere in vacanza. La macchina Michele Maestri l’ha parcheggiata direttamente sulla spiaggia, è bastato spostarsi di dieci chilometri per non trovare nessuno, ha guidato scalzo, è bella la libertà, altroché. Arianna ha voglia di camminare, percorre un chilometro, ci sono alberi che bordeggiano la spiaggia, non c’è nessuno, sceglie un piccolo arenile, riparato dalle onde, poco meno di seicento metri di bracciate e poi c’è il grande blu, il largo che fa paura. Arrivano spossati, si spogliano, restano nudi, è bella la libertà, lui la schizza, lei scappa, ridono di queste scemaggini, fanno un bagno, tornano a riva, si asciugano, il caldo entra nelle giunture, Arianna ha un corpo perfetto. Poi accade qualcosa, è lei ad accorgersene per prima, si profila il corpo di un uomo, di un ragazzo, avrà forse vent’anni, sembra uno del posto e quella deve essere la sua spiaggia, non si cura della loro presenza, non presta attenzione al fatto che siano nudi, anche lui si spoglia, lo fa lentamente. Michele Maestri spia le reazioni di Arianna, lei si volta, si mette a favore del ragazzo, ci rimane una manciata di secondi con la scusa di farsi spalmare ancora una volta la schiena, le mani di Michele Maestri scivolano sul suo corpo, il ragazzo li osserva e non dice nulla, si avvicina invece alle onde, ha un corpo teso, il petto terso. Si getta in acqua, lo fa con calcolata calma, si prende tutto il tempo possibile per farsi notare, sa di essere molto bello. Arianna si è messa seduta e lo osserva, anche Michele Maestri lo guarda mentre avanza a bracciate sicure nelle onde, poi si volta e vede gli occhi di Linda, vuoi che vada a fargli un pompino, vero? ci stai pensando? Michele Maestri guarda nei suoi occhi e scopre il suo abisso: sì, seguilo. Lei obbedisce, l’attesa è sneravnte, Arianna si tuffa…

Vani d’ombra, Simone Innocenti, Voland. A Michele Maestri l’amore lo insegnano da ragazzino, alle elementari, a scuola, in chiesa, e però lo impara per davvero al cinematografo. E col binocolo, con cui tiene le cose a distanza. Le osserva. Le guarda. Le vede. Le scopre. Le interpreta. Le filtra. Le capisce. Le racconta. Con la sua lingua scabra e inesperta, immaginifica, lirica e sublime e al tempo stesso fatta di carne, sudore, sangue, terra fertile, gemiti soffocati, rantoli, orgasmi, fruscianti tessuti e drappi colorati che celano e velano, cingono, solleticano e di continuo sfregano la pelle turgida. Riflette sul primo sguardo di donna che gli soppesa i pantaloni fattisi più gonfi perché lei si è sollevata la gonna. I suoi pensieri hanno la forma di un bottone che trova dimora nell’asola d’una camicetta, riposta ordinatamente nell’armadio in cui è rinserrato perché troppo ha visto, perché troppo ha scoperto, perché quella donna, che gli pare giovane e bella, che lo attrae e seduce, quando finisce di assistere chi deve cambia d’improvviso, come Proteo, diventa altra, le muta lo sguardo, le labbra si fanno più vive, rovescia gli occhi durante il piacere e lo rinchiude nel canto, mentre incontra tanti uomini, sempre diversi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, la maggior parte dei quali a Michele è ignota. Ma può capitare di riconoscere una voce anche da un gemito, ed è quello il suono della perdita dell’innocenza e delle illusioni, del solco che per sempre gli si scava nel cuore e nella vita… Bildungsroman raffinato e sontuoso affresco delle emozioni, Vani d’ombra indaga le lunghe estati calde dell’anima: da non perdere.

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Libri, Senza categoria

“Victory Park”

41bNLIgrIaL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Quando vedi ciò che non c’è si chiama delirio, e quello passa. Ma quando non vedi ciò che c’è, sei cieco. E chi lo sa se riuscirai mai a guarire.

Victory Park, Aleksej Nikitin, Voland, traduzione di Laura Pagliara. Pelikan e Baghila sono due studenti universitari, due amici che nella Kiev del millenovecentoottantaquattro, quando i segnali della decadenza dell’URSS ci sono già tutti eppure tutto pare proseguire come al solito, sin da quando se ne ha memoria, sullo sfondo delle periferie spersonalizzanti e anonime conducono quasi neghittosamente la loro esistenza tra i vari frequentatori del parco, cartina al tornasole dal nome che a orecchie occidentali e capitalistiche fa riecheggiare quello di una delle più ambite caselle del Monopoli, quintessenza, sintesi e simbolo del coacervo di molteplicità prossimo alla disgregazione, e preconizzatore di molte delle tematiche attuali al centro del dibattito nell’Est Europa, di una vera e propria Weltanschauung, quella del cosiddetto socialismo reale: Nikitin scrive in stato di grazia quella che pare una riuscita sceneggiatura, fatta di vividi ritratti intimamente e solidamente connessi e senza alcuna battuta fuori tempo.

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“Nero ananas”

415YVHTTZ5L._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La politica inizia ad aggrovigliarsi su sé stessa. A voltare le spalle al mondo che c’è fuori, credendo di andargli incontro.

Nero ananas, Valerio Aiolli, Voland. La motivazione con cui Luca Formenton, editore di lunga e splendente tradizione familiare, allievo di Cesare Segre e Maria Corti nonché fondatore di Diario insieme a Enrico Deaglio, propone questo eccellente romanzo allo Strega – lido che l’autore di Nero ananas ha già frequentato nel millenovecentonovantanove con Io e mio fratello, storia raccontata con arguzia naif da un bambino di cinque anni che descrive il mondo che gli si squaderna dinnanzi in tutte le sue policrome contraddizioni – di quest’anno è la seguente: Nero Ananas di Valerio Aiolli ricostruisce gli eventi drammatici che hanno segnato la storia d’Italia nei cinque anni che vanno dalla strage di piazza Fontana del12 dicembre 1969 alla strage della Questura di Milano del 17 maggio 1973, ricostruendone i fatti attraverso un racconto polifonico e orizzontale, e un ritmo cronologico che accompagna il lettore, giorno per giorno, mese per mese, allo straziante epilogo di via Fatebenefratelli. Verosimiglianza e realtà si confondono in quest’opera, che ha il merito di essere riuscita in un’impresa senza dubbio difficile: restituire quel periodo della nostra coscienza culturale e storica senza cedere alla pura mediazione della cronaca, ma mettendo in scena una narrazione corale, universale – a volte intimamente vertiginosa –, e capace di raccogliere in queste pagine una moltitudine policroma di voci, spesso antagoniste tra loro. Storie e ricordi dal colore familiare si mescolano infatti, in Ananas nero, a quelle di personaggi, come il Dottore, Falstaff, Zio Otto, il Samurai e il Pio, dietro ai quali si possono facilmente riconoscere i protagonisti di quegli anni – senza mai però risultare specchi di se stessi, ma incarnando profondamente lo spirito, contraddittorio ed elusivo, del loro tempo. Così, accanto a estremisti di destra che si incontrano e tramano di nascosto, anarchici in cerca di riscatto e agenti dei servizi segreti che osservano tutto nell’ombra, compaiono vite quotidiane, famiglie che si riuniscono intorno alla tv per capire cosa stia succedendo, parenti scomparsi e storie di amore e di odio consumate nell’intimità di biografie minori. Per farlo, Aiolli si affida a una scala di colori stilistica di assoluta qualità, che permette all’autore di muoversi tra i differenti timbri espressivi cogliendone i particolari e le sfumature, pur mantenendo nell’insieme una tonalità letteraria ordinata e coerente. Più del regesto storico (che ad ogni modo viene accolto tra le righe e meticolosamente affrontato nella sezione che chiude il volume, Futuro anteriore), ciò che interessa ad Aiolli è il gesto invisibile, l’incontro nascosto, il combattimento interiore di chi ha vissuto sulla propria pelle i fatti drammatici, e l’esplosione sentimentale che ha fatto da eco a quella degli ordigni terroristici. Fin dalle prime pagine, è sempre presente la sensazione che il rumore cieco della bomba in piazza Fontana abbia causato molti più danni di quanti, già tragicamente ingenti, la scena poteva restituire: ha sgretolato l’innocenza di un paese, ha aperto una voragine nelle coscienze di cui è impossibile valutare la profondità e l’estensione, e segnato senza possibilità di ritorno gli anni a venire, quelli della “strategia della tensione”. Uno dei principali meriti di Aiolli, in questa suo romanzo, è allora quello di aver riportato a galla non solo il ricordo o la memoria delle tragedie, ma il fiato, le parole, il dolore, gli epitaffi di coloro che, protagonisti, vittime o semplicemente lontani spettatori, hanno vissuto sul limitare di quel precipizio, grigio e nebbioso, chiamato Italia. Ed è difficile non essere completamente d’accordo con un’esegesi tanto profonda, accurata ed efficace: Valerio Aiolli, autore di romanzi, monologhi teatrali e racconti, anima di numerosi corsi di scrittura creativa e passeggiate letterarie per diverse associazioni culturali, a lungo membro dell’Osvaldo Soriano Football Club, la nazionale di calcio degli scrittori che prende il nome da un grandissimo autore e cantore dello sport e dei suoi simbolici significati, con una prosa di ampio respiro che ricorda quella del miglior Auster intreccia sapientemente le vicende di alcuni personaggi le cui storie sono messe in relazione da quella con l’iniziale maiuscola, nella quale si riverbera il crogiuolo di contraddizioni e menzogne che con la metodicità di un perverso effetto domino avvelena la nostra società, sempre più proterva, melliflua, cattiva, rabbiosa, invidiosa. Ottimo.

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“I nomi epiceni”

41tFwFujRZL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Dominique non chiedeva altro che di lasciarsi rassicurare.

I nomi epiceni, Amélie Nothomb, Voland, traduzione di Isabella Mattazzi. Probabilmente se vi fosse un dizionario illustrato che abbinasse a ogni sintagma una fotografia non vi sarebbe immagine migliore per definire la locuzione “autrice di culto” (con pieno merito, per inciso, perché la sua voce e il suo stile, finanche nell’abbigliamento, sono unici e inconfondibili e, per chi li apprezza, irresistibilmente suggestivi ed evocativi) di una qualsiasi di Amélie Nothomb, scrittrice incredibilmente prolifica, amatissima dal pubblico, pluripremiata, e sempre geniale e innovativa, mai uguale a sé medesima benché comunque riconoscibile e nonostante non manchi mai, in un certo qual senso, come del resto ogni artefice che si rispetti, di prendere le mosse dalla propria vicenda personale per sublimare l’autobiografia (nel suo caso ampia e varia: belga, figlia di un diplomatico, ha vissuto in Giappone, in Cina, in Bangladesh, ha sofferto di anoressia, ha lavorato come traduttrice ma anche come guardiana mobbizzata dei bagni di un’importante azienda…) nell’arte. Pesce, sentinella, coniuge: sono questi alcuni esempi di nomi epiceni, sostantivi cosiddetti ambigenere, che danno il titolo, come sempre legato da una connessione lirica e poetica, un po’ come sosteneva di fare Magritte per i nomi delle sue opere, al nuovo romanzo di Fabienne Claire – così all’anagrafe – Nothomb. Il francese consente che esistano nomi epiceni anche tra quelli propri: esempi sono Dominique e Claude, che possono valere sia per il maschile che per il femminile, cangianti come shantung nella loro manifestazione identitaria, unici e molteplici. Sono loro i protagonisti, che il dodici di settembre del millenovecentosettanta si incontrano e ancora non sanno che le loro vite, da quell’istante, cambieranno per sempre, in un formidabile climax di passione e ossessione. Come sempre da non perdere.

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“Le donne di Lazar'”

41CTMJ1XezL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

E la vita di Galočka Batalova si concluse.

Le donne di Lazar’, Marina Stepnova, Voland, traduzione di Corrado Piazzetta. Lazar’ è nato all’inizio del cosiddetto – la storiografia insegna e definisce – secolo breve in un villaggio. Ebreo. Oscuro. Non se ne sa né se ne comprende molto. Giunge diciotto anni dopo a Mosca. Non ha nulla con sé. Solo un mare di pidocchi in testa. E un quaderno logoro. Ma sotto quella cute pruriginosa scalpita un cervello di primissimo ordine: è un genio, un luminare della scienza. Lo attende un futuro fatto di privilegi, ma anche di rinunce e frustrazioni, impossibilitato a essere quel che avrebbe voluto essere, a vivere pienamente la propria sfera emozionale, mentre la sua parabola esistenziale si intreccia con quella di tre donne e con la storia lunga un secolo della Russia che nasce impero zarista, diventa superpotenza sovietica e poi si dissolve insieme al comunismo: solido, vibrante, intenso, maestoso.

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“Abbacinante – L’ala sinistra”

310WDk4nzTL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Mentre Maria restava impietrita davanti alla porta, Costel si allontanò nell’erba nascente…

Abbacinante – L’ala sinistra, Mircea Cărtărescu, Voland, a cura di Bruno Mazzoni, postfazione di Vanni Santoni. A Bucarest sogno e violenza, realtà e fantasia, bellezza e squallore, l’ostentata magnificenza della protervia del potere e la devastazione dei palazzi squassati dal deflagrare della marcescenza camminano di pari passo, a braccetto, stretti stretti, tenendosi saldamente per mano: e un viaggio è anche questo libro, romanzo di formazione e saggio epico, affresco di un tempo, di un regime, dell’inevitabile decadenza, di un’infanzia perduta, vagheggiata, rimpianta, incantevole e terribile insieme, lirica e tragica, disincantata, un caleidoscopio dai colori scintillanti. Imperdibile.

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“Abbacinante – L’ala destra”

51wAcnhsTdL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Vieni, bello di mamma, vieni a vedere, c’è la rivoluzione in tv!

Abbacinante – L’ala destra, Mircea Cărtărescu, Voland, a cura di Bruno Mazzoni. È il millenovecentottantanove. Siamo in Romania. La rivoluzione è in atto. Il potere è in mano a un uomo malato. La società è devastata, prostrata, sfibrata, spossata, delusa, esausta, stremata, distrutta. La famiglia è la sola certezza. Ma ogni famiglia nasconde un segreto, più o meno importante. E quello celato dal nucleo al centro della narrazione può generare la forza di una deflagrazione. In tutto questo un bambino, curioso del mondo, si rifugia nella fantasia, mentre quattro filoni narrativi principali si intrecciano e si riverberano l’uno nell’altro, in una sinfonia di echi solenne e maestosa: così si conclude una trilogia che ha fatto e fa, con pieno merito, scalpore. Monumentale.

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“L’invenzione dell’amore”

41oluQYJ7LL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Il pianto è qualcosa che succede agli altri.

Alla fine di una serata come tante, trascorsa insieme agli amici, fumando, bevendo, discutendo per il puro piacere di farlo, in terrazza, cercando di strappare all’alba rosata un frammento di luce che illuda che il passare delle stagioni non porti con sé anche il dolore della consapevolezza delle responsabilità che via via si fanno sempre più incombenti, mentre il tempo, inarrestabile, non può far altro che scorrere in una sola direzione, riceve un’imprevista telefonata. È una voce rotta dal pianto a chiamarlo. Per evitare un pedone è uscita fuori strada: così è morta. E lo avvisano della cremazione. Di Clara. Che tanto aveva parlato di lui. Ma lui non ricorda, non sa chi sia. E… L’invenzione dell’amore, di José Ovejero, tradotto da Bruno Arpaia per Voland, è uno dei quei rarissimi romanzi da cui non ci si staccherebbe nemmeno se la casa prendesse fuoco, che emozionano sin dalla prima riga e fanno bene all’anima. Se capolavoro non fosse vocabolo così trito e ritrito, sarebbe proprio la sola definizione possibile. E comunque riduttiva.

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“Guasti”

41FzIfk7CIL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

E dov’è il suo fallimento?

Guasti, Giorgia Tribuiani, Voland. Il dottor Tulp è un anatomopatologo di indubbia fama e nelle sue ultime volontà il compagno di Giada, un fotografo di grido, ha chiesto che il proprio cadavere diventasse una delle sue opere d’arte plastinate, esposto in una mostra della durata di un mese. Così per vanagloria alla donna è strappata con violenza anche l’ultima possibilità di vivere nell’intimità e nel raccoglimento, anche quello di una tomba, il suo amore, il suo lutto, il suo dolore, l’elaborazione della pena e del sacrificio, dei ricordi, tanto concreti da essere corporei, su cui edificare il proprio futuro, per andare avanti e non sentirsi sbagliata, guasta, vittima inerme anche lei di quella corruzione che tutto fa anzitempo marcire e morire. Ma c’è persino di peggio, nonostante ci sia anche chi cerchi di darle una mano. Un collezionista, al termine dell’esposizione, vuole infatti acquistare quel che resta del suo amato. A quel punto Giada… Profondissimo, emozionante, vibrante, straziante, dal ritmo formidabile ma mai inutilmente concitato, parla con tenerezza alla parte più nascosta di noi, quella che ha paura dell’abbandono. Da leggere.

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“Mesopotamia”

51Uu44WTxyL._AC_US218_ (1).jpgdi Gabriele Ottaviani

L’America mi sembra davvero il paese delle pari opportunità.

Mesopotamia, Serhij Žadan, Voland, traduzione di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč. Siamo pronti a tutto per essere felici. Ancor di più per credere di esserlo. Per illuderci. Perché non ci sono più ideologie, punti di riferimento, modelli cui ispirarsi. Tutto è liquido, sdrucciolevole, vano, vacuo, l’umanità sembra dispersa nei meandri della sua stessa irredimibile inquietudine. È il canto lirico del nostro scontento e del nostro squallore, metropolitano e interiore, e al tempo stesso un corale e riuscitissimo apologo della speranza e della lotta per la sopravvivenza questo affresco assolutamente da non lasciarsi sfuggire.

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