di Gabriele Ottaviani
Quando vedi ciò che non c’è si chiama delirio, e quello passa. Ma quando non vedi ciò che c’è, sei cieco. E chi lo sa se riuscirai mai a guarire.
Victory Park, Aleksej Nikitin, Voland, traduzione di Laura Pagliara. Pelikan e Baghila sono due studenti universitari, due amici che nella Kiev del millenovecentoottantaquattro, quando i segnali della decadenza dell’URSS ci sono già tutti eppure tutto pare proseguire come al solito, sin da quando se ne ha memoria, sullo sfondo delle periferie spersonalizzanti e anonime conducono quasi neghittosamente la loro esistenza tra i vari frequentatori del parco, cartina al tornasole dal nome che a orecchie occidentali e capitalistiche fa riecheggiare quello di una delle più ambite caselle del Monopoli, quintessenza, sintesi e simbolo del coacervo di molteplicità prossimo alla disgregazione, e preconizzatore di molte delle tematiche attuali al centro del dibattito nell’Est Europa, di una vera e propria Weltanschauung, quella del cosiddetto socialismo reale: Nikitin scrive in stato di grazia quella che pare una riuscita sceneggiatura, fatta di vividi ritratti intimamente e solidamente connessi e senza alcuna battuta fuori tempo.