Teatro

“Dio arriverà all’alba”

teatro.it_Dio-Arriver-all'alba.AntonioNobilidi Gabriele Ottaviani

Ho una nave segreta dentro al corpo, una nave dai mille usi… Diretto con mano sicura e scritto con cura e grazia da Antonio Nobili (aiuto regia: Margherita Caravello), che ben conosce l’arte del teatro e che possiede una raffinata sensibilità nell’accostarsi al linguaggio della lirica, tanto da realizzare uno spettacolo dalla tessitura finissima e perfettamente coerente con la poetica dell’evocata protagonista, di cui cita due componimenti, e alla figura del poeta in quanto emblema di alterità rispetto al volgare materialismo della società in cui si muove a disagio come albatros che non vola (magnifico il suo De profundis, da Wilde, in cui era anche interprete principale), Dio arriverà all’alba – del cui testo è disponibile anche la versione cartacea: il ricavato della vendita aiuterà un’associazione che si occupa di sostegno alle persone affette da disturbi mentali -, in cartellone nella splendida cornice del Teatro Due di Roma fino al ventiquattro di questo mese, grazie a un allestimento più che appropriato (belli i costumi, la colonna sonora di Paolo Marzo, la scenografia di Fabio Pesaro) e alla valida recitazione di un’ampia compagine di attori che prevede Antonella Petrone, eccezionale protagonista di questo totalizzante e immersivo atto unico di oltre un’ora e mezza, Valerio Villa, Daniel De Rossi, Davide Fasano, Virginia Mendez, Sharon Orlandini, Armando Puccio e Alberto Albertini, indaga l’interessante e complessa, molto più di quanto sembri e sia stata sinora raccontata, figura di Alda Merini, scrittrice dagli umili natali che non fu ammessa al liceo perché non superò la prova d’italiano, aforista, poetessa, artista, fumatrice incallita vissuta in una casa popolare lungo i Navigli milanesi dai muri trapunti di crepe e ricoperti di appunti e disegni tra il millenovecentotrentuno e il duemilanove, malmostosa, esilarante, fragile, tenera, fortissima, che tanto amò e che mai non ebbe pace, per citare l’epitaffio per sé medesimo di Pietro Fucci, anima bambina esistita per la poesia, madre di quattro figli affetta da un disturbo bipolare che la costringe al primo internamento quando è solo sedicenne, subito dopo che Giacinto Spagnoletti ne è diventato mentore… Da non perdere.

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Teatro

“…con amore Marc e Bella Chagall”

bellezza-con-amore-marc-e-bella-chagalldi Gabriele Ottaviani

Un uomo. Una donna. Una grande storia d’amore. La separazione. Il ricongiungimento. La nascita di una figlia amatissima. Gli ideali di libertà. Il rapporto con Dio. Il desiderio di essere felici, di farsi valere, di dimostrare i propri meriti e di rendere orgogliose le persone per cui si prova amore e da cui lo si riceve. L’arte, croce e delizia, sangue che scorre nelle vene, passione, missione e vocazione. Il sogno e la speranza. La politica. L’illusione e la disillusione. I viaggi in giro per l’Europa. Le radici, cercate e strappate. Un allestimento scenico minimale ma suggestivo, versatile, che fa sì che una, cento, mille immagini di un’unica storia, mille scintille di una medesima fiamma prendano vita nella splendida cornice del Teatro Due di Roma, coinvolgendo anche il pubblico, invitato a disegnare le proprie fantasie. Uno spettacolo bello e intenso, che riproduce l’arte di un grande maestro della pittura mondiale, di cui Roma, nel Chiostro del Bramante, ospita in questi mesi, fino al ventisei di luglio, una mostra: Marc Chagall. Il pittore con le ali, che fa volare gli uomini tra le stelle, poeta per mezzo dei colori come il suo amico Apollinaire lo era tramite le parole. Di e con Valentina D’Andrea e Simone Càstano, belli e bravi, …con amore Marc e Bella Chagall. Straordinario.

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Teatro

“Antigone 1945”

antigone-teatro-memoria-milanodi Gabriele Ottaviani

Un’altra perla al DOIT Festival al Teatro Due di Roma, rassegna fortemente voluta e assai ben realizzata da Angela Telesca e Cecilia Bernabei. Creonte è il governatore comunista di una città che è appena stata liberata: la seconda guerra mondiale è finita, e lui porta sul corpo e nell’anima i segni di vent’anni di manganellate fasciste e di costole rotte. Ora che è al potere a Eteocle devono essere tributati tutti gli onori che si devono a un capo partigiano che ha lottato per la democrazia, mentre il cadavere di Polinice deve essere esposto al pubblico ludibrio. Ma Antigone, sorella di entrambi, conosce la pietà, e non può accettare tutto questo. Dunque, va incontro a un destino tragico. Da Sofocle ai repubblichini il passo pare breve grazie alla bella scrittura di Mirko Di Martino, e all’interpretazione intensa di Titti Nuzzolese e Luca Di Tommaso, che di volta in volta danno voce e corpo a tutti i personaggi dell’antico dramma, coro compreso. Perché i sentimenti sono universali, e il dilemma tra legge degli uomini e legge di Dio, o meglio del cuore, è eterno e ineluttabile. Antigone 1945, ancora oggi in scena, è da vedere.

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“Isla Neruda”

isla-neruda-foto-2di Gabriele Ottaviani

Come uno stagno è l’amore, che ci colse tra civico e civico… La potenza della passione che tutto travolge e fa sì che i corpi si allaccino in un abbraccio d’amore irresistibile ovunque si trovino, fosse anche in mezzo alla strada, bocca contro bocca, pelle su pelle. La fame di esistere che scorre nelle vene, impetuosa e irrefrenabile. La sensualità di cui ogni cosa è imbevuta. La tenerezza per un sentimento nuovo che sta sbocciando. Il desiderio che acceca e annebbia la mente. La rabbia per le ingiustizie sociali e politiche. La vita, semplicemente, se così si può dire. In tutte le sue forme, i suoi aspetti, i suoi cangianti e scintillanti petali di essere. E la poesia, che è l’essenza, il fulcro e la sintesi, e che, con il suo linguaggio fatto di immagini, suoni e commistioni di sensi, si fa chiara e comprensibile narrazione, esplicita più della prosa nel racconto della vita di un uomo come tanti e speciale come tutti, più di tutti, sensibile come sa essere solo chi affida la sua anima a un verso, unendosi alla musica dal vivo del violino di Claudio Merico, al canto, alla danza, alla dolce melodia della chitarra, al corpo e ai suoi movimenti, al suo vocabolario. Un viaggio alla ricerca della verità, del centro, del cuore di tutte le cose, tra valigie e papaveri di diverso colore, attraverso parole non semplici ma limpide, ammalianti, una raffinata costruzione niente affatto virtuosistica: un tuffo in un fiume che rinfresca e dà pace. Fuori concorso nel cartellone del DOIT Festival, rassegna dall’anima letteraria fortemente voluta e organizzata con rara passione e straordinaria bravura da Angela Telesca e Cecilia Bernabei, nella splendida cornice del Teatro Due di Roma, è ancor oggi in scena, liberamente tratto da Memoriale di Isla Negra e Confesso che ho vissuto, con Antonio Sanna e Laura Amadei, Isla Neruda. Da non perdere.

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“Uomini terra terra”

uomini-terra-terra-2-300x200di Gabriele Ottaviani

La terra è buona e generosa. Si è fatta sentire più di duecento volte. Ha sussultato e tremato. Ha bussato due volte più forte alle porte delle case degli aquilani quella stessa tragica notte per avvisarli. Poi, alle tre e trentadue del sei di aprile del duemilanove, dopo quattro mesi di sciame sismico, iniziato il quattordici di dicembre dell’anno prima, la scossa fatale. Trecentonove morti. E per mesi i segnali, gli avvertimenti, gli studi, le richieste, i dossier, le grida d’allarme sono stati ignorati. L’Aquila, una città che ha una millenaria storia di drammi di questo tipo, sorta su un sottosuolo che decuplica la potenza di un terremoto, un capoluogo benestante e bello, ora non c’è più. Distrutta dalla noncuranza. Uomini terra terra, col raffinato linguaggio e le delicate e ironiche modalità espressive dei cantastorie, condite con il piglio della cronaca e dell’inchiesta, guida, grazie alla cristallina bravura di Giorgio Cardinali e Piero Larotonda, gli spettatori nel baratro del dolore: in scena nella meravigliosa cornice del Teatro Due di Roma, nell’ambito del DOIT Festival, è da vedere. Non solo perché è uno spettacolo bello. Ma perché è importante, è teatro di denuncia e impegno civile. Per non dimenticare, perché chi scorda è destinato a rivivere.

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“Io rido – Storia misteriosa di una cena indimenticabile”

DOITdi Gabriele Ottaviani

Io rido – Storia misteriosa di una cena indimenticabile, presentato come evento off, ossia fuori concorso, nell’ambito della rassegna DOIT al Teatro Due di Roma, si ispira a un fatto di cronaca. Che si fa drammaturgia di alto livello, a conferma di come la dimensione fantastica dell’arte sovente affondi le sue radici nella concretezza del mondo contemporaneo, che vuole raccontare attraverso luci, ombre, suoni, gesti, colori, suggestioni e linguaggi carichi di lirismo, grazie alla regia sicura e alla scrittura felice di Samuel Dossi e alle interpretazioni convincenti di Marta De Lorenzis e Luca Maggia, da Pinerolo (Teatro Il Moscerino), che danno vita a due personaggi a dir poco singolari. Un uomo elegante, vestito di tutto punto, completo, scarpe, camicia e papillon, pieno di tic nervosi, ordinato, metodico, meticoloso, nevrotico, che apparecchia una tavola con puntiglio ossessivo, ma solo a metà, mentre nell’etere si inseguono volteggiando le note di canzoni di decenni fa, gravide del loro peso di ricordi. Tu sei per me la più bella del mondo… Chi è? E perché si comporta così? Cosa desidera? Cosa cerca? Cosa accadrà, nel corso della cena? E poi c’è l’altro commensale, una donna. In tutù. Ma non sa ballare. Eppure basta un poco di musica, basta una melodia… Sulla testa ha una corona, un diadema scintillante che le è stato donato da una bambina, un angelo. Le gote sono rigate da lacrime nere. Come mai si sono dati appuntamento? Come mai lei ha risposto all’inserzione di lui? E che inserzione era? E perché lui ha bisogno che lei rida, o almeno sorrida? Il mistero, pian piano, si svela, il gioco, se così si può definire, perverso e contorto si sviluppa e al tempo stesso avviluppa. Perché lo spettatore finisce in un vortice, nelle pieghe più nere dell’animo, dove il rumore della colpa si fa deflagrante. Intenso, da vedere.

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“Doris Every Day”

foto-doris-every-day-1di Gabriele Ottaviani

Non è semplicemente una delle più celebri attrici di Hollywood. È anche stata un modello di donna. E forse lo è tuttora, almeno nel patrimonio di ricordi collettivi che compone la memoria condivisa, quella trama di riferimenti comuni che stabilisce relazioni e rapporti umani tra le persone di più diversa provenienza ed estrazione, che si riconoscono come simili perché hanno provato la stessa sensazione e hanno contezza dei medesimi esempi e simboli giunti a loro attraverso il potere dei mezzi di comunicazione di massa. Sempre impeccabile, ovviamente bionda ma niente affatto svampita, alla faccia della madre di tutti i luoghi comuni, bella, dall’intelligenza brillante, gli occhi vispi, faville che covano sotto la cenere di un’immagine perfetta, inequivocabilmente anni Cinquanta: vestiti di taglio sartoriale dai colori vivaci, femminile ma volitiva, moglie adorata e adorabile, senza macchia in ogni situazione. È Doris Day, la fidanzata d’America, la ragazza della porta accanto, delizia per gli uomini e forse per le donne, perché probabilmente ogni madre – almeno, quelle di un certo tipo, un po’ troppo “borghesi” – avrebbe voluto una figlia così, ferrata nel canto, nella danza e pure nell’economia domestica, e con ogni evenienza ogni marito ha desiderato di avere la sua Doris in casa, mentre di norma ha accanto, grazie al Cielo, donne che non sono paradigmi da contemplare, donne normali, e per questo, dunque, irresistibilmente speciali. Doris Day, la repubblicana – non sono in molti nella Mecca del cinema, ma parlare di destra e sinistra negli USA, dove sono invertiti rispetto alla tradizione europea persino i colori che identificano gli schieramenti politici, è una forzatura: basti pensare alla poetica e alla visione politica di Clint Eastwood, per certi versi molto più a sinistra di tanti socialdemocratici del Vecchio Continente – di ferro amante degli animali e convinta vegetariana, insignita da George W. Bush della Medaglia Presidenziale della Libertà, citata in canzoni di Elton John e dei Beatles, amica fraterna nonché compagna di set in alcune commedie di strepitoso successo, incentrate su una sorta di “battaglia dei sessi”, di Rock Hudson, che certo amava le donne ma non come lo si intende tradizionalmente, protagonista formidabile del geniale capolavoro di Hitchcock L’uomo che sapeva troppo, in cui è tragico, stridente e meraviglioso il contrasto fra la vicenda narrata e il tema musicale da lei stessa cantato, quel Que sera sera che è un inno evanescente ed effervescente alla leggerezza. Doris Day, che fa rima con Dorian Gray, non l’attrice ma il personaggio di Oscar Wilde, quintessenza della maledizione dell’ossessione per la bellezza. Ma Day, in inglese, vuol dire anche “giorno”: e anche su questo, oltre che sui contrasti dolorosissimi cui si è già fatto riferimento, gioca sin dal titolo la pièce presentata al Teatro Due, splendida cornice romana – è in Vicolo dei Due Macelli – della interessantissima rassegna DOIT (Drammaturgie Oltre Il Teatro, dal ventotto di aprile fino al ventiquattro di maggio), curata con rara passione e perizia da Angela Telesca e Cecilia Bernabei. Doris Every Day è il drammatico e appassionante racconto del percorso di perdizione e dolore di una giovane donna a cui è stato forzatamente inculcato il culto per l’apparenza che l’ha imprigionata in un vezzoso carcere rosa confetto fatto di fette di limone, comandamenti più duri di quelli veterotestamentari e trattamenti estetici che le fanno diventare la fronte piatta come l’elettroencefalogramma di un morto e scivolare via tra le mani come sabbia quella vita che vorrebbe tanto vivere, ma non può. E l’amore, incarnato sulla scena da Andrea Onori, bello e bravo, non può non fuggire, quell’approvazione altrui ricercata da sempre ad ogni passo che la sventurata protagonista fa nella sua direzione si allontana sempre più, come il miraggio della fata Morgana. Un monologo serrato, intenso, difficilissimo, duro come un pugno nello stomaco e allo stesso tempo sensibile, scritto in stato di grazia da Laura Bucciarelli (regia di Pietro Dettola) e interpretato in maniera semplicemente eccezionale da Flavia Germana De Lipsis. Da vedere e rivedere.

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Teatro

“Le tate”

downloaddi Gabriele Ottaviani

Tre attrici, nove personaggi, novanta minuti in scena e non c’è un secondo che non sia gravido di emozione o denso di significato. Si ride, si riflette, ci si commuove. È iniziato tutto con il ritrovamento di un diario, ha raccontato Alessandra Panelli, un cognome che è scolpito a lettere d’oro nella storia dello spettacolo italiano, che è autrice – e ha scritto in stato di grazia, il testo è formidabile – e regista di questa pièce assolutamente da vedere, in scena fino al ventisei di aprile al Teatro Due, in Vicolo dei Due Macelli, a Roma. Un diario, si diceva: uno scritto della nonna materna di Alessandra Panelli, Etre Maria Valori, madre di (Maria) Bice, una delle stelle più fulgide del panorama artistico nostrano. Uno scrigno di fogli e parole, che svela una trama di rapporti interpersonali complessi, a tratti contraddittori e comunque fittamente intrecciati. Un mare agitato, da cui però, soprattutto se si è piccoli, giovani, impantanati tra i rovi della crescita, si riesce a uscire incolumi, se accanto c’è una guida saggia, amorevole, ironica, concreta, salda, sicura, affidabile, grondante buon senso come le fronde di un albero di fico lo sono di frutti dolcissimi (e il riferimento al fico non è un caso: è uno dei passaggi più struggenti – insieme alla deliziosa citazione della gallina buontempona di Luigi Malerba – di questo spettacolo che ti cattura e non ti fa più andare via, quotidiano e straordinario, autentico, intenso, semplice, chiaro, limpido, costruito con intelligenza e cura, fresco e bellissimo). In una sola parola, una tata. E proprio Le tate è il titolo di questo gioiello del teatro dei nostri tempi che davvero sarebbe una disdetta lasciarsi sfuggire: la scenografia è praticamente zero, eppure tu stai seduto in poltrona e ti compaiono davanti agli occhi tutti i colori del mondo, le luci sono azzeccatissime, i costumi perfetti, perché il loro anonimato li rende tele bianche su cui esplode la bravura maiuscola e scintillante delle tre interpreti, Barbara Porta, Costanza Castracane, Sofia Diaz, versatili, poliedriche, caleidoscopiche, proteiformi, e non parliamo delle musiche, che fondono la classica più raffinata alla leggera degli anni Sessanta, che appartiene alla memoria condivisa di tutti noi. C’è la vita, la Storia, che si mescola con la sua omonima con l’iniziale minuscola, le vicende familiari, personali, situazioni riconoscibili, in cui è facile immedesimarsi: c’è una governante di Quartu Sant’Elena, consapevole dei suoi diritti, c’è quella nativa di Bellegra, a un attimo da Roma, materna e schietta, c’è quella che chiede permesso persino alla sua stessa ombra e anche se viene dalla Liguria il mare l’ha visto per la prima volta solo a diciassette anni, perché era povera, stava in campagna, voleva studiare ma doveva lavorare e mangiava la carne solo a Pasqua e a Natale. Ci sono tre madri, e con loro tre padri, tre coppie di genitori assenti e diversamente affettivi che volteggiano al di sopra della scena, e non si manifestano mai, ci sono tre nonne, la terribile bigotta, che genera una nipote “ribelle” – semplicemente una ragazza, in realtà, anzi, una donna -, la borghese piena di sé che si preoccupa principalmente di “frequentare”, la pianista francese la cui nipote, naturalmente, è la più equilibrata delle tre, perché sin da piccola è stata abituata a passeggiare mano nella mano con la gioia. Ci sono tre bambine, che crescono e fioriscono. Le madri sono amiche, e così lo diventano anche le figlie, e le domestiche. Un sacco di gente, e solo tre attrici in scena, che giocano con la voce, i dialetti, i movimenti, e sono sempre credibili, sia quando hanno tre anni che quando arrivano agli ottanta, attraverso il Novecento, dal dopoguerra ai cellulari. Un racconto sensibilissimo dell’amore, della vita, della società, della maternità e della famiglia, che ricorda quanto, più dei legami di sangue, contino quelli del cuore.

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“Alice disambientata”

alice disambientatadi Gabriele Ottaviani

La vita è un ring. Non è una metafora insolita, sovente il cinema e la televisione (Eastwood, Wise, Longoni, Zeffirelli, Visconti…) hanno utilizzato stilemi, immagini, concetti e luoghi comuni, hanno preso in prestito, da quella che viene spesso definita come nobile arte, valori e situazioni per parlare dell’esistenza e delle sue fragilità attraverso lo sport, e quella particolare disciplina, dove si combatte, anche duramente, ma in uno spazio limitato da corde, e in un tempo confinato da un gong, con un arbitro, che deve far rispettare le regole. I colpi bassi non sono ammessi. Ma la vita da quest’orecchio non ci sente, questa norma non l’ha mai capita troppo bene. Alice deve combattere. Non ha più controllo su di sé e sulla propria esistenza. Il Bianconiglio, a forza di correre e di dire “presto, che è tardi”, se n’è andato via, e lei sembra essere in equilibrio precario, come sul greto di un fiume, in procinto di essere affogata dalla piena. Di e con Ilaria Dalle Donne, Alice disambientata va visto. È in scena al Teatro Due, in Vicolo dei Due Macelli, a Roma, da oggi, ventisette di marzo, fino al ventinove.

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“#Dellalluvione”

alluvione2di Gabriele Ottaviani

Inondazione, straripamento di acque di fiumi, di torrenti, o piovane; anche, il periodo di piogge violentissime che provoca tale fenomeno. Ma pure accumulo di detriti diversi, depositati da corsi impetuosi d’acqua nella fase in cui la corrente diminuisce di velocità, il che si manifesta soprattutto nelle anse o in prossimità della foce dei fiumi (in questa accezione, per lo più al plurale). Quelle vaganti sono solchi creati lateralmente all’alveo dai fiumi di pianura, durante le piene, quando il filo della corrente si sposta facilmente e dilaga creando nuovi canali, i quali, alla fine della piena, restano quasi senz’acqua e con un letto di detriti. A leggere il vocabolario, questo si vede scritto all’altezza del termine alluvione. Un fenomeno fisico, dunque, naturale, di ferocia dirompente, ma pure un accadimento dell’anima, uno smottamento del cuore, una piena di scorie che fa marcire ogni cosa. Come il depauperamento, l’abbrutimento e l’incultura fanno marcire interi paesi e generazioni. Metafora di un malessere che genera rabbia e desiderio di rivalsa. Speranza, e frustrazione. Elena Guerrini, intensa interprete che ha lavorato con Avati, Bertolucci e Corsicato, solo per fare qualche nome, è in scena da oggi, venti di marzo, fino al ventidue, nella splendida cornice del Teatro Due di Roma, con uno spettacolo che si intitola #Dellalluvione, e al quale non si può mancare.

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