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“Fiaba di Natale”

di Gabriele Ottaviani

Il ciccione sbuffò, spinse il ragazzo di lato con una gomitata e sollevò la barra. Lui seguì con la coda dell’occhio una rondine che sfrecciava accanto alla croce di ferro. Che strano, pensò, siamo a metà dicembre, dovrebbe essere in volo verso sud da un pezzo. Il piccolo poliziotto si aggrappò al braccio del pompiere. «Se non scende devo incriminarla anche per resistenza a pubblico ufficiale» disse con un filo di voce. Il grassone si fece una risata. «È il mio primo giorno in divisa» piagnucolò il ragazzo. «Non riesco a capire perché abbiano mandato proprio me. Forse perché sono giovane e si aspettano che sia agile e coraggioso». Si girò verso il cavo. «Lei che ne pensa?». Lui si piegò sulle ginocchia per assestare il baricentro, poi fece un passo. «Come se giovane o vecchio significasse qualcosa» riprese il ragazzo. «Lei potrebbe essere mio nonno eppure se ne sta là tranquillo mentre io non riesco nemmeno a sporgermi dalla cabina». «Non potevi dire ai tuoi superiori che soffri di vertigini?» intervenne il pompiere. «Non ho avuto il coraggio. E poi, l’ho già detto, è il primo giorno e volevo fare buona impressione». Si passò il dorso della mano sulla fronte. «Non lo sa nessuno, non l’ho detto neanche alla visita». La rondine continuò a volteggiare sul campanile. I tre la seguirono in silenzio con lo sguardo…

Fiaba di Natale – Il sorprendente viaggio dell’Uomo dell’aria, Simona Baldelli, Sellerio. Simona Baldelli conosce l’arte della scrittura, che esercita con grazia, dipingendo gli ambienti con cura, affrontando i sentimenti senza retorica o morbosità, facendo in modo che il lettore conosca personaggi a cui vuol bene lei per prima, presentandoglieli come si fa con gli amici, quando si dice loro ti devo far conoscere XY, ti piacerà, e magari con quell’XY poi nasce proprio un vero amore. In questo Natale in cui bisogna stare lontani, e da qualcuno d’ora in poi lo rimarremo per sempre, in un mondo in cui se davvero avessero voluto a cuore l’empatia avrebbero parlato di mero distanziamento fisico e non sociale, ché già siamo sperequati, invidiosi e rabbiosi abbastanza, non ci serviva pure il beneplacito, in un tempo in cui lo smarrimento e la fragilità ci sono entrati nelle ossa come il freddo umido, abbiamo enorme bisogno di una fiaba: e Simona Baldelli ne scrive una che è un incanto, che parla di noi. Sospesi. Dubbiosi. Speranzosi. Sognatori. In pericolo. Come un funambolo che cammina su una corda tesa…

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“Creature luminose”

di Gabriele Ottaviani

Strano, pensò Reber, quando riattaccò. L’ultima volta che aveva visitato Trisha era tutto in ordine. La visita successiva era prevista due settimane dopo. Pellegrini l’aveva chiamato per chiedergli di passare prima. Trisha non gli piaceva. «Cos’ha che non va?». «È quello che vorrei sapere da lei. Si comporta in modo strano». «Cosa dice Kaung?». La risposta di Pellegrini suonò irritata. «Riesce a passare o devo rivolgermi al dottor Hess?». Reber promise di arrivare nel giro di un paio d’ore. Pellegrini chiese se non era possibile prima. Stava andando da un paziente, aveva risposto Reber. Non poteva certo spiegare che l’ora dopo Barisha aveva la sua poppata. «Fa visite a domicilio anche il sabato?». «Gli animali, purtroppo, non si attengono agli orari di lavoro», replicò Reber. Subito dopo la telefonata, mandò a Kaung l’SMS con il segnale concordato: «Call». Ci vollero venti minuti prima che Kaung potesse telefonare alla larga da orecchie indiscrete. Reber gli raccontò della chiamata e chiese come stava Trisha. «Trisha okay», rispose Kaung.

Creature luminose, Martin Suter, Sellerio, traduzione di Marina Pugliano. Pensa di avere le traveggole quando vi si imbatte per la prima volta: del resto è da parecchio che ha una vita ai margini, che passa i giorni e le notti in strada, in un liso sacco a pelo, che mangia alle mense dei poveri, che beve birra cattiva. Dunque, non può che essere un’allucinazione, o tutt’al più un sogno, quel piccolo elefante fluorescente che gli si è palesato dinnanzi agli occhi: almeno, questo è quello che si ripete. In realtà Schoch, che non ha fissa dimora, e che l’emblema dell’altro, quello che non guardiamo né vogliamo vedere, il diverso, l’estraneo, il reietto, l’avulso dal contesto, sociale, economico, politico, sulla riva della Limmat, a Zurigo, ha trovato il prodotto di un esperimento scientifico al centro di interessi fortissimi. Contrastanti. Inquietanti. E… Allegorico, potente, scritto con sopraffina maestria.

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“Il re di Varsavia”

di Gabriele Ottaviani

Non sono mai riuscito a capirlo, come funziona. Abbassi il capo cinque centimetri a sinistra, sei vivo. Abbassi il capo cinque centimetri a destra, il colpo penetra le ossa del cranio, affonda, distrugge ciò che c’è dentro, ossia l’uomo, quelle misteriose scintille tra i neuroni in cui c’è la nostra intera esistenza, poiché oltre ad esse noi non esistiamo. Una ventina di anni dopo la nostra fuga per via Żelazna di fronte alla polizia polacca, Vladimir Demichov trapiantò testa, spalle e zampe anteriori di un cucciolo sul tronco di un altro cane, un pastore tedesco. Le due teste di cane trapiantate sul corpo dell’animale si comportarono in modo correlato, eppure provarono a mordersi. Pantaleon odiava il proprio gemello demoniaco, ma al contempo ridevano assieme e morivano assieme… Dove comincia un uomo, e termina un altro? Come ho già scritto, non credo esista niente del genere che possa chiamarsi uomo. Cinque centimetri a sinistra, vivi, cinque centimetri a destra, sei cadavere. Tu e il tuo gemello, siete due persone diverse. I gemelli eterozigoti sono due persone. I gemelli omozigoti sono due persone. I gemelli siamesi, saldati nella pelle, sono due persone diverse.

Il re di Varsavia, Szczepan Twardoch, Sellerio. A cura di Francesco M. Cataluccio. Traduzione di Francesco Annicchiarico. Splendido sin dalla copertina, il romanzo di questo giovane e già, con pieno merito, pluripremiato autore polacco, il primo a essere tradotto in italiano, nonché ispiratore di una serie televisiva, ambientato a partire da due anni prima che la Polonia venga invasa da Hitler per poi attraversare il tempo e lo spazio e raccontarci, a mezzo secolo di distanza e da Tel Aviv, per bocca di un uomo che è stato un diciassettenne che ha perso il padre in modo atroce e che quindi è diventato l’ombra di un assassino, l’epica e sanguinaria ascesa di un puglie ebreo al soldo del crimine, coniuga realismo storico, indagine psicologica e spiccata e raffinata audacia compositiva, amalgamando un gran numero di sapori – il vivido ritratto dell’ebraismo e dell’antisemitismo, l’esegesi della violenza, quella patita e quella esercitata dagli oppressi quando hanno il sangue che ribolle nelle loro vene per la brama di riscatto, rivalsa e vendetta, la politica e la morale, che sovente non vanno affatto a braccetto, anzi… – con misura e brillantezza: caratterizzato con dovizia di particolari e connotato da un respiro solenne che non sconfina mai nella retorica, e indulge anzi sovente nel registro dell’ironia, è un’occasione da cogliere al volo.

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“Il muro”

di Gabriele Ottaviani

Non puoi fidarti dei tuoi sensi, e ancora meno puoi fidarti della tua immaginazione.

Il muro, John Lanchester, Sellerio. Traduzione di Federica Aceto. Meraviglioso sin dalla copertina, il romanzo dello scrittore e giornalista nato ad Amburgo, cresciuto in oriente, residente a Londra, dove lavora, e cittadino britannico, pluripremiato per la sua variegata attività, è intenso, stimolante, distopico, deflagrante, tragicamente attuale e al tempo stesso visionario, allegoria perfetta di una società sempre più violenta e diseguale: attorno alla Gran Bretagna è stato innalzato un muro presidiato dai Difensori per cingere l’isola dagli Altri, che cercano il loro posto nel mondo, un pezzo di terra asciutta, un lembo di fortuna per vivere e sopravvivere, mentre il clima, sempre più violentato, ha ormai imboccato una strada senza ritorno. E nessuno può sottrarsi al suo turno di presidio, nemmeno Kavanagh: che quindi per settecentoventinove giorni della sua vita è costretto, come un nuovo tenente Drogo, ad attendere. E se ogni cosa sembra immota tutto, in realtà, si sviluppa in una grumo di tensione, che è quella che attanaglia l’uomo moderno dinnanzi a una realtà in cui non si riesce a riconoscere: magistrale.

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“Uccido chi voglio”

di Gabriele Ottaviani

All’ora di pranzo, inforcò gli occhiali e si allontanò dalla clinica, dove aveva trascorso la mattinata. La segretaria lo salutò sollevando la testa dal banco, come ogni volta che lui usciva o tornava. Il sole non dava tregua. Corso comprò un panino e andò a mangiarselo in piazza Vittorio, nell’unico punto rimasto in ombra. Il caldo aveva svuotato tutte le panchine. Solo una mendicante con un cartello di metallo al collo vendeva dei mazzetti di lavanda e di violette davanti alla ringhiera. Era la stessa che qualche giorno prima era sparita nel nulla. Sul cartello, due sole parole, tutte in maiuscolo: NON VEDO…

Uccido chi voglio, Fabio Stassi, Sellerio. Spesso vivere è una scommessa e sopravvivere una corsa a ostacoli, perché la società non aiuta chi vale e chi merita, anzi, sovente se ne burla, e gli mette i bastoni fra le ruote: insegnante precario, costretto dunque a correre forsennatamente per non sdrucciolare all’indietro, per restare nello stesso posto come Alice nel paese delle meraviglie al cospetto della regina perfida più che altro per ignoranza del contrario, aggrappato con pertinacia a quel poco che ha, che in realtà è assai meno di quel che gli spetterebbe di diritto, ma in questo mondo sempre più violento, protervo, razzista e diseguale ha l’agrodolce retrogusto metallico di un privilegio, Vince si è inventato il mestiere di biblioterapeuta. Ma un giorno qualcuno gli entra in casa, gli distrugge tutto e gli avvelena finanche Django, il cane: e non è che l’inizio di un coinvolgimento suo malgrado in una serie di delitti, nel multietnico Esquilino, quartiere di una Roma magnetica e sfatta, decadente, inquietante e intrigante. Stassi dà alle stampe una commedia umana immersiva e formidabile: da leggere, rileggere e far leggere.

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“La scoperta della Currywurst”

di Gabriele Ottaviani

Non era più rimasto granché del Reich tedesco. Lammers da basso diceva: il Führer non ha voluto dar retta agli astri. Era chiaro, quando c’è stata la congiunzione di Plutone e Marte, bisognava sparare i V2 su Londra, su Downing Street. Le stelle non mentono, diceva Lammers. Roosevelt muore, uno che odia i tedeschi, ebreo ovviamente. Truman invece, quello è uno che vede lontano, Churchill, si sa, beve un po’ troppo ma si è accorto dove tutti stavano andando a impegolarsi. Comunismo, bolscevismo. Nemici dell’umanità. Tutti parlavano della svolta. Svolta, anche quella era una parola tipica dei nazisti. Arriva la svolta. Bremer, l’ufficiale di coperta, diceva: quando si svolta, quando si vira bisogna incassare la testa nelle spalle. Se ne stava lì seduto, un’ombra impaurita sul volto, una ruga si stampava interrogativa sulla fronte, un po’ storta, una ruga che si spingeva verso l’alto, un po’ sghemba, ancora priva di contorni. Mi sedetti accanto a lui sul divano e lui mi mise la testa sulla spalla e lentamente la sua testa scivolò giù, sul seno, e così io lo tenni. Pensai, se ora comincia a piangere, glielo dico. Gli accarezzai i capelli, i capelli fini, tagliati corti, con la scriminatura sulla destra. E lentamente, molto lentamente, il suo capo mi scivolò in grembo, la mano si insinuò sotto la mia gonna, una lenta preghiera, e fui anche costretta ad alzarmi per sollevare la stoffa.

La scoperta della Currywurst, Uwe Timm, Sellerio, traduzione di Matteo Galli. Sceneggiatore, romanziere e autore di libri per ragazzi, classe millenovecentoquaranta, di Amburgo, la città per antonomasia della sinistra tedesca, oltre che il panorama di cui per l’ultima volta poterono bearsi gli occhi di una gabbianella alla cui figlia un gatto insegnò a volare, Uwe Timm, dopo un apprendistato come pellicciaio, diversi abbandoni degli studi, un diploma conquistato con fatica, il trasferimento prima a Monaco e poi a Parigi e il vibrante attivismo politico, si è imposto sulla scena letteraria in maniera via via sempre più significativa: quest’opera è la quadratura del cerchio, la summa della sua poetica, un affresco che sa farsi universale, particolare e particolareggiatissimo assieme, in cui la vita quotidiana della Germania negli istanti del violentissimo disfacimento del Terzo Reich emerge con solenne ed empatica immanenza. Da non farsi sfuggire per nessuna ragione.

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“Storia della bambina che volle fermare il tempo”

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I ragazzi si lanciano bigliettini sui quali sono scritte cose di cui potrebbero benissimo parlare durante l’intervallo, sostiene la professoressa con i capelli ossigenati, ma questo è un errore da parte sua. Adesso che la ragazzina ha una vista più acuta e non è più così intimorita, vede i bigliettini volare per la classe, vede le linee invisibili che tracciano nello spazio e avanza ipotesi sul loro contenuto. Presta attenzione al leggero scoppio provocato dal lancio di ciascuna di quelle palline cospiratorie, e sghignazza insieme agli altri perché l’insegnante non ha il potere di fermare simili proiettili. Per la prima volta da quando è arrivata lì, gli altri la vedono sghignazzare di tutto cuore. Il suo compagno di banco Erik sta già lavorando a una fionda per questo genere di corrispondenza mediante palline, benché possieda anche lui il cilindro vuoto di una penna a sfera, soffiando all’interno del quale potrebbe sparare messaggi in tutte le direzioni. Ha fatto uno schizzo della fionda, adesso si mette a costruirla…

Jenny Erpenbeck, Storia della bambina che volle fermare il tempo, Sellerio. Traduzione di Ada Vigliani. Ha quattordici anni, o almeno questo è quello che sostiene. La polizia la trova. Sola. Di notte. Per strada. Ha con sé un secchio. Vuoto. Non ricorda come si chiami. Non ricorda dove vive. Non ricorda chi siano i suoi genitori. Non ricorda perché sia lì. In quel momento. Nel mezzo del niente. Alle forze dell’ordine non resta altro da fare che portarla in un istituto. E lasciarla lì. Orfana per sempre. Ma… Con la potenza simbolica della fiaba e la struttura di genere del romanzo giallo, Jenny Erpenbeck dà vita a una maestosa allegoria della condizione umana: magistrale, sfavillante, folgorante, imprescindibile.

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“Felici di crescere”

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La gente stava a guardare, le donne chiudevano le imposte. Il sequestro di qualche vitello ad opera dei partigiani parve un sopruso, ma non fece pendere la bilancia in favore dei «neri». Molti dei ribelli, anche quelli conosciuti come scavezzacolli, erano compaesani, offrivano maggiori garanzie per la salvaguardia di un bene inestimabile come la vita, messo a repentaglio dalla crudezza dei tempi. Guido smaniava di sapere e capire. Il padre era comprensivo e solidale, ma temeva le ritorsioni di fascisti e tedeschi, si augurava un taglio netto con l’arrivo degli alleati. «Purtroppo salgono con troppa lentezza, Mussolini però non ha scampo. La guerra è perduta. Lo sa benissimo anche Fritz» aggiunse ammiccando. Fritz, un austriaco, aveva disertato dall’esercito tedesco. Correndo il rischio di essere fucilato, non solo dai camerati, ma dai partigiani che potevano sospettarlo di essere una spia…

Felici di crescere, Lorenzo Mondo, Sellerio. Guido è un ragazzo di Torino ed è scappato dal collegio nel quale era ospite. Siamo nel tempo peggiore, quello di guerra. Il suo obiettivo è quello di raggiungere, nel paese in cui è sfollata, nei luoghi – territori d’incantevole bellezza – di Fenoglio e Pavese, di cui l’autore – scrittore, critico e giornalista – del libro, riuscito e perfetto, tanto che viene da pensare che il suo artefice, essendo del millenovecentotrentuno, abbia attinto a piene mani dal ricco bacino del suo vissuto per dare una così limpida voce a una storia così intensa e credibile, è studioso ed esegeta, sua madre. Ma già per la strada inizia a gustare il sapore corposo della libertà e l’aroma pieno delle promesse dell’esistere… Da non perdere assolutamente.

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“Topeka School”

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Forse ero un uomo che cercava figure sostitutive della madre per poi abbandonarle, come mio padre.

Topeka School, Ben Lerner, Sellerio. Traduzione di Martina Testa. La madre è una femminista di primissimo piano, un’autorevole autrice di chiara fama, apprezzata, stimata, amata, temuta, rispettata, considerata, osannata, il padre, che come lei lavora in una prestigiosa clinica psichiatrica, sa far sì che anche i ragazzi col cuore più in subbuglio sappiano aprirsi con lui e dare un nome alla pena che attanaglia il loro cuore, Adam è uno studente dell’ultimo anno di liceo alla Topeka High School, un retore ciceroniano, un campione nell’arte del dibattito pubblico, un ragazzo dall’apparenza fortissima e dunque fragile più degli altri, che sogna d’essere un poeta e prima di tutto brama di essere amato. Ha capito che non deve mai mostrarsi debole, ma al tempo stesso si accorge che un ragazzo della scuola ha grossi problemi, e pertanto decide di aiutarlo. Con gli strumenti che ha a disposizione, però, l’impresa si preannuncia ardua, e perigliosa. Infatti… Magistrale, emozionante, intenso, ammaliante Bildungsroman dei sentimenti senza traccia di sentimentalismo, è un gioiello perfetto da qualunque lato lo si osservi: un puro godimento per l’anima e il cuore.

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“Creature luminose”

71kuwWVmTkL._AC_UL320_ML3_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Presto sarebbero stati dieci mesi che lo faceva cinque volte al giorno e ogni tanto, su richiesta, anche di notte, eppure non gli pesava. Al contrario: provava sempre lo stesso piacere. Era la storia d’amore più lunga che avesse mai avuto. Si preparò due uova al tegamino e le mangiò accompagnandole con il pane casalingo che la signora Huber gli comprava dal fornaio del paese e che era in parte responsabile del suo sovrappeso. Lo divorava come se fosse pandispagna. E fra un boccone e l’altro, offriva a Barisha pezzettini di mela e di carota. Terminata la colazione si affacciarono insieme sulla soglia di casa. Non era la prima volta che Barisha vedeva la neve, ma continuava a esserne turbata. La calpestava con prudenza, le zampe rigide, ogni due passi si fermava e sollevava ora un piede, ora l’altro, nel tentativo di scaldarlo. Reber stette a osservarla per un po’, alla fine si impietosì e la prese in braccio. Mentre rincasavano, notò sulla panchina sotto la finestra qualcosa di simile a impronte ricoperte di neve fresca, leggeri avvallamenti appena visibili nella coltre bianca. A una seconda occhiata vide anche le impronte che dalla panchina andavano verso il sentiero e si perdevano nelle sue. Niente più che una traccia appena accennata. Forse una volpe alla ricerca di un posticino caldo.

La copertina più dolce e malinconica di sempre – splendida! – è la porta attraverso il cui schiudersi il lettore è introdotto al mirabile universo di emozioni descritto in questo romanzo intenso, potente, raffinato, elegante, allegorico e profondissimo da Martin Suter, tradotto da Marina Pugliano in italiano per Sellerio: Creature luminose è la storia struggente e magnifica di Schoch, una persona che nella parte precedente della propria esistenza aveva di fatto davvero tutto e ora invece non possiede nemmeno un tetto sulla testa, e trova riparo, a Zurigo, in una grotta sabbiosa in cui una notte intravede qualcosa che gli pare un animale di peluche, un minuscolo elefante fluorescente. Crede sia un’allucinazione, magari dovuta a qualche birra da poco di troppo: invece è un esperimento di ingegneria genetica. E… Un vero gioiello.

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