di Gabriele Ottaviani
«Io ho come un vuoto… non riesco a ricordare nulla fino a quando non siamo saliti qui sopra, a dire il vero non so nemmeno dove stiamo andando». Le nuvole in cielo, bianchissime, disegnavano strane forme familiari. Si muovevano veloci, cambiavano, erano così belle per loro che guardavano dal parapetto, da togliere il fiato. «Stiamo andando in Kazakistan, sbarcheremo ad Aktau, poi…». «Ho questo ricordo di lui che si gira e sorride, aveva una granata in mano, un’altra. Gli altri continuavano a sparare, chissà perché aveva tutte quelle armi? Dove le aveva prese? Erano ancora della Siria?». «Ma sì… lo sai che era così, anche mio nonno, buon’anima, faceva così: se gli capitavano sottomano degli oggetti che riteneva potessero essergli utili in futuro, li prendeva e se li portava dietro, sempre. Quando morì, nel cassetto del suo comodino trovammo di tutto. Uno stetoscopio, una scatola di petardi, un tanga, una torcia da pompiere, una scatola di tonno e mille altre cose che ora non ricordo. Chissà cosa doveva farci…». «Era uno stronzo, era proprio uno stronzo». «Ma chi? Mio nonno? Scherzo, anche io penso che fosse uno stronzo, ma in fondo ci voleva bene, evidentemente non lo ha fatto per i diamanti, lo ha fatto per noi» disse M. prendendo il pacchetto di sigarette dalle mani di Sam, «non fumo da un po’». Quando erano scappati correndo lungo il litorale evitando le strade, avevano raggiunto un molo commerciale. Avevano preso un mercantile, dopo aver corrotto facilmente un agente della dogana. Il mercantile aveva qualche posto passeggero. In cambio dei soldi fecero pochissime domande. Quando salirono era notte fonda, ma pareva che nessuno li avesse seguiti. Ci misero dieci ore ad arrivare ad Aktau. Fin dal mare si resero conto che il satrapo locale, come del resto a Baku, si stava dando da fare a costruire giganteschi palazzi e opere pubbliche faraoniche che magnificassero lui e l’impero del petrolio. L’impressione fu poi confermata, non solo dall’imponenza della città moderna, che in tutto e per tutto stava cancellando qualsiasi segno della propria memoria, ma dai copricapi dei militari…
I nomi, Luca Ravettino, Scatole parlanti. Disperati, falliti, troppo inclini ad alzare il gomito, cinque assidui frequentatori di un bar rivierasco si ritrovano d’improvviso, dopo aver preso in prestito, per così dire, uno yacht, nel bel mezzo di una tempesta perfetta. In pieno Mediterraneo. L’imbarcazione, alla deriva per giorni, per giunta, nemmeno fosse un succulento raviolo, ha un notevole ripieno: un tesoro in diamanti. Così comincia l’avventura, dunque, non del signor Bonaventura, che del resto aveva un assegno da un milione, bensì di queste anime belle, candide e fragili in balia del destino che raggiungono la Siria nel pieno del conflitto contro il Califfato, la Turchia, Baku, le steppe dell’Asia centrale: è una favola, d’altro canto. Forse… Il primo e picaresco romanzo di Luca Ravettino, che ama definirsi libraio, giornalaio, barista, scrittore, sceneggiatore, poeta, cantautore, copywriter, social media manager e papà, è un incanto scritto benissimo: da leggere.