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“I nomi”

PiattoRavettino-250x350di Gabriele Ottaviani

«Io ho come un vuoto… non riesco a ricordare nulla fino a quando non siamo saliti qui sopra, a dire il vero non so nemmeno dove stiamo andando». Le nuvole in cielo, bianchissime, disegnavano strane forme familiari. Si muovevano veloci, cambiavano, erano così belle per loro che guardavano dal parapetto, da togliere il fiato. «Stiamo andando in Kazakistan, sbarcheremo ad Aktau, poi…». «Ho questo ricordo di lui che si gira e sorride, aveva una granata in mano, un’altra. Gli altri continuavano a sparare, chissà perché aveva tutte quelle armi? Dove le aveva prese? Erano ancora della Siria?». «Ma sì… lo sai che era così, anche mio nonno, buon’anima, faceva così: se gli capitavano sottomano degli oggetti che riteneva potessero essergli utili in futuro, li prendeva e se li portava dietro, sempre. Quando morì, nel cassetto del suo comodino trovammo di tutto. Uno stetoscopio, una scatola di petardi, un tanga, una torcia da pompiere, una scatola di tonno e mille altre cose che ora non ricordo. Chissà cosa doveva farci…». «Era uno stronzo, era proprio uno stronzo». «Ma chi? Mio nonno? Scherzo, anche io penso che fosse uno stronzo, ma in fondo ci voleva bene, evidentemente non lo ha fatto per i diamanti, lo ha fatto per noi» disse M. prendendo il pacchetto di sigarette dalle mani di Sam, «non fumo da un po’». Quando erano scappati correndo lungo il litorale evitando le strade, avevano raggiunto un molo commerciale. Avevano preso un mercantile, dopo aver corrotto facilmente un agente della dogana. Il mercantile aveva qualche posto passeggero. In cambio dei soldi fecero pochissime domande. Quando salirono era notte fonda, ma pareva che nessuno li avesse seguiti. Ci misero dieci ore ad arrivare ad Aktau. Fin dal mare si resero conto che il satrapo locale, come del resto a Baku, si stava dando da fare a costruire giganteschi palazzi e opere pubbliche faraoniche che magnificassero lui e l’impero del petrolio. L’impressione fu poi confermata, non solo dall’imponenza della città moderna, che in tutto e per tutto stava cancellando qualsiasi segno della propria memoria, ma dai copricapi dei militari…

I nomi, Luca Ravettino, Scatole parlanti. Disperati, falliti, troppo inclini ad alzare il gomito, cinque assidui frequentatori di un bar rivierasco si ritrovano d’improvviso, dopo aver preso in prestito, per così dire, uno yacht, nel bel mezzo di una tempesta perfetta. In pieno Mediterraneo. L’imbarcazione, alla deriva per giorni, per giunta, nemmeno fosse un succulento raviolo, ha un notevole ripieno: un tesoro in diamanti. Così comincia l’avventura, dunque, non del signor Bonaventura, che del resto aveva un assegno da un milione, bensì di queste anime belle, candide e fragili in balia del destino che raggiungono la Siria nel pieno del conflitto contro il Califfato, la Turchia, Baku, le steppe dell’Asia centrale: è una favola, d’altro canto. Forse… Il primo e picaresco romanzo di Luca Ravettino, che ama definirsi libraio, giornalaio, barista, scrittore, sceneggiatore, poeta, cantautore, copywriter, social media manager e papà, è un incanto scritto benissimo: da leggere.

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“Obtorto collo”

obtortodi Gabriele Ottaviani

Presi un tremendo panino preconfezionato. Il gusto era in linea con l’aspetto: orribile. Cercai di levarmi dalla bocca quel saporaccio d’insalata ammuffita e mozzarella scadente con una birra chiara. Alle cinque del pomeriggio ancora niente. Neppure un segno. Iniziavo davvero a sentirmi una sciocca. Forse avevo perso la mia opportunità per sempre? Quando finii il libro, era ormai arrivata l’ora dell’aperitivo e di nuovo orde di operai si ammassarono al bancone per avere qualcosa da bere. Avrei volentieri chiesto alla cameriera qualche informazione utile, ma purtroppo non era la stessa ragazza della sera prima. «Oh, sì, Alessia. È il suo giorno libero oggi. La trova domani, in caso». Così mi era stato detto quando avevo provato a chiedere di lei. Maledetta! Poi fui investita da un’idea talmente semplice da sembrare banale: da dove diavolo venivano tutti quegli operai? E la sera prima la maledettissima Alessia non aveva forse chiamato Giulio ingegnere? Evidentemente lì vicino da qualche parte c’era un cantiere e il responsabile doveva essere proprio lui. Sarebbe bastato chiedere in giro e dare un’occhiata nel circondario. Non poteva essere lontano. Fu proprio mentre meditavo su questo mio nuovo piano geniale che lo sentii. «Buonasera» disse entrando nel bar e appoggiandosi a uno degli sgabelli accanto al bancone. «Una birra, grazie, media!». Alzai lo sguardo e lo vidi. Erano passati più di sette anni e il suo volto era visibilmente invecchiato, non maturato ma sfiorito e il profilo aveva subito qualche misterioso scombussolamento, tuttavia era sempre lui: il dio greco dagli occhi affamati color trifoglio. Sentii le gambe tremare e lo stomaco torcersi in una morsa insopportabile. Era evidente, non mi aveva vista. Decisi così di alzarmi e andare a pagare il conto, il fatto che la cassa fosse proprio accanto a lui direi che capitava a fagiolo. Presi le mie cose e mi alzai. Andai dritta alla cassa e rimasi ad aspettare…

Obtorto collo, Camilla H. Maturi, Scatole parlanti. Locuzione latina che significa malvolentieri, controvoglia, giocoforza, perché costretto, con riluttanza et similia, visto che certo nessuno, a meno che non si tratti di un contorsionista impegnato in un esercizio, di un masochista o del protagonista di una pellicola horror, sta di norma con piacere con il collo storto come un albero a gomiti, detto di fatti non a caso collo d’oca, il titolo del buonissimo romanzo di Camilla H. Maturi, che scrive con perizia e sapienza, ne è anche una sintesi ferocemente appropriata. È infatti spezzato dall’atrocità dolorosissima di un’impiccagione suicida il collo della mamma d’Ipazia, appellativo quanto mai parlante e significativo (matematica, astronoma e filosofa neoplatonica alessandrina uccisa nei primi anni del quinto secolo da una folla di cristiani in tumulto, dà anche il nome all’erba taumaturgica attorno alla quale prospera il paese vividamente ritratto nei fotogrammi di Effetto paradosso, film di Carlo Fenizi) per una donna che nel duemilaquattro ha solo diciotto anni quando la tragedia la colpisce in pieno volto al rientro da scuola. Con ogni evidenza, quel giorno è morta un po’ anche lei; ma la vita ha l’abitudine di non arrestarsi dinnanzi a nulla, e così, mentre gli anni passano, Ipazia si sposa (col suo analista), lavora nell’erboristeria del padre, diviene una scrittrice: tutto pare proseguire in modo quasi banale, finché tal Giulio Fraccani, di professione ingegnere, non viene trovato morto in una camera d’albergo, e… Prorompente, da leggere.

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“Io, Dio, Escort”

io dio escortdi Gabriele Ottaviani

Per ogni persona che imparava ad amarmi nasceva in me il bisogno d’essere amata, per ogni persona che riusciva ad ascoltarmi nasceva in me la necessità di parlare, non viceversa: non cercavo qualcuno che mi ascoltasse o che mi amasse, ne avevo una riserva di parole e amore, e nessuna paura che ammuffissero. Forse, il mio problema era la sessualità, forse la gelosia o forse la negazione, la perenne ricerca di silenzio perché non sentissi chi ero veramente e quali erano i miei limiti. Noi facciamo a cazzotti usando le mani eppure il problema è il cuore, è lui che dovrebbe lottare. Diamo schiaffi sulla faccia e ci spacchiamo le nocche per difendere qualcosa che se avesse la ragione dalla sua parte avrebbe già vinto. Papà non mi ha mai picchiata, come spesso capita, bastava il suo sguardo perché potessi darmi una regolata. Mamma, invece, me ne ha date così tante: cintola, ciabatta, lo spazzolone che usava per lavare il pavimento quando, dopo avermi avvisata, testardamente, entravo in cucina e lasciavo le impronte quando era tutto ancora bagnato; il mestolo di legno e gli schiaffi infine, tutti meritati e, credo, a fin di bene. Non ho nessuna lamentela da fare. Forse poi, diventando grande, fu quel particolare sguardo di mio padre, che si fermava tra la rabbia e la delusione, che mi accompagnò nella vita, sempre pronto prima che facessi un’altra cazzata. Tutto sommato, posso dire di essere venuta su abbastanza bene. Ho ancora molti limiti e lacune, ma per quanto riguarda tutti i miei difetti, di cui mi son sempre lamentata, forse c’era bisogno di storicizzarli, così come i valori, e aspettare il passaggio del tempo dunque, perché, come diceva mamma, quando sarei stata grande avrei capito.

Io, Dio, Escort, Alessio Marras, Scatole parlanti. L’amore è la sola speranza. Il solo antidoto al male. È l’amore, si sa, che muove il sole e tutte le altre stelle. È l’amore che è tutto, e che lo sia è tutto ciò che ne sappiamo. È l’amore la risposta. Ma talvolta le domande sono dure, difficili, incomprensibili. E quindi la replica diventa faticosa. Cercare il proprio posto nel mondo in un mondo che non sembra avere posto per nessuno è un’impresa titanica: in una Sardegna scabra, solenne, ancestrale, tragica, sempiterna e magnetica, quattro personaggi, di cui uno senza identità, come l’innominato del Manzoni o la sposa che succede a Rebecca, e poi un’escort, un seminarista e una donna con i piedi saldamente piantati nelle nuvole dei suoi aneliti raccontano di noi e della nostra comune innata e ineludibile strenua ricerca di felicità, passando attraverso lo sconforto, lo sconcerto, l’abiezione. E l’amore, che è la sola rivincita possibile. Scritto con una lingua raffinata e solida, è da leggere. Assolutamente.

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“I fuochi di Sant’Elmo”

Cattura.PNGdi Gabriele Ottaviani

Non molto lontano da casa mia si trovava il cimitero di Colón. Ogni volta che aspettavo la camioneta, per andare al porto o in centro, restavo a fissare l’imponente ingresso trionfale. Sino ad allora mi ero tenuto lontano dai cimiteri, sebbene più volte avessi avuto il desiderio di visitare quello di Città del Messico, che mi avevano descritto di dimensioni mostruose: una città dentro la città nella quale dormivano, nelle cappelle gentilizie, intere famiglie di disperati. Ma poi non avevo mai ceduto alla tentazione. Ciò che mi teneva lontano era, forse, non avere mai visto prima di partire la tomba di mia madre terminata, e non averla quindi mai visitata. Quando varcai l’imponente arco trionfale del cimitero di Colón, restando spaesato di fronte a quel grande viale candido che mi si stendeva di fronte, mi si avvicinò un omino, tutto raggrinzito, con tre peli contati in testa e, comunque, con più capelli che denti. Aveva una tuta blu lisa e macchiata e in mano delle cesoie per potare. Nonostante il contrasto con la monumentalità che mi circondava, non mi impressionai: l’Avana era così, maestosa e decadente insieme, come una barbona che in passato era stata una ricca e colta signora. L’omino mi chiese, sorridente e pacato, se avessi bisogno di una guida, ché lui conosceva ogni singola tomba di quel cimitero, e me lo domandò con gli occhi pieni di una luce simile a quella di un padre amorevole e orgoglioso. Quegli occhi mi convinsero e mi lasciai guidare attraverso un vero e proprio viaggio. Alla fine del viaggio mi resi conto che quel cimitero rappresentava l’Avana ideale: il luogo in cui, levando di dosso povertà, scelte politiche, crisi economiche, attentati e rivoluzioni, restava l’anima dei cubani, ed era un’anima mista di marmo e terra, in cui poesia, pianto, passione e riso si fondevano. Sul viale principale c’era una cappella, abbastanza recente, di un ricco che l’aveva fatta costruire per lui e la moglie. Avrebbe voluto farla più alta, molto più alta di quella realizzata, ma il regolamento imponeva che non vi fossero cappelle private più alte del monumento celebrativo dei pompieri fatto erigere dal Governo. Allora, per aggirare la regola, il ricco aveva fatto piantare a fianco alla cappella due palme altissime, che superavano tutti i monumenti del cimitero. Poco lontano c’era la cappella di un uomo talmente ambizioso da volere che tutti si chinassero al suo cospetto, e allora aveva disegnato la porta bassa, che per entrarci bisognava per forza di cose chinarsi. La più particolare era sicuramente la “tomba del domino”, appartenente a una accanita giocatrice di domino, morta d’infarto durante una partita persa, con l’ultima tessera in mano: un doppio tre. I figli, per omaggiare la donna, avevano fatto scolpire sulla tomba una grande tessera col doppio tre e, ai piedi della tomba, avevano fatto scolpire in un bassorilievo la partita che le era stata fatale. La più famosa, però, anche per i suoi poteri taumaturgici, era sicuramente la tomba conosciuta come La Milagrosa…

I fuochi di Sant’Elmo, Claudia Caredda, Scatole Parlanti. Stando alla definizione enciclopedica, per fuochi di Sant’Elmo, altro nome di Sant’Erasmo, patrono dei marinai del Mediterraneo, che un tempo si pensava mostrasse così la sua presenza, si intende una delle più interessanti e significative manifestazioni della presenza di elettricità nei vari strati dell’atmosfera: i cosiddetti fuochi appaiono, in situazioni di assenza di umidità come immediatamente prima della pioggia (che li fa subito scomparire), poiché l’aria secca accumula carica più facilmente, come dei lampi di colore blu, e della durata di non molti secondi, un’esplosione anche simbolica, a prescindere dal livello della ierofania, di luce effimera, una promessa, un rimando a qualcosa che potrebbe o avrebbe potuto essere e che invece forse non è stato, non è né sarà mai, che esiste, certo, ma subito svanisce, come la sensazione di uno stabile possesso della felicità. Di norma si palesano, appunto, nell’imminenza per esempio di un temporale, nei pressi degli alberi maestri delle navi o alla sommità delle antenne, laddove si crea quello che gli scienziati definiscono come effetto corona, determinato da linee di forza che amplificano la maggior carica elettrica atmosferica dovuta all’arrivo della tempesta, per lo più determinata dalla ionizzazione di molecole di ossigeno e azoto atmosferico che emettono un bagliore nel momento in cui ritornano allo stato precedente alla carica. In questo appassionante romanzo, profondo ed empatico, Claudia Caredda, con sensibilità, indaga la figura di un ragazzo che vive la vagheggiata e tradita rivoluzione del Sessantotto in provincia, a Perugia, laddove ogni opportunità di reale cambiamento gli pare davvero preclusa: decide dunque di partire per un viaggio per il mondo senza ritorno, e… Intenso e delicato ritratto umano del nostro tempo e del valore della speranza nell’esistenza di ciascuno, si legge d’un fiato e arriva dritto al cuore.

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“La formica sghemba”

Cattura.PNGdi Gabriele Ottaviani

Mi prometteva che Giancarlo mi avrebbe chiamato: aveva detto che ero, con G., l’unica persona che avrebbe avuto piacere sentire e, casomai, vedere. In effetti, due o tre volte ci parlammo al telefono, poi – mi era stato preannunciato da G. – mi avrebbe voluto vedere al Policlinico Umberto I dove era ricoverato da qualche settimana. L’invito arrivò e io lo dovetti preparare interiormente, perché con pigiama e ciabatte ad attendere la morte non ce lo avevo mai visto. Ci andai un venerdì pomeriggio, prima di partire per Gradara – la città natale della fidanzata attuale di Achille – in prima serata. Era inverno, era freddo, era buio. Cercai in lungo e largo quel reparto, quell’edificio, che in realtà era una palazzina dalla faccia d’amianto, del tutto nascosta agli altri padiglioni. Pensai che era un modo per allontanare gli unti, gli appestati che ci erano ricoverati, quelli con un destino segnato grosso come un amen sopra la zucca. Poi lo trovai. Mi ero preparato a riconoscerlo a condizione di superare qualunque trasfigurazione avesse operato la malattia sul suo volto e ci misi pochissimo a mettere in pratica i propositi. La visita si sostanziò in due ore lunghissime, bellissime ma molto complicate. Questo ricordo di quel pomeriggio, l’ultimo in cui vidi Giancarlo: la rabbia, che era poi uno dei suoi tratti distintivi. Era arrabbiato, era una furia, era oltre ogni più ragionevole incazzatura; e così mi si sfatò il mito che la morte, quando è prossima, ti rende più dolce, più ragionevole, fa subentrare la rassegnazione e un’aura quasi agiografica. No. Era infuriato con tutto: col destino, con la vita, col padre – che nel frattempo stava morendo di cancro in un ospedale poco lontano –, con la solitudine, ma soprattutto era una furia con la sua famiglia, quella che aveva faticato contro i suoi demoni a metter su. Si immaginava la moglie che avrebbe scopato con altri, si immaginava i suoi risparmi spesi per fare una vacanza senza di lui, si immaginava chi – e credeva sarebbero stati molti, perché lui non era stato un buon marito – sarebbe passato per casa sua e avrebbe potuto vedere le sue figlie crescere, lui che invece non avrebbe potuto esserci al prossimo compleanno.

La formica sghemba, Paolo Romano, Scatole Parlanti. Essere padri non è facile. Essere padri separati lo è ancor meno. Ognuno spera che l’amore sia per sempre. Ognuno spera che nel momento in cui decide di costruire una famiglia questa sappia resistere a tutti i venti. Ognuno sa che non è facile. Ognuno sa che spesso non è così. Ognuno sa che ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo, mentre quelle felici, per definizione, si somigliano un po’ tutte. Ognuno sa che quando qualcosa finisce è inevitabile soffrire, e c’è sempre qualcuno che patisce più degli altri, di norma chi ha meno colpa. Il lettino della psicologa è il calderone in cui, come mosto che fermenta, ribollono, col ritmo di una malinconica ballata, storie di vite fragili e complicate, intense, profonde, commoventi, irresistibili, policrome tessere di mosaico, frammenti di un caleidoscopio evocativo. Romano, giornalista che ha studiato legge ed è esperto di musica, connota i suoi personaggi con acribia magistrale. Da non perdere.

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“Una vita senza volto”

sesso.PNGdi Gabriele Ottaviani

La scala è ripida, lei mi precede. Primo piano, unica porta, il pianerottolo è minuscolo. Io dietro di lei, e il cuore va sempre più forte. Apre la porta. Una entrata piccolissima, che dà su una sala con un lungo tavolo su cui sono appoggiati vari libri. L’ingresso è poco più grande del vano della porta, ed è anche ingombrato da un appendiabiti pieno di giacche, sciarpe e cappelli che adesso incombono su di noi. Rosa chiude la porta, si abbassa per appoggiare i suoi libri a terra… e rimane in ginocchio. Il mio cuore adesso dalla gola è passato alle tempie. Mi slaccia la cinta, tira giù la zip dei miei pantaloni. Sento il sangue che è pompato al mio cervello con una potenza inaudita. Ho gli slip all’altezza delle ginocchia. La bocca di Rosa è calda. Mi fischiano le orecchie. Non abbastanza per non sentire qualcuno che chiede: «Chi è?». Il panico. Una voce dalla stanza accanto. Tre secondi – tre – per ripercorrere in senso inverso, come in una moviola, i movimenti precedenti. Al quarto secondo io sono già fuori. Mentre scendo le scale alla velocità del suono, ma senza produrre il minimo rumore, sento la voce di Rosa: «Sono io, signora, avevo dimenticato un libro qui sul tavolo, sto già uscendo». La aspetto sulla strada, dietro l’angolo del palazzo… non si sa mai la signora si affacci alla finestra e capisca tutto. «Ciao, Rosa, vado a lezione». «Non ci rivediamo, vero?». Le sorrido. «Ciao».

Una vita senza volto – Diario di un bisessuale, Nicola Civinini, Scatole parlanti. Stefano Sentieri è uno pseudonimo, scelto tra il serio e il faceto: è uno scrittore amatissimo, pluripremiato, di culto. A lei tocca in sorte l’occasione della vita: nessuno infatti sa che faccia abbia, da sempre è avvolto nel mistero, nel segreto, che con ogni probabilità, sapiente mossa editoriale, è fattore che ne ha contribuito ad accrescere il successo. Ebbene, a lei è concessa un’intervista. Faccia a faccia. Si conoscono già, del resto. Ma lei non lo sa, almeno fin quando non lo vede. Non le è permesso dire il suo nome, ma quante volte si è arrampicata, da bambina, sulle sue spalle. E per questo motivo ha la possibilità di acceder al diario di lui, al resoconto intimo della sua vita, un’esistenza segnata dalla scoperta, anche della sessualità. Della bisessualità, per la precisione, elemento visto sovente con sospetto, caratteristica cui non si crede mai fino in fondo, e che spesso infatti viene celata, ennesima maschera, ulteriore professione d’invisibilità, di travisamento… Nicola Civinini, artista, stilista e mille altre cose ancora, scrive un romanzo avvincente, appassionante, intenso, profondo, classico e al tempo stesso fuori dagli schemi: da leggere.

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“Il cielo sopra il Pigneto”

61KokGsEm5L._AC_UY218_ML3_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Una peruviana camminava con un megafono in mano. Era seguita da un ristretto gruppo di persone. Procedevano per le strade di Tor Pignattara. Urlava in modo continuato le seguenti parole: «El Signore ha stado tutto pe noi, el Signore ce ha lasciado qualcosa de peciale pe noi, gloria al Signore». Li seguivo con lo sguardo dal terrazzo. Il cinese che vendeva articoli per la casa si era sporto e ridacchiava, per poi tornare subito alle sue faccende, ma prima emise il suo consueto sputo per terra. Un bengalese continuava a parlare noncurante al cellulare. La peruviana cominciava a essere fastidiosa oltre che inquietante e mi aspettavo la reazione di qualche autoctono da un momento all’altro, che puntualmente avvenne: «Falla finita che c’ho er pupo che dorme!» gridò uno da una finestra. La mia zona sembrava il set di un esperimento sociale. Mi immaginavo un team internazionale di sociologici che – come in una serie tv – avesse creato uno spazio di questo tipo per studiare i fenomeni del multiculturalismo periferico, con regole inesistenti, dove tutto era lasciato al libero arbitrio del singolo individuo. Quella sera facemmo una cena con il direttore europeo di tutta la rete franchising dei negozi di cialde caffè dove lavorava Roberta. Venne con la sua famiglia. Era un americano che viveva a Parigi. Io, Roberta e i quattro membri di quella famiglia. Riccardo stava col padre. Lui in passato aveva venduto una casa di produzione cinematografica per cifre da capogiro. Poi era passato al caffè. Insomma, un uomo d’affari. Era stato molto grasso, aveva un rapporto anomalo col cibo. Ora era persino troppo magro. Si limitava ad assaggiare le porzioni come nel programma tv MasterChef. La moglie e i figli, invece, divorarono tutto.

Il cielo sopra il Pigneto, Cristiano Ranalletta, Scatole parlanti. Il Pigneto, quartiere popolare ormai brulicante di locali, è un cuneo incastonato nella cosiddetta – Roma è sempre più grande ed estesa, i quasi settanta chilometri della circonferenza del grande raccordo anulare non la cingono affatto completamente, rioni che un tempo non troppo lontano confinavano con la campagna ora sono semicentrali – periferia orientale capitolina, luogo vivido gravido di storie, volti, personaggi, strade battute da Pasolini alla strenua ricerca di autenticità e percorse con l’ultimo empito di vita dalla donna interpretata da Anna Magnani nella più iconica – assieme a quella immediatamente successiva allo stupro, suo e della figlia, della Loren nella Ciociara – sequenza del cinema italiano, la corsa forsennata dietro alla camionetta nazista che le sta strappando l’uomo sul selciato di via Montecuccoli in Roma città aperta. E Roma, il Pigneto, Tor Pignattara e Federico sono i protagonisti di questo romanzo bellissimo: le vie sono riverbero dei meandri del cuore, la policromia della società multietnica raccontata in questo viaggio che è prima di tutto un’educazione sentimentale palesa dinnanzi agli occhi del lettore l’immensità della fragilità umana. Ranalletta, ingegnere, scrittore, docente, è qui davvero in stato di grazia.

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“Spacefood”

Screenshot (94).pngdi Gabriele Ottaviani

«Ah sì, mi scusi, il comandante Augusto “Rock” Parboni ha prenotato due camere, dove riposerete una volta finita la cena. Se vuole, può andarci subito per farsi una doccia e cambiarsi d’abito» aggiunse con un tono vagamente ironico. «Troverà nell’armadio un set completo di vestiti da gala. La cena è prevista fra un’ora». «Perfetto» replicò Aner, guardandolo negli occhi in segno di sfida. «Mi sarei meravigliato del contrario. Può avvertire il comandante Augusto “Rock” Parboni che ci vedremo fra tre quarti d’ora nella public room che si trova al mio piano?». «Certamente. La sua stanza si trova al quarto piano e la può raggiungere prendendo uno qualsiasi degli ascensori che si trovano alla sua sinistra». Aner girò la testa e vide le porte in acciaio levigato che si aprivano sul muro di mattoni rossi sotto il portico. Guardò in direzione opposta per ammirare la struttura che delimitava il giardino segreto: tre pareti in vetro e acciaio multicolore, dove ogni piano aveva una diversa gradazione dello spettro solare, che brillava in una notte plumbea e priva di stelle. Un cicalino gli preannunciò l’arrivo dell’ascensore. «È arrivato, signore. Si ricordi di portare sempre bene in vista la sua IDcard». «Una domanda: ma è sempre così buio, là fuori?». Il ragazzo lentigginoso sorrise di gusto. «Lei non sa nulla del “Ristorante che non c’è”, vero?». «Poche cose, dell’albergo proprio nulla». «Non potrebbe essere altrimenti. L’albergo è a disposizione dei clienti che vengono nel nostro ristorante. Il viaggio che si deve affrontare per arrivare in questo non luogo è così impegnativo che molti sentono il bisogno di riposarsi dopo aver mangiato. Alcuni addirittura vengono il giorno prima, dormono e si presentano all’ora del pasto. Altri, invece, conquistati dalla nostra cucina, preferiscono fermarsi da noi più giorni per assaggiare tutti i nostri piatti». «Deduco che si fermino per parecchio tempo». «Infatti, signore. Per quanto riguarda il panorama che vede là fuori, è solo un’illusione, una convenzione temporale. Cambierà più volte nell’arco della sua permanenza. Adesso, mi deve scusare, ma mi vedo costretto a congedarla: dietro di lei si è creata una piccola fila di clienti in impaziente attesa». 

Spacefood – La nuova gastronomia siderale, Andrea Coco, Scatole parlanti. Coco, giornalista, autore di fantascienza, noir e non solo, racconta in quest’occasione la storia ironica, divertente, simbolica, intelligente, brillante, accattivante, niente affatto avara di livelli di interpretazione e chiavi di lettura, citazioni e umorismo, del più celebre critico enogastronomico dell’universo, Aner Sims, una creatura che non avrebbe sfigurato né nell’Eleganza del riccio né in Ratatouille, mutatis mutandis, del paladino della flotta spaziale Augusto Parboni, Rock per chi è più in confidenza, e di Scilla Aliprand, responsabile del servizio di protezione aziendale di una celebre e assai ben avviata multinazionale, che viaggiano in lungo e in largo per lo spazio interplanetario alla ricerca dei locali più estremi del cosmo per recensire pietanze, svelare misteri, soddisfare curiosità, recuperare saperi e sapori perduti e non solo: da leggere.

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“Ambrose”

51zZwACmtdL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Si ricordò in quel momento di quando, una delle sue prime volte, s’era voluto interessare di quello che solevano fare i telepiloti, cogliendone uno nel tentativo di stuprare una donna. Stuprare! Non solo con l’intenzione di usare il membro di un altro, i cui recettori del piacere sessuale non s’era certi fossero collegati al sistema del bypass neurologico generale, ma e soprattutto con indosso uno scafandro alto tre metri e pesante tre tonnellate! Aveva anche aperto il portellone sotto la panziera blindata dell’esotuta, l’imbecille.

Ambrose, Fabio Carta, Scatole Parlanti. Controllore Ausiliario – meglio e più noto come semplicemente CA – è uno dei pionieri di Nexus, la nuova frontiera virtuale, ovverosia la missione attraverso la quale la razza umana sta cercando di riscrivere la propria violenta e proterva storia in maniera ben più pacifica, cercando di dare e darsi un’altra possibilità, imparando, finalmente, dagli errori commessi. Ma mentre si prepara ad affrontare questa sfida, CA viene tradito da sé medesimo: o meglio, dal suo corpo. Il guasto è irreparabile, il destino è segnato, la parola che lo riassume una sola: morte. Un gemello elettronico vivrà al suo posto, per lui non c’è scampo né speranza. Ma poi entra in contatto con Ambrose, e… Allegorico, fluido, solido, leggibile, interessante, intelligente.

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