di Gabriele Ottaviani
HOUND of the Baskervilles, The
Intere generazioni di lettori italiani lo conoscono come il «mastino» dei Baskerville, ma la traduzione è insoddisfacente e sostanzialmente errata (v. traduzioni). Il termine «hound» indica un gruppo di cani formato da razze diverse, aventi un comportamento comune: non perdere la traccia della preda, inseguirla tenacemente anche a distanza dal padrone e stanarla senza sbranarla in attesa del cacciatore. In italiano la traduzione corretta potrebbe essere «segugio», ma così facendo verrebbe perso irrimediabilmente il senso di terrore, minaccia e persecuzione che è evocato in inglese da «hound»: ben pochi lettori italiani si lascerebbero intimorire dal «segugio dei Baskerville», anche perché nel nostro Paese il termine «segugio» è associato al Segugio Italiano, instancabile cacciatore, coraggioso con la selvaggina, ma notoriamente docilissimo con gli esseri umani. A volere essere precisi, in italiano, la categoria degli hound non si limita nemmeno ai segugi, poiché comprende anche i levrieri, e non sarebbe neanche traducibile con «cani da caccia» (perché in questi ultimi sarebbero compresi anche i cani da ferma e da riporto), ma, tutt’al più, «cani da seguita». Certo che «Il Cane da seguita dei Baskerville» suona proprio male. Ci sarebbe una razza italiana il cui nome rinvia ad un verbo che indica l’insistente persecuzione, intrinseca nel termine «hound»: il Bracco, con la corrispettiva voce verbale «braccare». Ma, sarà per l’influenza dei cartoni animati o per quella del «bracchetto» Snoopy, anche la soluzione «Il Bracco dei Baskerville» non appare adeguata. Queste ragioni hanno indotto i primi traduttori a usare «mastino», ma tale scelta ha il solo pregio di mantenere desta l’idea di ferocia e non concorda con la lettera del romanzo, né, se non in parte, con il comportamento del terribile hound. Le due razze citate, o meglio le due famiglie, quella dei segugi e quella dei mastini, sono sostanzialmente differenti e non confondibili: il mastino, vigoroso e impressionante, conosciuto dai Fenici e importato in Inghilterra probabilmente già dai legionari di Cesare, fu impiegato nel 1400 nelle lotte contro i tori e poi, per la sua ferocia e fedeltà, divenne il più temibile protettore della proprietà; il segugio, e in particolare il più tipico segugio inglese, il bloodhound, portato dai Normanni nell’isola dal Belgio, è stato invece reso famoso dal suo fiuto. Definito «un cane dietro a un naso», deve il suo nome al fatto che una sola goccia di sangue gli è sufficiente per mettersi sulla pista della selvaggina. È capace di seguire la pista di un uomo quattro o cinque giorni dopo il suo passaggio. Ma questa leggenda vivente è di indole dolcissima e non assale mai l’uomo. In effetti, quando Watson si trovò al cospetto del cadavere dell’animale e lo poté osservare con calma, rilevò che sembrava per metà un bloodhound e per metà un mastiff. Stapleton (cui si deve la presenza del cane nel Dartmoor), infatti, era un naturalista e ben conosceva le ricerche sugli incroci delle razze canine che in quegli anni stavano fiorendo e che avrebbero portato alla selezione ed alla nascita delle più interessanti razze canine attuali (Sir Laverack stava selezionando i Setter, proprio in quegli anni; in Germania si selezionava il Pastore Tedesco e in Inghilterra poco dopo sarebbe nato il Bull–Mastiff). Nell’ambito di questi tentativi di realizzare incroci particolari potrebbe inserirsi il cane in questione, che avrebbe riunito le caratteristiche di due delle più antiche ed amate razze canine d’Inghilterra. Così, quando Stapleton si recò da Ross & Mangles, in Fulham Road, è verosimile che non si limitò a chiedere il cane più «selvaggio e forte», ma anche quello dotato del fiuto migliore. Era infatti indispensabile, per la riuscita del suo piano, che il cane fosse in grado di raggiungere la sua preda nella brughiera, guidato solo dal suo fiuto, esercitato su di una vecchia scarpa della vittima. Ecco perché era necessario che l’animale avesse sangue di bloodhound. D’altra parte, una volta raggiunta la preda, l’avrebbe dovuta sbranare, e non festeggiare, come è invece costume di quei segugi. Di qui la necessità del sangue del feroce mastino. Dunque, il mastino in qualche modo c’entra, ma sta di fatto che poi, al momento di redigere la storia, il Buon Dottore scelse il termine «hound» ‒ e non «mastiff» ‒ e con questo dobbiamo fare i conti. Si potrebbe pensare di tradurre «hound» con «cane»: alcuni traduttori in Italia e anche traduttori di altri Paesi l’hanno fatto. Vediamo i pro e i contro di tale possibilità. A favore abbiamo la posizione di John Fowles che, nell’introduzione al libro in questione, ricorda come questo cane sia la riproposizione di un antico mito: il Cane della Morte, che ha il pedigree più antico di tutte le razze canine. Dagli antichi Egizi ai popoli mesolitici dell’Europa del Nord, il terrore del «Cane nero» ha per corso tutte le culture e le civiltà. Si tratta di una paura ancestrale, archetipica, che non fa riferimento a una specie particolare di cane, ma alla stessa essenza della caninità, che ben si presta a rappresentare le paure più nascoste di ognuno di noi. Quelle stesse paure che fanno sì che se una persona si avventura nella brughiera, di notte, da sola, ben presto si accorge di un piccolo cane che la segue. Man mano che il cane si avvicina, esso diviene sempre più grande. Per quanto veloce quella persona corra, il cane le è sempre addosso, finché, quando la raggiunge, grande come un toro, è ormai pronto a uccidere. Contro abbiamo soprattutto la testimonianza di Adrian Conan Doyle, che sottolineò la genialità dell’uso del termine «hound», così intrinsecamente carico di minaccia, al posto del semplice «dog». In effetti, l’autore avrebbe potuto scegliere di utilizzare il corrispettivo inglese di «cane» e non l’ha fatto per una precisa scelta: di questo i traduttori non possono non tener conto. Nella traduzione italiana di Alessandra Calanchi, alla quale l’associazione Uno Studio in Holmes ha dato il suo imprimatur, si è scelto, al termine di un lungo dibattito, di «cambiare tutto per non cambiare nulla», usando il titolo del secondo capitolo, La maledizione dei Baskerville, come titolo di tutta l’opera, proprio come avvenne per la prima traduzione italiana pubblicata sulla Domenica del Corriere, nel 1902. All’interno del testo, hound è tradotto, correttamente, «segugio».
Holmes & Watson – L’enciclopedia, Stefano Guerra, Enrico Solito, Rogas. Il Professor Alessandro Gebbia, con cui, nei corridoi di quella che fu la residenza della moglie morganatica del re e che poi divenne sede universitaria, ossia Villa Mirafiori, lungo la Via Nomentana, a Roma, ha studiato e sostenuto con gioia, per la messe di nozioni che ne sono derivati, diversi esami chi scrive, firma l’introduzione a questo volume bellissimo, amplissimo, esaustivo, monumentale: semplicemente, ammesso e non concesso che l’avverbio sia appropriato, in queste pagine è possibile trovare tutto quello che è possibile sapere, e che non si è neppure mai osato chiedere, lemma per lemma, personaggio per personaggio, opera per opera, sull’universo creato dall’immarcescibile genio di Arthur Conan Doyle. Impeccabile e imperdibile.