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“Il tenace concetto”

di Gabriele Ottaviani

Io non gliel’ho mai chiesto, ma credo che se a mio nonno avessero domandato in che posizione stava Huysmans nella classifica degli autori lui lo avrebbe posto – per un usare un’espressione ironica – in lotta per non retrocedere. Eppure, tutto quello che è nell’immaginario di À rebours è in mio nonno. La litografia del Cristo di Redon che mio nonno cita in Todo modo ce l’aveva anche nella stanza da letto, insieme a una di Rouault. E, del resto, rimanendo alle predilezioni del protagonista del romanzo di Huysmans, mio nonno amava Gustave Moreau; e nella casa museo di Moreau, a Parigi, Ferdinando Scianna gli ha scattato una delle sue più belle fotografie, avvinto nei ghirigori della monumentale scala a chiocciola.

Il tenace concetto – Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile, Fabrizio Catalano, Alfonso Amendola, Ercole Giap Parini, Rogas. Regista, drammaturgo, scrittore, direttore artistico per tre anni del Teatro Regina Margherita di Racalmuto, Fabrizio Catalano ha un nonno straordinario, che se fosse ancora in vita avrebbe compiuto quest’anno un secolo d’età, ricorrenza importante che si prevede dia il la a un gran numero di avvenimenti e celebrazioni che vedranno proprio il suo coordinamento: Leonardo Sciascia, esegeta finissimo, intellettuale formidabile, scrittore dalla vena felice e feconda, uomo niente affatto snob che amava leggere e rileggere e nutriva per l’arte una passione smodata, del quale per il tramite delle parole di suo nipote, intervistato dai curatori del presente e ottimo volume, Alfonso Amendola, professore di Sociologia dell’immaginario nell’Università di Salerno, esperto di sociologia della cultura con particolari attenzioni verso avanguardia, letteratura e digitale, ed Ercole Giap Parini, professore di Sociologia nell’Università della Calabria, appassionato di teoria sociale, di sociologia della scienza e del rapporto tra letteratura e scienze sociali, con particolare attenzione all’uso dei testi letterari nella ricerca sociologica, ma non solo, ogni lettere potrà imparare moltissimo. Da non perdere.

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“Contro Golia”

di Gabriele Ottaviani

Mi sembra che da queste battute appaia chiaro come non siano sufficienti le due risposte oggi esistenti alla crisi che stiamo vivendo: da una parte c’è chi crede che sia meglio liberarsi del tutto dalla tradizione e dalle sue radici culturali e simboliche; dall’altra c’è chi sostiene che il presente sia inesorabilmente portato al nichilismo e solo un ritorno al passato potrebbe garantire un risveglio politico e spirituale dell’Occidente. Da una parte abbiamo una critica postmoderna al moderno, dall’altra una critica premoderna al moderno. Dalla nostra discussione emerge invece una terza possibilità: criticare le derive neoliberali non con categorie premoderne o tradizionaliste, ma proprio in nome delle stesse intuizioni moderne, delle sue più autentiche aspirazioni. Una critica profondamente moderna al moderno, potremmo dire: un’autocritica della modernità. Penso ad esempio alla critica all’autorità o alla trascendenza, molto diffusa nell’Occidente contemporaneo. Dovremmo far capire che anche la critica all’autorità non può che essere compiuta in nome di un rapporto più originario con la stessa autorità, con la stessa trascendenza. Non a caso gli archetipi hegeliani del moderno sono Cristo e Socrate, i quali hanno entrambi criticato i poteri religiosi, culturali e politici del proprio tempo, non per una riduzione a nulla dell’autorità o della trascendenza, ma proprio in nome di una relazione più intima e autentica con la verità, o col Padre, o col daimon, insomma con la stessa autorità. Il neoliberismo invece si allontana dalle ispirazioni più autentiche del moderno quando sovrappone la critica all’autorità con la dissoluzione di ogni autorità, o la critica alla mediazione sacrale delle istituzioni religiose con la liquidazione di ogni tensione spirituale. Se vogliamo invece presentare una progettualità democratico-radicale, dovremo compiere una critica alle degenerazioni neoliberali andando alle radici più originarie, più proprie della stessa modernità…

Contro Golia – Manifesto per la sovranità democratica, Geminello Preterossi, Gabriele Guzzi, Rogas. Geminello Preterossi, formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ordinario di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Salerno, dove coordina il Collegio di Dottorato in Scienze giuridiche, direttore di studi dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, autore di saggi e non solo, e Gabriele Guzzi, dottorando in Economia all’Università Roma Tre, laureatosi con lode in Economia alla Luiss e all’Università Bocconi, fondatore di Rethinking Economics Bocconi, che ha anche guidato, collaboratore di numerose testate e attualmente presidente del movimento L’Indispensabile ed esperto economico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, dialogano in merito a quella che definiscono come una motivata ribellione delle masse, presenza ormai costante e significativa nell’ambito della nostra quotidianità, problema sociale, economico, culturale e politico da affrontare e possibilmente da risolvere, sgombrando però il campo, questa pare essere l’inevitabile conseguenza, sia dall’assolutismo tecnocratico del mercato che dalle illusioni coltivate dal liberalismo dopo la caduta del comunismo e del muro di Berlino, per ricostruire una realtà più salubre per tutti. Da leggere.

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“Londra sconosciuta”

di Gabriele Ottaviani

Un giorno, capitò in bottega un giovane ammodo in tanto di calesse e chiarì tutto il mistero. Nessuno poteva ragionevolmente aspettarsi di aver successo, in un negozio del genere, senza tenere una buona scorta dei grembiuli fantasia e delle gale di pizzo fabbricati dalla ditta che egli aveva l’incarico di rappresentare. Naturalmente, sapeva bene come vanno gli affari e che i liquidi non sempre ci sono lì bell’e pronti, ma non era necessario che questo fosse un ostacolo ad accordarsi con lui: un credito a tre mesi era di norma, con un’azienda rispettabile e bene avviata, e di certo nel giro di tre mesi tutti i grembiuli fantasia e le gale di pizzo di quel modello e di quel prezzo per cui ci fosse stato spazio si sarebbero venduti. E lui non aveva bisogno di ricordare a una signora dell’esperienza commerciale della signora Munsey che i grembiuli fantasia e le gale di pizzo – del modello giusto – erano gli articoli di gran lunga più redditizi noti al commercio. Questo lo sapevano tutti. Diciamo dodici dozzine per ciascuno, tanto per cominciare? No? Be’, allora sei dozzine. In realtà, con prezzi così tirati, dividere in due dodici dozzine non valeva la spesa, ma questa volta, per tranquillizzare un buon cliente, avrebbe fatto uno strappo. Alla signora Munsey si schiarirono le idee. Evidentemente il segreto del successo in affari stava nel comprare a prezzo vantaggioso, come il giovane ammodo suggeriva, vendere a prezzo buono e vivere sui profitti, limitandosi a sborsare il resto alla scadenza di tre mesi…

Londra sconosciuta – Storie dall’East End, Arthur Morrison, Rogas, traduzione di Mario e Bruno Maffi. Oggi è uno dei quartieri più vivaci di Londra, ma, come spesso accade in molti rioni di numerose località, l’East End affonda le proprie radici in una storia ben più complessa, povera e difficile, e quando Arthur Morrison, uno dei maestri del realismo inglese a cavallo fra secolo decimonono e ventesimo, troppo poco noto ora come ora, vi ambienta le sue formidabili narrazioni, chirurgicamente caratterizzate con empatia, è un universo degradato ma affascinante, tragicomico, che si tiene su a forza di espedienti e insospettabili lampi di travolgente e commovente umanità: ottimo.

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“Holmes & Watson”

di Gabriele Ottaviani

HOUND of the Baskervilles, The

Intere generazioni di lettori italiani lo conoscono come il «mastino» dei Baskerville, ma la traduzione è insoddisfacente e sostanzialmente errata (v. traduzioni). Il termine «hound» indica un gruppo di cani formato da razze diverse, aventi un comportamento comune: non perdere la traccia della preda, inseguirla tenacemente anche a distanza dal padrone e stanarla senza sbranarla in attesa del cacciatore. In italiano la traduzione corretta potrebbe essere «segugio», ma così facendo verrebbe perso irrimediabilmente il senso di terrore, minaccia e persecuzione che è evocato in inglese da «hound»: ben pochi lettori italiani si lascerebbero intimorire dal «segugio dei Baskerville», anche perché nel nostro Paese il termine «segugio» è associato al Segugio Italiano, instancabile cacciatore, coraggioso con la selvaggina, ma notoriamente docilissimo con gli esseri umani. A volere essere precisi, in italiano, la categoria degli hound non si limita nemmeno ai segugi, poiché comprende anche i levrieri, e non sarebbe neanche traducibile con «cani da caccia» (perché in questi ultimi sarebbero compresi anche i cani da ferma e da riporto), ma, tutt’al più, «cani da seguita». Certo che «Il Cane da seguita dei Baskerville» suona proprio male. Ci sarebbe una razza italiana il cui nome rinvia ad un verbo che indica l’insistente persecuzione, intrinseca nel termine «hound»: il Bracco, con la corrispettiva voce verbale «braccare». Ma, sarà per l’influenza dei cartoni animati o per quella del «bracchetto» Snoopy, anche la soluzione «Il Bracco dei Baskerville» non appare adeguata. Queste ragioni hanno indotto i primi traduttori a usare «mastino», ma tale scelta ha il solo pregio di mantenere desta l’idea di ferocia e non concorda con la lettera del romanzo, né, se non in parte, con il comportamento del terribile hound. Le due razze citate, o meglio le due famiglie, quella dei segugi e quella dei mastini, sono sostanzialmente differenti e non confondibili: il mastino, vigoroso e impressionante, conosciuto dai Fenici e importato in Inghilterra probabilmente già dai legionari di Cesare, fu impiegato nel 1400 nelle lotte contro i tori e poi, per la sua ferocia e fedeltà, divenne il più temibile protettore della proprietà; il segugio, e in particolare il più tipico segugio inglese, il bloodhound, portato dai Normanni nell’isola dal Belgio, è stato invece reso famoso dal suo fiuto. Definito «un cane dietro a un naso», deve il suo nome al fatto che una sola goccia di sangue gli è sufficiente per mettersi sulla pista della selvaggina. È capace di seguire la pista di un uomo quattro o cinque giorni dopo il suo passaggio. Ma questa leggenda vivente è di indole dolcissima e non assale mai l’uomo. In effetti, quando Watson si trovò al cospetto del cadavere dell’animale e lo poté osservare con calma, rilevò che sembrava per metà un bloodhound e per metà un mastiff. Stapleton (cui si deve la presenza del cane nel Dartmoor), infatti, era un naturalista e ben conosceva le ricerche sugli incroci delle razze canine che in quegli anni stavano fiorendo e che avrebbero portato alla selezione ed alla nascita delle più interessanti razze canine attuali (Sir Laverack stava selezionando i Setter, proprio in quegli anni; in Germania si selezionava il Pastore Tedesco e in Inghilterra poco dopo sarebbe nato il Bull–Mastiff). Nell’ambito di questi tentativi di realizzare incroci particolari potrebbe inserirsi il cane in questione, che avrebbe riunito le caratteristiche di due delle più antiche ed amate razze canine d’Inghilterra. Così, quando Stapleton si recò da Ross & Mangles, in Fulham Road, è verosimile che non si limitò a chiedere il cane più «selvaggio e forte», ma anche quello dotato del fiuto migliore. Era infatti indispensabile, per la riuscita del suo piano, che il cane fosse in grado di raggiungere la sua preda nella brughiera, guidato solo dal suo fiuto, esercitato su di una vecchia scarpa della vittima. Ecco perché era necessario che l’animale avesse sangue di bloodhound. D’altra parte, una volta raggiunta la preda, l’avrebbe dovuta sbranare, e non festeggiare, come è invece costume di quei segugi. Di qui la necessità del sangue del feroce mastino. Dunque, il mastino in qualche modo c’entra, ma sta di fatto che poi, al momento di redigere la storia, il Buon Dottore scelse il termine «hound» e non «mastiff» e con questo dobbiamo fare i conti. Si potrebbe pensare di tradurre «hound» con «cane»: alcuni traduttori in Italia e anche traduttori di altri Paesi l’hanno fatto. Vediamo i pro e i contro di tale possibilità. A favore abbiamo la posizione di John Fowles che, nell’introduzione al libro in questione, ricorda come questo cane sia la riproposizione di un antico mito: il Cane della Morte, che ha il pedigree più antico di tutte le razze canine. Dagli antichi Egizi ai popoli mesolitici dell’Europa del Nord, il terrore del «Cane nero» ha per corso tutte le culture e le civiltà. Si tratta di una paura ancestrale, archetipica, che non fa riferimento a una specie particolare di cane, ma alla stessa essenza della caninità, che ben si presta a rappresentare le paure più nascoste di ognuno di noi. Quelle stesse paure che fanno sì che se una persona si avventura nella brughiera, di notte, da sola, ben presto si accorge di un piccolo cane che la segue. Man mano che il cane si avvicina, esso diviene sempre più grande. Per quanto veloce quella persona corra, il cane le è sempre addosso, finché, quando la raggiunge, grande come un toro, è ormai pronto a uccidere. Contro abbiamo soprattutto la testimonianza di Adrian Conan Doyle, che sottolineò la genialità dell’uso del termine «hound», così intrinsecamente carico di minaccia, al posto del semplice «dog». In effetti, l’autore avrebbe potuto scegliere di utilizzare il corrispettivo inglese di «cane» e non l’ha fatto per una precisa scelta: di questo i traduttori non possono non tener conto. Nella traduzione italiana di Alessandra Calanchi, alla quale l’associazione Uno Studio in Holmes ha dato il suo imprimatur, si è scelto, al termine di un lungo dibattito, di «cambiare tutto per non cambiare nulla», usando il titolo del secondo capitolo, La maledizione dei Baskerville, come titolo di tutta l’opera, proprio come avvenne per la prima traduzione italiana pubblicata sulla Domenica del Corriere, nel 1902. All’interno del testo, hound è tradotto, correttamente, «segugio».

Holmes & Watson – L’enciclopedia, Stefano Guerra, Enrico Solito, Rogas. Il Professor Alessandro Gebbia, con cui, nei corridoi di quella che fu la residenza della moglie morganatica del re e che poi divenne sede universitaria, ossia Villa Mirafiori, lungo la Via Nomentana, a Roma, ha studiato e sostenuto con gioia, per la messe di nozioni che ne sono derivati, diversi esami chi scrive, firma l’introduzione a questo volume bellissimo, amplissimo, esaustivo, monumentale: semplicemente, ammesso e non concesso che l’avverbio sia appropriato, in queste pagine è possibile trovare tutto quello che è possibile sapere, e che non si è neppure mai osato chiedere, lemma per lemma, personaggio per personaggio, opera per opera, sull’universo creato dall’immarcescibile genio di Arthur Conan Doyle. Impeccabile e imperdibile.

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“Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie”

di Gabriele Ottaviani

Io e Mary riprovammo tante volte, seppur con discontinuità perché lei si era ritrasferita a Roma. Ogni volta accampavo scuse diverse, lei fraintendeva per scarso interesse e svaligiava i sexy shop per ravvivarlo. Andammo avanti per un altro anno così. Io mi allontanavo sempre di più, ero arrivato persino ad odiarla, la consideravo un altro scherzo imbecille di Dio. La tragica ironia stava nel fatto che lei lottava sempre di più per restarmi vicino. Io allora arrivavo persino ad umiliarla, alle volte lei tornava da Roma apposta per vedermi, io mi facevo fare un pompino e poi la salutavo. Le avevo dato un sacco di amore e poi gliel’avevo tolto di colpo, non mi rendevo conto che quello che stavo passando io era niente in confronto a ciò che stava passando lei. Eppure non riuscivo a provare empatia nei suoi confronti. In fondo lei è bellissima, pensavo, troverà un altro ragazzo e sarà felice, io sono condannato. Ci lasciammo il giorno dopo l’esame di maturità. In quei due giorni tirai i due più grossi sospiri di sollievo della mia vita. Fumando una canna con i miei amici mi vantavo finalmente di essere libero. Quella sera ebbi il mio primo attacco di panico. Nessuno aveva idea di cosa fosse, mi portarono anche al pronto soccorso. Anche l’attacco di panico è una spirale. Hai paura e, dopo quello che è successo a Bruf, il cervello attiva una fight or flight response (combatti o fuggi) mollandoti una scarica di adrenalina. L’adrenalina ti accelera il battito del cuore e ti rende i respiri ancora più corti, ciò aumenta ancora di più la paura, quindi il cervello aumenta ancora di più l’adrenalina e così via.

Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie, Alec Bogdanovic, Rogas. La vita è così, farsa e tragedia si danno la mano, camminano unite su un filo teso, sospeso sul nulla del dolore, con lo sguardo rivolto al cielo della felicità sperata: Bogdanovic amalgama con sapienza sin dal geniale, divertente e azzeccatissimo titolo, esaltato dalla brillante immagine di copertina, semplice, immediata e assai significativa, molto più, in realtà, di quanto forse possa sembrare di primo acchito, gli estremi, l’uno senza l’altro incomprensibile, e opposti sapori dell’esistere, dando voce alla lotta contro il male più diffuso, più temuto, più odioso, che lascia frustrati, inadeguati e immaturi, quella depressione che è un cane nero che morde le terga, per cui ci si duole e ci si sente in colpa, che non dà segni fisici e non genera, pertanto, empatia. Caratterizzato con dovizia di dettagli, Gli ansiosi si addormentano contando le apocalissi zombie è un libro intenso, credibile ed emozionante, che parla al cuore di tutti e in cui ognuno può riconoscersi.

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“Quell’oscuro desiderio”

di Gabriele Ottaviani

Stefano Baldi era nato nel 1955 e risiedeva a Calenzano. Rimasto orfano del padre nel 1979, aveva abbandonato gli studi di medicina e trovato lavoro presso un lanificio di Vaiano (PO). Susanna Cambi risiedeva, con la madre e la sorella Cinzia, presso gli zii Pieraccini a Firenze, in via Scarlatti, una sistemazione provvisoria a seguito di uno sfratto. Di recente era stata assunta come telefonista alla TV Prato 39, situata su un piano dell’Hotel Palace di Prato, per conto della ditta Eurogiochi di Padova; in precedenza, come si è detto, aveva lavorato nel negozio di abbigliamento all’ingrosso della madre nella centralissima via Faenza, a pochi passi dalla stazione di Santa Maria Novella. I due giovani si conoscevano dal 1973 ed erano ormai prossimi alle nozze, che avrebbero dovuto celebrarsi entro pochi mesi, nella primavera del 1982. A tale scopo stavano apprestando un appartamento nella villetta in cui abitava la madre di Stefano, a Calenzano in via Mugellese, e Susanna lavorava alacremente al proprio corredo. Giovedì 22 ottobre è, come tutti i testi sul mostro puntualizzano diligentemente, una sera prefestiva: il giorno successivo è stato annunciato uno sciopero generale. Baldi, che gioca a calcio come ala sinistra nei Rangers di Prato, salta l’allenamento serale (domenica 25 è prevista una partita del torneo UISP) per trascorrere la serata con Susanna. Le informazioni riguardanti gli spostamenti della coppia sono, a differenza di altri casi, singolarmente abbondanti e circostanziate.

Quell’oscuro desiderio – Un profilo del mostro di Firenze, Cristiano Demicheli, Rogas. Artefice di numerosi efferati delitti che hanno fatto sensazione e che ancora oggi si stagliano nella memoria collettiva anche per quel che concerne l’analisi della narrazione mediatica e processuale di avvenimenti di cronaca nera, per le caratteristiche misteriose, violente e non prive, tuttora, di angoli bui, per i perversi connotati sessuali e per la riflessione sulla valenza del contesto sociale nella determinazione e nello sviluppo di determinati fenomeni che evidentemente affondano le proprie radici, giungendo poi a una completa deriva, nell’abbrutimento, nell’ignoranza, nell’isolamento, nella frustrazione, nell’impotenza e nello stigma, il mostro di Firenze è assurto quasi al livello, per certi versi, di abominevole personaggio da leggenda metropolitana: Cristiano Demicheli, con cura e competenza, linguaggio dotto e denso, ma chiaro e accessibile, ne fa un racconto puntuale e che induce alla riflessione. Da leggere.

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“Benvenuti nel Pornocene”

di Gabriele Ottaviani

È facile rintracciare in questa sovrabbondanza di corpi splendenti, opulenza del carnale-carnaio, tripudio di muscoli e liquidi, un’altra tendenza tipica del Pornocene: la frenesia quantitativa. Mai come nell’epoca attuale il principio di piacere ha dominato così totalitaristicamente azioni e passioni degli umani. Lo denuncia con efficacia Ovidie, ex attrice pornografica, regista, produttrice, giornalista e scrittrice francese, che ha vissuto a lungo nel mondo del porno e ne offre una preziosa e autorevole testimonianza: Viviamo in una società dove il piacere è solo fine a se stesso. È uno scopo, e forse l’unica cosa a cui tutti aspirano. Non è neanche un mezzo per accedere a un’altra fase, non ha alcuna funzione reale se non quella di soddisfare all’istante la persona. Nella relazione sessuale, il piacere è diventato il principale obiettivo. La sessualità diventa alienante perché questo piacere schiaccia tutti gli altri aspetti positivi. Perché una sessualità, se ha come unico scopo il piacere, non può in nessun caso portare al benessere. Questa alienazione al piacere può essere facilmente osservata nel fenomeno della corsa all’orgasmo. L’orgasmo, di cui tanto si parla in molte riviste e trasmissioni televisive e radiofoniche, è diventato un vero e proprio prodotto di consumo, che fa dimenticare così la ricchezza del rapporto sessuale. Consumiamo il piacere sessuale come fosse un hamburger, come piccolo piacere è un fenomeno molto simile alla sindrome da shopping compulsivo (…) troppo sesso “utilizzato male” uccide il sesso.

Benvenuti nel Pornocene – All you can fuck!, Davide Navarria, Rogas. La vita nasce dal sesso. Il sesso è piacere e godimento, e non se ne ha mai abbastanza. Il sesso vende, solletica, eccita, vellica, stuzzica, seduce, spaventa, è merce di consumo e di scambio, è immateriale e al tempo stesso concreto fino alle perversioni più basse, e d’altro canto trascendente come l’estasi, l’orgasmo, la sublimazione. La nostra società, sempre più rabbiosa, invidiosa, proterva, omofoba, sfacciata, impudica e ipocrita, è anche sempre più, nel linguaggio, nei gesti e nelle immagini, ipersessualizzata: Davide Navarria guida il lettore nella nuova era contemporanea con mano sicura e senza lesinare in ironia, in modo dotto e chiaro, con dovizia di particolari, indagando concetti universali come la libertà, la morale, i diritti, i doveri e l’autodeterminazione. Da non perdere.

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“La casa senza finestre”

di Gabriele Ottaviani

Quindi un giorno nuotò fino al cottage. La tenda dei Carrenda non c’era più, tutto era come prima. Ma questa volta non le sembrò ripugnante. Aprì la porta ed entrò nell’accogliente salotto con il camino. Poi esplorò attentamente tutta la casa. Trovò una stanza con delle credenze di vetro, piene di una stupefacente collezione di ogni tipo di alga, conchiglia e corallo (quanto sarebbe piaciuta a Fleuriss! pensò); c’era anche una piccola cucina. C’era una stanzetta di sopra, con una scala che saliva in una botola, dove si trovava un letto morbido con coperte calde e un camino. Sopra il letto c’erano tre intelaiature, ed Eepersip pensò a quanto sarebbe piaciuto a Fleuriss riuscire a vedere le stelle da lì. Quando salì al secondo piano, Eepersip trovò un’accogliente nicchia con porte di vetro che davano sul porticato, colpito dal vento e dal sole, affacciato verso il mare, e due luminose camere da letto. Ma mentre si preparava per andare a prendere Fleuriss, la ragione la trattenne. Ovviamente Fleuriss non avrebbe potuto cominciare a vivere nella natura durante l’inverno: doveva iniziare con l’estate, per capire com’era. Quindi Eepersip attese pazientemente l’arrivo della primavera. Durante l’inverno visse in un grande pascolo su una collina dietro al cottage. La primavera arrivò molto in fretta, ed Eepersip si preparò a partire.

La casa senza finestre, Barbara Newhall Follett, Rogas. Traduzione di Francesca Cavallucci. Introduzione di Laura Madella e Laura Salvarani. Una donna, un mistero: a quattro anni compone poesie, a dodici anni ha già pubblicato il suo primo romanzo, a venticinque fugge da un matrimonio stagnante, scompare nel nulla e non se ne sa più alcunché. Figlia del critico Wilson Follett, nata in un paesucolo del New Hampshire, stato il cui motto è live free or die, e nulla, in questa vicenda, appare decisamente casuale, Barbara Newhall Follett racconta con inusitata e simbolica grazia la vicenda di Eepersip, una ragazzina che ama la natura e aborre le restrizioni di una casa tradizionale, con muri e finestre, e che pertanto decide di andare incontro al proprio destino. Un gioiello da scoprire e riscoprire.

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“Memorie da Wikipedia”

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Era il primo messaggio ricevuto da Arianna. Conteneva molte cose, soprattutto ne notai la precisione. Era essenziale ma c’era tutto ciò che poteva servire. Era come il bagaglio per il viaggio che io e lei preparavamo quando, appena ci eravamo conosciuti, andavamo in campeggio in mezzo ai monti. Prendevamo nota di tutto quel che ci serviva in un quaderno, che in seguito sarebbe stato la nostra guida. Abiti, cassetta del pronto soccorso, cibo in scatola, acqua, sigarette. Ci munivamo di una mappa. Alcuni libri. Fiammiferi. Prima di partire, facevamo diversi giorni di allenamento. Bicicletta, corsa. Verifica delle scarpe. Ma anche dell’auto che ci avrebbe portati nei pressi delle colline che dovevamo varcare per raggiungere il vecchio paese abbandonato, sulla riva del fiume dove ci saremmo accampati. Non avrei mai potuto sapere se Arianna aveva pensato le stesse cose che io avevo pensato, vedendo quel messaggio di benvenuto. Ma l’impressione era quella e per la prima volta da quando l’avevo vista morta, appesa alla trave come una macabra bambola, provai un moto di interesse verso qualcosa che non fosse sapere come mai aveva deciso di uccidersi.

Memorie da Wikipedia, Alda Teodorani, Rogas. Un tassista torna un giorno a casa. E vi trova sua moglie. Morta. Suicida. E mentre cerca di capire cosa davvero sia accaduto penetra man mano sempre di più, e con lui il lettore, avvinto da una trama immaginifica, nelle maglie di quella che da sempre viene propagandata come l’enciclopedia che nasce, come una divinità ctonia dalla terra, dal sapere libero e condiviso, plurale, perennemente aggiornato, infallibile, senza sovrastrutture né pregiudizi ideologici. Ma è davvero così? Allegorico, raffinato, costruito con cura, perizia, brillantezza e genio, intrigante e coinvolgente: una scoperta sorprendente.

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“E la chiamarono rivoluzione”

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Al rientro in campo c’era Van Basten. Sacchi aveva inserito l’olandese al posto di Donadoni, spostando Gullit a centrocampo. Nel primo tempo Bigliardi se l’era cavata piuttosto bene in marcatura e il colosso con le treccine non era stato all’altezza della sua fama. Nella formazione del Napoli del secondo tempo non era cambiato niente, se non il verso della predisposizione alla lotta. L’esaltante chiusura del primo tempo non aveva avuto il potere di infondere la giusta carica agonistica agli azzurri, che probabilmente cominciavano a pagare il conto della precaria condizione atletica e anche fisica. Il pressing che si era visto nella parte iniziale della partita divenne un’utopia, di quelle che la contrarietà del reale ti convince impietosamente a dismettere. Era il momento del riflusso. La squadra si arroccò nella propria metà campo, contratta a difesa del pareggio. Persino Maradona fu costretto a ripiegare sulla fascia sinistra, come un mediano qualsiasi, lasciando Careca solo in attacco. A quel punto la spavalderia del Milan non ebbe più freni. Gullit non era perfettamente a suo agio sulla trequarti, anche per l’ampiezza della frequenza del proprio passo, tuttavia lo spazio di manovra che gli concedeva la passività avversaria favoriva il suo gioco. Bigliardi costretto a seguirlo e inseguirlo su porzioni di campo così grandi, andò in seria difficoltà. Sin dalla ripresa del gioco il pallone divenne proprietà privata dei rossoneri. Il Napoli era completamente piegato su sé stesso, nel disperato tentativo di contrastare l’azione avversaria, ormai incapace di costruire e anche solo di pensare una manovra offensiva.

E la chiamarono rivoluzione – Sacchi contro Maradona, Raffaele Cirillo, Rogas. C’è chi ci vede solo poco più di venti uomini in mutande, più o meno ricchi, più o meno affascinanti, più o meno eccitanti, anche dal punto di vista erotico, che corrono dietro a una palla. E c’è chi, invece, lo vive come una fede. Il calcio è così, uno sport e un immenso business: negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere, quelli dell’edonismo reaganiano, quelli in cui tutto sembrava possibile, in cui chi voleva essere lieto lo era, perché del domani non c’era certezza, due diverse Weltanschauung si fronteggiano tra un traversone e un fuorigioco, quella del Milan più vincente di sempre, compagine formidabile a livello globale e a trazione olandese presieduta da Silvio Berlusconi, che assieme in primo luogo alla posizione preponderante nell’ambito delle televisioni commerciali ne fece trionfale veicolo per la sua carriera politica, e allenata da Arrigo Sacchi, che poi porterà la nazionale a sfiorare, nel calderone di Pasadena, quando ancora non sapevamo che lì vi abitasse Nora Walker, la più irresistibile matriarca del piccolo schermo, la vittoria nella coppa del mondo, persa in finale ai rigori col Brasile, e quella del Napoli di Ferlaino, che aveva come punta di diamante nientedimeno che il caravaggesco Pibe de oro, l’uomo per cui la locuzione genio e sregolatezza pare essere un vestito su misura. Cirillo, con bravura e competenza, ritrae, facendone riuscita metafora del contesto storico, sociale, culturale, economico e politico, questa disfida in modo esauriente e puntuale. Da non perdere.

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