di Gabriele Ottaviani
Con Ritratti in piedi ha raccontato le vite e le opere di Saverio Strati, Otello Profazio, Rosario Villari e la sua: Convenzionali intervista Giuseppe Mario Tripodi.
Perché scrivere questo libro?
Non è un libro progettato e realizzato in conformità. È una raccolta di saggi che hanno avuto una vita autonoma prima di essere raccolti in questo volume.
Chi sono per te i protagonisti di queste biografie?
Saverio Strati è lo scrittore calabrese che ho letto con più sistematicità. Ho iniziato con ‘Noi lazzaroni’ che è del 1972 e poi ho letto a ritroso i libri già pubblicati e quelli che sono venuti dopo. Alcuni romanzi li ho fatti leggere ai miei figli e adesso sto rileggendo, assieme a mia nipotina, ‘Tibi e Tascia’ che è una delle migliori opere sull’infanzia di tutta la letteratura italiana. Naturalmente la resa letteraria di Strati non è costante, ma io l’ho amato molto. Lo ho incontrato un paio di volte in contesti che non permettevano grandi scambi di idee. Lui comunque era uomo di poche parole.
Otello Profazio, di cui invece posso vantare l’amicizia, è un ‘personaggio’ eccezionale, molto vivace intellettualmente. Ancora, a ottantatre anni, è molto curioso del mondo e degli uomini. È un grande affabulatore e mi scialo di ascoltarlo anche quando ripete cose che ho sentito tante volte. È, come Strati, persona di una grande dignità, ironico ed autoironico. Non lesina le critiche, anzi! A volte si accanisce contro le persone di potere, specie quando sono prive di altre qualità. Io ero così da adolescente e da giovane; poi, man mano che i decenni passavano, è subentrata un po’ di ‘falsa politica’, cioè l’arte con cui gli ‘ndranghetisti si rapportano ai loro nemici, la dissimulazione su cui si è soffermato molto Rosario Villari. A volte solo per stanchezza. Profazio non si stanca mai di essere sé stesso e non sa cos’è la dissimulazione.
Rosario Villari è stato mio professore di Storia Moderna all’Università di Messina. Poi si è trasferito a Firenze e l’ho rivisto solo di sfuggita in rare occasioni. Ho insegnato per tanti anni ai miei allievi utilizzando il suo manuale che era di una chiarezza inconsueta. Sono stato abbonato alla rivista ‘Studi storici’ nel periodo in cui l’ha diretta lui ed ho letto tutti i libri che ha pubblicato. Dopo ‘Un grido di libertà’ ho sentito un bisogno impellente di scriverne. È un capolavoro della storiografia occidentale, degno di stare a fianco di pilastri come ‘Filippo II e la Franca contea’ di Lucien Febvre, ‘Lo Stato di Milano e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V’ di Federico Chabod, ‘Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II’ di Fernand Braudel.
Qual è il modello a cui ti sei ispirato?
I ritratti di Strati e di Profazio sono apparsi sulla rivista ‘Belfagor’ che è stata fondamentale per la mia formazione. Ho cominciato al leggerla negli anni dell’Università su segnalazione di Paolo Alatri, mi laureai con lui nel 1971, che aveva sostituito Villari nella Cattedra di Storia Moderna a Messina. In ogni numero della rivista c’era la rubrica ‘Ritratti critici di contemporanei’, 15-20 pagine per presentare un protagonista della storia e della cultura. Ovviamente li ho letti tutti. Nella primavera del 2009 i giornali parlarono delle difficoltà economiche di Strati. Scrissi di lui con molta ironia e mandai le cartelle a Carlo Ferdinando Russo, direttore di ‘Belfagor’ che mi rispose positivamente a stretto giro di e-mail; lui che di solito era scrupoloso fino alla pignoleria su ogni rigo della rivista. Insomma il modello dei ritratti è quello della rubrica belfagoriana.
Il titolo poi lo cavai da un romanzo di Gianna Manzini, scrittrice pistoiese che pubblicò nel 1971 un ‘Ritratto in piedi’ di suo padre Giuseppe Manzini, vero e proprio ‘cavaliere dell’ideale’ dell’anarchia. Profazio è sicuramente un anarchico, Strati era socialista e Villari comunista: tutti e tre sono vissuti in gran coerenza con i loro pensieri. Strati è anche morto con grande dignità. A Villari e Profazio auguro ancora lunghi anni di lavoro e di letizia, ‘come vuole il loro cuore’ si diceva una volta per buon augurio. E sono sicuro che vivranno ‘in piedi’, come hanno fatto finora.
A cosa è dovuta la scelta di voler raccontare anche una parte di te?
Anche lì sono partito da una rubrica belfagoriana intitolata appunto ‘Minima Personalia’ (ma prima c’era stata la breve serie ‘Nascita di uomini democratici’); uomini di cultura della generazione che ha preceduto quella alla quale appartengo. Certo i miei Minima Personalia, con tutta la benevolenza di Carlo Ferdinando Russo, su ‘Belfagor’ non potevano finire. Non avevo i titoli. Sicché li ho scritti, con molta autoironia e a beneficio degli allievi del Liceo Classico di Tivoli, sugli ‘Annali’ della scuola; me ne feci stampare alcune centinaia di estratti e li ho donati alla lunghissima parentela che, oltre che in Calabria, è dispersa nelle terre di emigrazione (Australia, Stati Uniti e America del Sud).
Cosa rappresenta per te la Calabria?
Ho un rapporto ancestrale con la mia terra di origine. Me ne sono andato appena laureato, a ventidue anni! Non ci sono tornato definitivamente perché ho capito che non vi era pane per i miei figli, come non vi era stato per me! E i viaggi su e giù per la penisola, a volte anche più di due ogni anno, hanno rappresentato una sorta di ‘coazione a ripetere’ il trauma dell’emigrazione. Ma ci ho costruito una casa per trascorrervi, salvo imprevisti, gli ultimissimi anni della mia vita. Intanto ci passo le vacanze assieme ai miei figli e alle mie nipoti. Mi aveva colpito la storia di un cugino di mio padre che morì disperato a Zagarolo, vicino a Tivoli, perché non poteva tornare in Calabria dove non aveva più la casa. Voleva morire nel suo paese ma finì i suoi giorni all’Ospedale di Palestrina. Non so se il mio progetto di rimpatrio pre-mortuario riuscirà ma, almeno, ci sono le condizioni.
Com’è cambiata la scuola italiana nel corso degli anni?
C’è stata una evoluzione sia degli alunni che degli insegnanti. La mia generazione aveva meno strumenti. Basta analizzare i libri di testo di allora: le letterature erano monocrome, fatte di carta non adeguata, senza illustrazioni; il manuale di storia dell’arte, D’Ancona-Wittgens-Gengaro, era in bianco e nero. E costavano molto per i redditi di allora. La mia famiglia vendette i dieci maialini che aveva figliato la scrofa, e meno male che era stata una figliata numerosa, per acquistarmi i libri della quarta ginnasiale dove c’erano i quattro vocabolari. E alcuni, le cui famiglie non avevano scrofe gravide, finivano nei seminari dove i libri erano gratis. Poi, al penultimo anno, si spretavano e facevano la maturità fuori. E diventavano ferocemente anticlericali per reazioni alle condizioni di vita semicarcerarie che avevano trovato in quelle scuole. Anche gli insegnanti, a parte qualche illustre eccezione, erano meno preparati dei professori di oggi.
Ora ci sono viaggi di istruzione sin dalle scuole elementari. Allora solo chi aveva la media più alta alla fine del secondo trimestre partecipava gratuitamente al viaggio di istruzione che si faceva alla fine dell’anno. A noi da Melito Porto Salvo ci portavano a Gambarie, che era una stazione sciistica, dove non c’era assolutamente nulla. E vomitavamo sistematicamente perché la strada, quasi cinquanta chilometri, era assai impervia e con tante curve. In terza media ci portarono a Reggio Calabria, dove io non ero mai stato, e al ristorante rimasi meravigliato dalla sontuosità delle posate.
Nel libro racconto di aver scoperto lo sciacquone in prima media, perché non solo a casa mia, in campagna, non c’era l’acqua corrente ma non c’era neanche nella scuola elementare che frequentai.
Qual è il maggior problema culturale italiano?
La diffusione della scolarizzazione di massa, fatto assolutamente positivo, ha spostato in avanti, rectius in alto, il livello generale della cultura media. Ma con il tempo chi veniva dalle classi disagiate è stato distratto da una sovrabbondanza di forme culturali approssimate, banali, semplificate (televisione, tifo sportivo, stampa, social media), confezionate dalle classi egemoni per perpetuare la subalternità dei poveri. Da qui un vero e proprio abbrutimento culturale cui sono dannati i giovani delle borgate, delle periferie, del Mezzogiorno intero. E i titoli di studio, medio-superiori ed universitari, conquistati a prezzo di grandi sacrifici anche familiari, non si trasformano in occupazione e presto diventano addirittura un peso per chi è destinato alla disoccupazione di lungo corso o a lavori precari, dequalificanti e alienanti. E questo senza che conoscano il teatro, la musica colta, le arti figurative, la letteratura cui anche i manovali o gli artigiani cresciuti a ridosso del ’68 erano stati in qualche maniera iniziati.
Da dove nasce il tuo interesse per l’etimologia e il dialetto, quello che Gozzano definiva come la lingua del sentimento più immediato e innato, ché certe cose non si possono dire in italiano?
Il dialetto calabrese è stata la mia lingua ritrovata; dopo i lungo noviziato scolastico e universitario, nel quale ho appreso ad usare la lingua italiana, a leggere i classici e a insegnarli, ho ritrovato le parole della civiltà contadina, tramite involontaria anamnesi, in occasionali calchi nei libri di letteratura, di filosofia, di storia, di diritto, di linguistica, di teatro.
Nel frattempo la scomparsa dell’economia agricola aveva determinato l’eclissi del lessico (legato alle stagioni, agli arnesi, alle tecniche) e del vulcanico laboratorio espressivo collegato alla vita comunitaria e fatto di imprecazioni, soprannomi, folclore, apparati paremiologici.
Riesumare queste parole può rispondere ad un disegno di archeologia linguistica (‘Scavi linguistici nella Magna Grecia’ intitolava, nel 1933, una silloge delle sue ricerche Gerard Rohlfs) o anche ad una esigenza emotiva combinata con qualche rimasticatura teorica nella convinzione che, in molti casi, il linguaggio ha una innegabile capacità evocativa del tempo delle origini ed assume una grande importanza affettiva e conoscitiva.
Quelle parole dialettali, semanticamente molto ricche, rimandano alla storia dei popoli che, conquistatori momentanei in attesa di turn-over, nei secoli hanno abitato la Calabria: greci, romani, bizantini, normanni, arabi, angioini, aragonesi hanno lasciato rilevanti testimonianze glottologiche sedimentate in un precipitato originale che solo per caso, e per mancanza di cannoniere per usare una nota metafora di Umberto Eco, non è diventato lingua letteraria.
Nel 2007 ho pubblicato presso l’editore Rubbettino un dizionarietto antropologico-dialettale, ‘Straci’, che è stato apprezzato da chiunque lo abbia letto.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Spero di riuscire quanto prima a ripubblicare una edizione accresciuta degli ‘Straci’ alla quale sto lavorando dal 2014, anche mediante pubblicazione periodica delle voci su riviste e periodici on-line. Poi terminerò la biografia di un ingegnere calabrese, un anarchico vissuto dal 1892 al 1936, che ritenevamo un uomo ‘senza macchia e senza paura’ e che, dagli studi archivistici, è risultato non poco compromesso col regime fascista.
Qual è il valore etico della letteratura?
Quando ero giovane leggevamo che la letteratura o era volta al diletto, alla ricreazione del lettore, o doveva servire, formando le avanguardie, a preparare la rivoluzione. Ora a quella schematizzazione sono subentrate molteplici e disarticolate finalità. Tra cui il sogno, per molti, di vivere di letteratura. Che è analogo al sogno di migliaia di ragazzini che sperano di sfondare nel mondo del calcio. Infondato e velleitario. Nemmeno uno su mille ce la fa. La democratizzazione della bibliourgia, il fatto cioè che moltissimi si fanno stampare, a pagamento e da case editrici improvvisate, la silloge di poesie o il romanzo o, in altri casi, auto-producono libri che nessuno compra e che pochissimi leggono, può essere un viatico per accedere a quella che una volta si chiamava la repubblica delle lettere ma, spesso, non è altro che una forma di alienazione per persone che aspirano alla gloria letteraria senza voler affrontare i sacrifici enormi, l’artigianato anonimo e di lunga durata che, soli, possono portare a produzioni di qualità.
Io ho esordito a sessant’anni e so che carmina non dant panem. Mi sono dato l’orizzonte del rispettabile dilettante, uno cioè che prova piacere a scrivere e a esercitare la memoria. Formalmente inseguo una scrittura polifonica, in cui cioè vengono impegnati apparati lessicali provenienti dai diversi registri linguistici e disciplinari (diritto, filosofia, storia, lingue colte e dialetti romanzi) che ho praticato e che, finora, mi hanno fatto vivere dignitosamente e senza grandi alienazioni.
Quanto ai contenuti, infine, vorrei occuparmi della cultura e dei sogni di chi, nell’arco di tutto il Novecento, ha creduto nella lotta per l’emancipazione delle classi subalterne; lotta che, ormai è palese a tutti, ha subito un grave scacco e che, soprattutto perciò, rischia di estinguersi senza lasciare tracce.
I vincitori sono sempre brutali e, in questo caso, anche molto bene armati. Hanno rischiato di essere sconfitti e sono decisi a non fare prigionieri. Desertum faciunt et pacem appellant.