di Gabriele Ottaviani
Il guaio è che spiando nelle case mi deprimo, perché penso che non ci sia niente di più deprimente di certi soggiorni delle case di Roma, di certi soggiornini in penombra ai piani bassi, dove di solito si vede un divano attaccato al tavolo rotondo su cui langue una bambola attonita con gli occhi di vetro, la parete attrezzata col televisore e quattro soprammobili in fila, le foto del matrimonio e il crocifisso d’argento, gli oggetti consunti dal tempo ma ancora così decorosamente lindi, i rombi delle carte da parati gialline e i dipinti alle pareti, tra i quali un pagliaccio dall’aria petulante e una romantica marina. No, davvero, penso che i maggiori eversori della moderna civiltà, del progresso della società, i maggiori sabotatori dell’allegria, siano i soggiornini dei piani bassi di Roma. E noi se vogliamo per davvero che le nuove generazioni crescano mentalmente sane e forti, e senza isterismi e malinconie, dovremmo promuovere in primo luogo un piano di ringiovanimento dei soggiornini, fare piazza pulita di questi soggiornini, svuotare questi cazzo di soggiornini ai piani bassi di Roma, fare un rogo di tutto e aprire buchi nelle pareti, costruire finestre grosse il doppio che facciano entrare la luce. – Papà, posso dirti una cosa? – Dimmi. – Alla Scuola del cinema hai mai incontrato i bobofidi? – Cosa sono i bobofidi? – I bobofidi! Dico a Mario che no, non ho mai incontrato i bobofidi, e che probabilmente non so cosa siano. Sembra un po’ stupito del fatto che io non li conosca. Protesta, poi si calma e ammette: – Certo che non li conosci, li ho inventati io. – E come sono fatti? – Non li vedi? – No. – Ma io sì. – Come fai a vederli? – Con l’immaginazione. Al che gli chiedo di descrivermeli. – Perché devo descriverteli? – Perché se me li descrivi poi posso vederli anch’io. Allora me li descrive, dice che i bobofidi sono come dei panda, ma hanno le antenne e sono verdi, e qualche volta sono tristi: – Come te, papà, ma solo qualche volta. – E dove vivono? Ci pensa un po’ e risponde: – Nella Scuola del cinema. A questo punto posso vedere anch’io i bobofidi, questi panda tristi con le antenne che si aggirano nella Scuola del cinema. E lui: – Sai che verso fanno? – Quale? – Fanno Boooo! Boooo! – Ah sí? Mario sbuffa: – E certo, perché credi che si chiamino bobofidi? Poi sbuffa ancora, e ancora.
L’uomo che trema, Andrea Pomella, Einaudi. C’è chi pensa che non sia nemmeno una malattia. E invece lo è, eccome. Anche se, almeno di primo acchito, non pare dare manifestazioni esteriori. Perché non si cura con la chirurgia. Perché a tutti, certo, capita di essere tristi. Addolorati. Giù di tono e di morale. Persino infelici. Ma la depressione è un’altra cosa. Prima di tutto perché si porta a braccetto il più infido e infingardo dei sodali, il crudele senso di colpa. Perché vedi, quando sei depresso, negli occhi degli altri, e prima di tutto, quando non riesci a svicolare dall’impudenza dello specchio, nei tuoi, che non hai più voglia di vivere, che hai voglia di morire, che ti senti come una candela che nonostante abbia il suo bello stoppino, come tutte, non è capace di bruciare, di accendersi, di fare luce, una domanda. Che ha in sé un giudizio. Che motivo hai? Che. Motivo. Hai. Tre parole. Tre dannatissime parole. Che vogliono dire tutto e nulla. Perché in effetti tu, a guardare le cose da fuori, hai tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felice. Eppure non lo sei. E non perché sei incontentabile. Ma questo è difficile da capire. E soprattutto da spiegare. L’uomo che trema fa tremare, sì, di emozione, a ogni riga, per la capacità davvero straordinaria di Andrea Pomella di indagare attraverso l’ironia, l’intelligenza, la letteratura, la forza delle parole, la memoria, l’arte in genere, in tutte le sue forme, il male e la sua rivelazione. Da leggere e far leggere.