di Gabriele Ottaviani
C’era un pensiero di dolore che non ne voleva sapere di restare confinato nei ricordi e che quel giorno era tornato per tormentarla. Era l’immagine di un uomo, capelli brizzolati e un lungo pizzetto, il fratello minore di suo padre: l’immagine del suo sorriso, che non era mai riuscito a tranquillizzarla, men che meno mentre le sollevava la gonna della divisa della scuola e le tirava giù le mutandine, fino alle ginocchia. L’aveva scoperta tutta, le aveva aperto le gambe, si era messo a guardarla. Erano soli in casa, lui avrebbe dovuto aiutarla a studiare. Yumiko non riusciva mai a ricordare dove fosse andata sua madre, che solo in casi eccezionali usciva, lasciandola sola. I libri aperti sui tatami le sfioravano una caviglia, lui stava inginocchiato di fronte a lei, con le mani ben salde sulle sue ginocchia e sorrideva. Yumiko sentiva chiaramente il rumore del suo cuore martellarle in gola. Le braccia intorno alla testa, i capelli davanti agli occhi, uno spiraglio aperto che le consentiva di vedere quella faccia, l’espressione eccitata. Il corpo, cui lei chiedeva di muoversi, imprigionato in uno stampo di pietra. Sentiva freddo in mezzo alle gambe, la sensazione del tatami sulla pelle nuda era strana, si ricordava di aver pensato che le ninfe dei boschi dovevano sentirsi così. «Hai ancora pochi peli, lì» le aveva detto in un sussurro e lei aveva fatto in tempo a vedere un brillio di saliva sul labbro inferiore di lui. «Mi piacciono le ragazze che hanno pochi peli, anche se neri neri. Apri ancora un po’ le gambe, voglio guardare mentre si apre.» Ma lei non ci era riuscita, non riusciva a comandare nessuna parte del suo corpo, provava, voleva obbedirgli, sapeva che sarebbe stato meglio farlo, ma non c’era niente da fare. «Allora te le apro io, sei una bambina cattiva e devo insegnarti che devi fare quello che ti viene chiesto.» Non sono una bambina, aveva pensato Yumiko, sono grande. Così aveva fatto forza sulle ginocchia e il sesso di lei si era dischiuso, lui aveva sorriso ancora e poi aveva mosso una mano e l’aveva toccata. «Ecco, vedi come si apre, lo senti? È bello, sono sicuro che ti piace.» Mentre parlava le aveva messo due dita dentro, spingendosi verso di lei, e lei aveva serrato ancora di più le braccia intorno alla testa, aveva chiuso gli occhi stretti ricacciando indietro le lacrime…
Con la paura ci mangiamo la notte, Raffaella Musicò, Paginauno. La metropoli tentacolare e spersonalizzante sembra non lasciare più spazio alla possibilità della costruzione di qualcosa di meno effimero di relazioni superficiali, il senso di comunità, rete salvifica di connessioni, appare come una chimera, nonostante i bisogni degli uomini e delle donne, in fondo, siano sempre i medesimi: amare, essere amati, venire stimati, lasciare un segno, non essere trasparenti, dati per scontati, soffocare il senso di frustrazione che dà un’esistenza che non somiglia a quella che si vorrebbe vivere ma che spesso e malvolentieri non si sa come riuscire a realizzare. Amedeo, Giulia, Yumiko, Elena e Roberta paiono non avere alternative alla solitudine, finché un giorno un accadimento imprevisto non incrocia i loro destini, e… Scritto con precisione chirurgica, il romanzo indaga le profondità dell’animo umano con perizia in ogni aspetto: da leggere.