Libri

“Sognatore stonato”

di Gabriele Ottaviani

Mio nonno amava la montagna, ma aveva gli occhi di mare. Mio nonno cantava Puccini, ma era stonato, proprio come lo sono io. Mio nonno aveva il bizzarro vizio di pettinarsi prima di andare a dormire, io lo prendevo in giro, ma ora ho lo stesso vizio. Mio nonno amava il vino bianco, non quello raffinato, per palati esigenti, ma quello che lui definiva “genuino”, della campagna. Mio nonno non era un tipo particolarmente socievole, ma amava la sua famiglia più di ogni altra cosa al mondo. Mio nonno faticava anche dodici ore, ma non era mai stanco. Mio nonno mi ha insegnato ad andare in bicicletta e a guidare, a stare in equilibrio nella vita anche senza le rotelle. Mio nonno sistemava le cassette della frutta per farmi esercitare a parcheggiare. Mio nonno lavorava in aeroporto, ma non ha mai preso un aereo. Mio nonno giocava con me ai soldatini e mi faceva vincere, sempre. Ma con quelle vittorie mi insegnava il valore delle sconfitte; il prestigio, a volte, di arrivare secondi…

Sognatore stonato, Valerio Molinaro, Nulla die. Scrive da sempre Valerio Molinaro, che è un artista giovane e di multiforme talento, che ha la capacità di saper raccontare, che con semplicità sa arrivare al cuore: il suo sognatore stonato è la quintessenza di chi non si arrende alla bruttezza, al mercimonio, alla miseria, di chi non si accontenta, non si adatta, non si omologa, non sceglie la strada più comoda, non canta sempre con la stessa voce, non scende a compromessi, non si riconosce nella meschinità, è quello che siamo, dovremmo e vorremmo essere tutti noi, albatri che non sappiamo stare a terra ma riusciamo senza sforzo a volare. Da leggere.

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Libri

“Vite in transito”

Vittorio Correale - Vite in transito COVER prima di copertinadi Gabriele Ottaviani

Si sentiva

invisibile…

Vite in transito, Vittorio Correale, Nulla Die. Raramente un sottotitolo è così efficace nel descrivere l’opera cui fa riferimento: Appunti di viaggio nella terra delle emozioni è però con ogni evidenza una riuscitissima sintesi dell’essenza di questo libro, nel quale l’autore, manager bancario da molti anni attivo con profitto, tanto da aver dato vita a celebri e celebrate campagne pubblicitarie, nel settore del marketing e della comunicazione, ma al tempo stesso già più volte premiato per i suoi scritti, indaga la fragile e variegata bellezza della condizione umana nella sua molteplicità caleidoscopica.

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Libri

“Eppure ancora i nespoli”

115_33188_COPERTINAdi Gabriele Ottaviani

Da un punto di vista storico, lo haiku si inserisce in un quadro più ampio e generale della poesia breve giapponese chiamata «waka» (letteralmente «poesia giapponese») che comparve nel tardo VII secolo e fiorì durante il periodo Heian (794-1185 d.C. dal nome dell’attuale città di Kyoto) soppiantando la «choka» («poesia lunga»).

Eppure ancora i nespoli, Antonio Sacco, Nulla Die. Sia silloge poetica che saggio, Eppure ancora i nespoli è un raffinato affresco, preciso sin nel più minuscolo dettaglio, mediante il quale, con grazia, competenza, eleganza e certosina acribia, Antonio Sacco accompagna il lettore in un viaggio ricchissimo di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione all’interno della condizione umana espressa attraverso la sensibilità del verso, veicolo d’interpretazione del mondo. Da leggere.

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Libri

“Accadimento onirico”

download (8).jpgdi Gabriele Ottaviani

Ti chiamo ancora amore,

amore,

con la mente assediata dai ricordi

e la bocca impastata di sangue…

Accadimento onirico, Antonio Di Gennaro, Nulla Die. Antonio Di Gennaro ha una voce poetica intensa, piena, calda, appassionata, avvolgente, significativa: i suoi versi non propongono verità assolute, non danno risposte, incarnano il sublime abbandono della preghiera, della ricerca, della speranza di felicità. Questo agilissimo volume è uno scrigno ricco e prezioso. Da leggere.

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Intervista, Libri

Domenico Astuti e il senso di una vita immaginata…

31S454L5ulL._AC_US218_di Gabriele Ottaviani

Domenico Astuti è l’autore dell’intenso Il senso di una vita immaginata: Convenzionali lo intervista per voi.

Da dove nasce questo romanzo?

Un romanzo nasce da tante premesse comunicative, che sono private, pubbliche e appartengono al sogno e alla fantasia.  Ma anche in parte a debiti narrativi minimi e massimi. Il senso di una vita immaginata nasce da questo magma, a volte con pensieri contraddittori e apparentemente poco conciliabili.  E’ un viaggio a vari strati emotivi ed esistenziali fatto con lo stile dell’improvvisazione e in parte anti narrativo.

La sua opera affronta numerosi temi: qual è per lei il significato della libertà?

La libertà in questi tempi è una parola così disossata e dissacrata che sembra alla portata di tutti come se  ci trovassimo in un supermercato. In realtà ha bisogno di continua conquista e anche di distonia quotidiana. La libertà è come l’aria all’alba ma anche faticosissima, per i prezzi che si pagano.

Della memoria?

Bisognerebbe utilizzarla con molta cura e circospezione.

Della famiglia?

Esiste ancora in Occidente. Come scelta o conseguenza ?

Del tempo?

Ma il tempo in fondo non esiste, siamo noi a costruircelo per bisogno di sicurezza o di ribellione.

Dell’amore?

Parola ancora troppo semplice per non essere complessa.

Perché scrive?

Perché si scrive? Per fantasticare, per pensare, per fermare una parte di tempo provvisorio, per fuggire della realtà o forse per comprenderla, per dare un senso a delle vite immaginate o perché è il modo più economico per viaggiare.

Qual è il ruolo dello scrittore nella società?   

In questa società non ci sono reali ruoli, sono solo delle apparenze collettive. Il ruolo dell’artista si è fermato in qualche modo al secolo scorso.

Qual è la situazione culturale italiana? 

La cultura è anche la proiezione della società che la produce (tranne forse che nel Rinascimento), quindi non molto dissimile oggi dalla politica, dalla società dello spettacolo, dal mondo del lavoro.

Quale libro avrebbe voluto scrivere e quale non ha ancora scritto ma scriverà?

Delle pagine di Cèline o di Camus o di Joseph Roth, di Zweig, di Canetti… Che comunque non potrei mai scrivere. Quello che scriverò è ancora nel mio Es.

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“Il senso di una vita immaginata”

31S454L5ulL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Nell’ultimo giorno che trascorremmo a Parigi, mio padre si svegliò di cattivo umore. Mi salutò appena, non rispose quando gli feci una domanda, stava per scendere a colazione senza aspettarmi. Lo chiamai dalla soglia della stanza mentre era immobile davanti alle porte chiuse dell’ascensore; si voltò, ma il suo viso non comunicava nulla. Proprio nulla! Quando ci sedemmo a fare colazione io mangiai il cornetto in silenzio guardando solo il tavolo, avevo timore di guardarlo, lui bevve tre caffè. Sembrava avvertisse una nausea fisica, ma non doveva essere l’esito di un peccato del vivere, tantomeno la conseguenza di un comportamento deliberatamente scelto. Sul suo viso traspariva uno stupore, come se tutti i sentimenti si fossero prosciugati e quello che rimaneva era la sola conoscenza della vita, il suo ricordo senza particolari emozioni. Uscimmo dall’albergo e iniziammo a camminare senza una meta. Mio padre era così chiuso in sé da evitare di guardarsi intorno, penso che mi avesse emotivamente dimenticato anche un po’. In quei momenti niente gli avrebbe dato sollievo, né incontrare un amico né ricevere una bella notizia tantomeno andare a sbattere contro una bella donna. Superammo Place Colette, era vuota, sembrava più ampia e noi più piccoli. Attraversammo tutta rue Saint Honoré, il vento freddo smuoveva tutto e giungeva un odore di plastica, gas di scarico di auto e di cibo fritto. Girammo per rue Royale, chissà perché qui si sentiva l’autunno in tutta la sua malinconia, trasudava dagli alberi, dagli angoli umidi, dalle sedie dei caffè ancora raccolte una sull’altra lungo il marciapiede. Giungemmo ad Avenue des Champs Elysées, muovendoci come due astronauti appena usciti dalla navicella spaziale. La percorremmo tutta nonostante un vento gelido ci schiaffeggiasse e il nevischio sul terreno che ci faceva slittare. Non ho mai visto Parigi così desolata, più che deserta era nuda.

Il senso di una vita immaginata, Domenico Astuti, Nulla die. Stefano è figlio di suo padre. Con cui, figura sfuggente e molteplice, piena di senso e di inquietudine, finalmente, dopo aver per tutta la vita brancolato tentando di sovrapporre le proprie orme a quelle del genitore, di viaggio in viaggio, di passione in passione, di ossessione in ossessione, di dolore in dolore, di gioia in gioia, aprendo brecce nei muri che ha messo tra sé e il mondo per proteggersi confrontandosi con la diversità, è, cinquantenne, arrivato alla necessità di riconciliarsi. È a Parigi – città dove l’autore, che si è laureato in filosofia e si vede lontano un miglio leggendo la sua dottissima e assai raffinata prosa, in cui c’è tutta la concezione bergsoniana del tempo e anche quella nietzschiana della famiglia al suo apice, ha vissuto – per scrivere un romanzo sull’uomo di cui eterna i geni. E le miserie. E… Costruito come un flusso di coscienza, è un suadente apologo sull’amore e la libertà.

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“Romanzo disumano”

romanzo disumanodi Gabriele Ottaviani

Potrei cominciare a eliminare lui, ad esempio.

Romanzo disumano, Alessio Pecoraro, Nulla die. Tutto è reale, e tutto al tempo stesso è assurdo. Dov’è la finzione? Dove risiede il vero? Cosa sta succedendo sul serio? Chi è, nel profondo, la voce che narra la storia, che mantiene viva e salda l’attenzione del lettore? Più che un romanzo, il libro di Alessio Pecoraro, quarantenne catanese dalla fervida inventiva e dalla felice vena, che si esprime in uno scrivere limpido e immediato, è un viaggio in una dimensione onirica e aspramente ironica, l’inseguimento di un acrobata che si muove sul filo tra farsa e dramma, attraverso incontri surreali e rocamboleschi. Interessante e originale.

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“Azza”

arnaldo-de-paolis-azzadi Gabriele Ottaviani

La malattia, solo la malattia, sotto forma di pazzia, potrà salvare sua madre, farla vivere, crearle attorno pareti vellutate di pietà, di commiserazione o, sia pure, di derisione.

Arnaldo De Paolis, Azza, Nulla die. L’azza è un insetto. La cetonia aurata. Sì, proprio lei, la verde cetonia che faceva compagnia a una delle protagoniste della poesia pascoliana nel giardino della Digitale purpurea. Un animale che cerca la libertà. Come tutti. Come il protagonista. Nevio. Che Azza viene chiamato per soprannome da tutta la vita. Una vita che ha passato altrove rispetto al luogo dove è nato, convinto di aver subito un’onta imperdonabile. Ma il dolore del ricordo si fa sempre più forte nella sua prigione metropolitana, il ritorno è inevitabile. Con tutto quel che ne consegue. Fluido, scorrevole, limpido. Da leggere.

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“Nessun titolo”

vincenzio-fiore-nessun-titolodi Gabriele Ottaviani

Quando diventai cardiologo non immaginavo lontanamente che alla mia età sarei finito a intrattenermi in posti squallidi con degli sconosciuti. Eppure eccomi qui. In ogni fase della vita c’è un momento, prima di voltare pagina, in cui si fa il bilancio del periodo e io ho sempre il conto della felicità in rosso.

Vincenzo Fiore è laureato in filosofia. E si vede. Il libro che scrive, infatti, è densamente, profondamente, costitutivamente filosofico. Parte dal particolare per assurgere al generale, combina in continuazione piano reale e mondo ideale, trascendenza e immanenza, il tema della singolarità e quello sempiterno del doppio. De Tommasi è un dottore. Che ha perduto la via. Non si riconosce più. Non ha più una visione del mondo in prospettiva. Poi, un giorno, un incontro sconvolge ogni cosa… Nessun titolo, Nulla die. Interessante.

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“Venticinque paesi cento viaggi”

31dMoIX9RAL._AA160_di Gabriele Ottaviani

A Le Havre mi venivano a prendere il primo giorno, poi la sera mi prestavano la mitica R4 gialla del cantiere (con la sua singolare leva del cambio) per i successivi andirivieni. Ricordo sere e ancora più mattine fredde e nebbiose con gli occhi incollati al parabrezza e alcune soste ristoratrici per un caffè in qualche piccolo e fumoso locale lungo la strada.

Nulla die pubblica, ed è stato selezionato per il Premio Berto, Venticinque paesi cento viaggi di Eugenio Gobbi. Un libro semplice, agile, piacevole. Eugenio Gobbi, anconetano di nascita, ha lavorato per oltre quarant’anni in società internazionali di ingegneria e costruzioni del settore petrolifero e petrolchimico. Ha una scrittura facile a leggersi, e tra un aneddoto e l’altro sembra di essere con lui, come insieme a un amico che ha vissuto molte esperienze, tra l’Italia e l’estero, l’Arabia Saudita, il Canada, la Cecoslovacchia quando ancora si chiamava, come la Iugoslavia, così, la Cina, la Corea del Sud, la Danimarca, l’Egitto, gli Emirati Arabi, la Francia, la Germania, il Giappone, la Grecia, l’India, l’Inghilterra, l’Iran, l’Olanda, la Polonia, il Portogallo, il Qatar, la Russia, la Spagna, la Svezia e gli Stati Uniti dell’alienante ma affascinante Houston e non solo.

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