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“La città dei vivi”

di Gabriele Ottaviani

Piú di una volta Luca mi ha confidato che Marco gli stava antipatico. Era un ragazzo educato, sveglio, molto gentile e umile. Credo che si prostituisse perché aveva bisogno di soldi, non certo per piacere. Piú di una volta mi ha cercato per chiedermi un prestito. Piú di una volta ho esaudito le sue richieste, gli davo dai venti ai trenta euro. A volte mi chiedeva direttamente centocinquanta euro e poi abbassava la pretesa. Lasciava intendere che mi avrebbe ricompensato sul piano sessuale. Spesso diceva che i soldi gli servivano per portare a cena la ragazza. Mi faceva davvero tenerezza, mi ci ero quasi affezionato nonostante l’avessi visto poche volte. Diceva che era molto legato a questa ragazza, credo stessero insieme da quando erano piccoli. Se Marco ha detto che gli prestavo i soldi per paura si sbaglia. Non ho mai avuto paura di Luca Varani. Sí, è vero, credo spacciasse. Già le prime volte che l’ho visto mi ha detto che se avessi voluto trovare della coca migliore di quella che portava Trovajoli, avrei potuto chiedere a lui. Si sarebbe rifornito da un fantomatico tizio che lavorava ne ll’ambiente. Chissà se è vero. Non mi sono mai rivolto a lui per comprare della coca. Ogni tanto Luca veniva accompagnato da questo Filippo. Anche Filippo si è offerto di vendermi della sostanza stupefacente, ho sempre rifiutato. Ho regalato a Luca un Rolex. Un Rolex falso, di mio padre. Lui lo guardava, allora gliel’ho dato. Dai, prendilo, ho fatto. Naturalmente gliel’ho detto che era una patacca. Lui non ha fatto una piega. Secondo me ci posso fare qualche soldo, ha detto. «Ragazzi, io faccio tutto ma sono attivo. Su questo è sempre stato chiaro, – disse Marco Prato al dottor Scavo, – lui poteva penetrare me, io potevo praticare una fellatio a lui, potevo leccarlo dalla testa ai piedi, lui poteva urinarmi addosso, poteva farmi un sacco di cose – il sesso ha delle sfumature infinite – però non l’avrebbe mai preso in bocca, e non si sarebbe fatto mai sodomizzare. Era proprio categorico. Credo che in questo modo tracciasse la linea che separava la sua vita normale dalla sua vita segreta, e conservasse ai propri occhi la sua eterosessualità. Purché il confine tra attività e passività non venisse superato, insomma, Luca poteva continuare a frequentare la sua ragazza da eterosessuale».

Poteva capitare a chiunque, una sera, di incontrare uno di loro in un locale qualsiasi, magari per un evento da lui organizzato. Poteva capitare a chiunque di fare due chiacchiere, di scambiarsi il numero, di chattare, di vedersi. Poteva capitare a chiunque persino di finire a letto, anche se si è sempre pensato di essere eterosessuali, anche se va bene tutto basta che non si sappia, basta che non si dica in giro, basta non fare niente da passivo, perché se lo dai vuol dire che comunque sei un uomo, un maschio, che fa il suo dovere, ma se lo prendi… Del resto, il più delle volte sono sposati, quelli che cercano carne fresca e maschile in chat e non solo… Poteva capitare a chiunque di voler fare qualche soldo facile, e di trovarsi in mezzo a un’orgia, o in un mare di guai, o sul tavolo dell’obitorio, per superficialità, per distrazione, per vizio, per impotenza, per la rimozione di una parte di sé che trova sfogo nell’aberrazione perché non si è saputo, potuto, voluto affrontare la questione a viso aperto. Poteva capitare a chiunque, anche a chi non manca niente, perché forse gli manca un tutto che non sa nemmeno definire, per la curiosità di quel che appare proibito. Le cose non capitano sempre agli altri, ai diversi, agli sbagliati, le cose non sono lontane da noi, noi siamo le cose, immersi in un mondo che non ha nulla di iperuranico: è un caso vero di cronaca nerissima quello da cui prende le mosse per tornare trionfalmente sulla scena della narrativa propriamente detta Nicola Lagioia, autore di un’opera al fulmicotone, deflagrante, straziante, ferocemente lirica come Yanagihara e solo pochi altri hanno saputo di recente essere. La città dei vivi, per Einaudi, è un interrogatorio alla soglia della nostra coscienza individuale e collettiva, un’inchiesta incalzante nei meandri del pregiudizio e dell’ambiguità morale, un’immersione totale nella neghittosa banalità del male che avviluppa la nostra società che, sempre più precaria, rabbiosa e invidiosa, anela sopra ogni altra cosa definirsi a gran voce normale: disturbante, solenne e tragica, sublimata pur nel descrivere l’abietto, mai giudicante, necessaria. Da non perdere.

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“La ferocia”

ferocia1di Gabriele Ottaviani

Eccone un altro che non sa stare al posto suo, pensò il custode del circolo tennis riportando lo sguardo sulle linee di gesso che non aveva smesso di tracciare. Il senatore aveva rischiato di trasformare la villa in un’abitazione moderna dietro la facciata liberty. Vittorio era di un altro avviso. Fece ammassare i mobili in giardino. Ordinò di sradicare i marmi sotto cui ricomparvero le mattonelle di graniglia. Ogni volta che sentiva un suono sordo colpendo le pareti con le nocche, il viso gli si illuminava. Via i tramezzi, via i controsoffitti. Gli operai abbattevano un muro dopo l’altro. Gli uomini, si seppe in seguito, arrivavano dal paese in cui era nato anche lui. Si sarebbe trattato di normali braccianti agricoli se i tempi non li avessero lasciati senza lavoro prima che lo imparassero dai padri. Più che disoccupati erano i suoi negri, esseri privi di un passato, fedeli e pronti a tutto. Trascinavano sacchi gonfi di detriti senza concedersi pause, e avrebbero provato a far ruotare una casa a mani nude se Vittorio glielo avesse chiesto, poiché lui e non loro, credevano, conosceva con esattezza il punto toccato il quale si sarebbero schiantati a terra senza più rialzarsi. Vittorio voleva che completassero i lavori in poche settimane. Per risparmiare tempo, una mattina li autorizzò a bruciare sul retro del giardino i mobili che non intendeva riutilizzare. Dopo mezz’ora, un operaio lo raggiunse trafelato. Gesticolava. Sulla faccia un’espressione incredula. Vittorio lo seguì. Poco oltre la linea di confine, alcuni uomini si sbracciavano risentiti. Due erano in polo e calzoncini corti. Indicavano l’alta colonna nera. Il fumo, dopo i campi da tennis, lambiva i gazebo, dove le sdraio erano state abbandonate da signore in costume da bagno che discutevano con le braccia sui fianchi. – Sono desolato. Vi prego di scusarmi. Si esibì in un inchino esagerato. Sorrideva.

Nicola Lagioia è per Einaudi l’autore di La ferocia: un libro perfetto sin dal titolo. Perché il tema del romanzo, il filo conduttore della narrazione, è proprio questa logorante ossessione, questa fame che corrode ogni cosa come una ruggine che nessun prodotto può arrestare, questo dolore che annienta e uccide ogni umanità, quest’angoscia che divora e non conosce perdono né requie. È uno spaccato della società quello che viene descritto, e spaccato forse è proprio il termine più adatto per raccontarlo: perché in realtà ciò che si vede è un’immagine d’insieme frammentata, polverizzata, tanti dettagli che finiscono sommersi e poi, spezzati, si ricompongono, riemergono, riaffiorano, come naufraghi. E naufraghi sono anche i protagonisti del romanzo, individui che non si rendono conto che la terra su cui camminano è destinata a franare. È un romanzo che è un viluppo di segreti, un gorgo che trascina giù tra le righe delle pagine e le secche del mare agitato dei sentimenti, in cui c’è spazio per la sofferenza e la perdita, la complicità e il rifiuto, il riconoscimento e una vagheggiata speranza, l’impossibilità di capire fino a fondo le cose, la vita, le persone, gli altri. E sé.

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