Intervista, Libri

“Di notte sgomitano le crisi”: intervista a Tomas Bassini

9788899815462_0_0_0_0di Gabriele Ottaviani

Quando eravamo portieri di notte: Convenzionali intervista con felicità il suo autore, Tomas Bassini.

Da dove nasce questo romanzo?

Si può dire che è venuto fuori da una crisi, un mio personalissimo buco nero a cui devo dire grazie. Naturalmente una volta pubblicato il libro non appartiene più (o nel del tutto) a chi l’ha scritto, o meglio, il lettore può farsi la sua idea e dare al libro l’interpretazione che preferisce e in questo lo scrittore non ha voce in capitolo, e meno parla meglio è. Ma se mi domanda da dove nasce questo romanzo non posso fare a meno di risponderle che nasce da un fatto prettamente privato che ha un indirizzo e un codice fiscale, forse oggi anche una partita IVA.

Che cosa rappresenta la notte per lei e nell’immaginario collettivo della nostra società?

Nell’immaginario collettivo non saprei ma per quanto mi riguarda è in un certo senso l’ambiente ideale per il buco nero di cui le ho accennato. È di notte che certe crisi riescono a sgomitare e a far la voce grossa, è proprio lì che anche il più piccolo intoppo si trova in una posizione privilegiata che gli permette di guadagnare spazio e tempo, di stratificarsi senza che quasi te ne accorgi, almeno all’inizio, che dopo un po’  sì che te ne accorgi  e non è più possibile tornare indietro, e non c’è quindi da stupirsi se puoi non si riesce a dormire.

Che valenza ricopre l’abbandono?

In questo romanzo ha un ruolo fondamentale. Un po’ come se fosse l’attore principale che non esce mai di scena, e anche quando per sbaglio non c’è, anche solo per un minuto, si finisce comunque per parlare di lui. È il filo conduttore che influenza ogni cosa, in maniera sia negativa che positiva. Non è però da intendersi semplicemente come l’atto di qualcuno che abbandona qualcun altro, e nemmeno come la condizione di chi l’ha subito, ma qualcosa di molto più ampio e duraturo, molto meno occasionale.  L’abbandono in sé può essere un concetto estremamente banale, l’abbiamo provato tutti, e tutti sentendocelo raccontare ci siamo annoiati; quello che mi sembrava più interessante era vedere invece com’è che un individuo può reagire a questo, e soprattutto come questo particolare tipo di resistenza può mantenersi e svilupparsi. Quello che per il protagonista conta non è lo spazio vuoto che un brutto giorno s’è trovato davanti (quello al massimo lo indispettisce) ma ciò che può essere utilizzato per riempirlo. La differenza non la fanno le grandi giornate, dice più o meno Lui, ma tutto ciò che sta fra una grande giornata e quella dopo.

Perché scrive?

Diciamo che non ho trovato niente di meglio da fare. Ma va benissimo così.

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“Quando eravamo portieri di notte”

51A1abrzTkL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Ora dovrebbe essere proprio Lei a spiegarmelo, ecco, mi metto comodo, incrocio le braccia e le permetto di parlare. Vorrei sapere da Lei cosa ci devo fare con questa tappezzeria che ho ereditato, con questo tipo di arredamento che se ne sta qui, tronfio, e non va da nessuna parte. Ho lasciato che disseminasse i suoi ninnoli per tutta la casa e ora, per una puntuale legge del contrappasso, me li ritrovo fra i piedi, infilzati per bene dove dà più fastidio. Diamine, non era così che si doveva mettere la faccenda. Io volevo rimanere fino a vedere quel suo culo ingrossare, farsi cadente e impresentabile; volevo tenerle la testa ogni volta che ce ne sarebbe stato bisogno, quando l’avrei convinta a bere un poco con me, quando non avrebbe retto niente e vomitato tutto; volevo tenerle la testa per le influenze stagionali, quando si sarebbe riempita la pancia di brodini caldi con il dado vegetale, di tisane digestive, drenanti, depurative; volevo rimanere lì comunque andava e fare, per Lei, ogni genere di commissioni; col tempo sarei pure diventato un esperto di tinture per capelli, creme contro la cellulite, cremine contro le rughe e pastiglie per la circolazione; volevo mettermi in fila al supermercato e rimanerci ore e ore a discutere con le cassiere riguardo all’ultima offerta per i soci e per i non soci; avrei fatto la raccolta bollini, ogni raccolta bollini esistente, e sempre le avrei fatto scegliere il regalo. Volevo esserci per qualunque dei suoi denti devitalizzati e incapsulati; volevo esserci per gli ascessi e anche per tutte quelle visite di controllo, quelle tanto generiche e tanto poco necessarie; sarei stato lì a ogni rinnovo della carta d’identità fino al punto di poter ironizzare sulla voce “peso” fortunatamente non menzionata. Oh, non so cosa avrei dato per esserci al momento clou delle emorroidi, per tutte quelle malattie che almeno da fuori fanno ridere, ma anche per quelle che non fanno ridere per niente.

Quando eravamo portieri di notte, Tomas Bassini, Miraggi. Che l’amore è tutto è tutto quel che ne sappiamo. Sappiamo anche che quando nasce un amore ci sembra che finalmente il mondo abbia luce e senso. E viceversa quando finisce nulla ha più valore. Se non il ricordo. La rielaborazione. Riviverlo ancora perché non muoia del tutto, ripercorrerne il sentiero passo dopo passo per capire cosa c’è stato di giusto e soprattutto cosa di sbagliato. E tutto questo è reso ancor più facile se le notti sono lunghe. Tutte uguali. Insonni. Perché non c’è pace quando si lavora, quando si vive dall’altra parte della luna, lì dove si annida un sottobosco di umanità celata ai più. E così lei l’ha lasciato, e lui, complice il vino, si tuffa nel passato. Intenso e coinvolgente.

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“Amore a tiratura limitata”

Amore a tiratura limitatadi Gabriele Ottaviani

Di tutti i muscoli

Allenati

Del mio corpo stanco

Soltanto il cuore

Ancora non riesce

A sollevare

Il peso

Della tua assenza.

Amore a tiratura limitata, Valerio Di Benedetto, Miraggi. Elaborare un distacco, una perdita, il senso della fine di una storia, della condivisione di un sentimento, di un affetto, di un amore, di un tratto di vita, di un’abitudine consolidatasi ormai nel tempo, sedimentatasi tra gli sguardi e il cuore, con gesti e rituali, non è per niente facile. Mai. La scrittura può aiutare. La poesia ancora di più. Perché la dimensione cui allude è altra da quella della prosa, intermedia fra sogno e reale. Con un lessico piano, di immediato impatto emotivo, immagini vivide e forza espressiva esaltata da una semplicità classica che rende le parole universali e subito condivisibili, Valerio Di Benedetto, che ha già dato numerose prove di talento artistico per il tramite della recitazione regala ai lettori di questa raccolta un’umile, umana, sentitissima ed emozionante parentesi sentimentale, senza mai immergersi in un facile sentimentalismo, ma condendo i suoi versi, a volte scabri, a volte dolorosi, sempre pienamente narrativi, col tenero ritratto, osservato da una giusta e consolante distanza, di una vita che, non dimentica del passato, bensì impreziosita da esso, prosegue in cerca di una trionfante e amorosa pienezza.

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“Miraggi”

download (5)di Gabriele Ottaviani

Gli scrittori del gruppo, del quale Lafontaine faceva parte, si richiamavano confusamente, sotto l’aspetto teorico, sia alla tradizione mistica occidentale sia al pensiero di Heidegger e alle sue applicazioni e derivazioni. Essi riservavano un ruolo capitale al silenzio nell’economia sia del mondo sia della letteratura. La scrittura doveva creare al suo interno dei vuoti o delle assenze o delle intermittenze o anche delle lacerazioni che rendessero percepibile quel silenzio essenziale dal quale nascono le parole. “Ascoltare il silenzio”, “interrogare il silenzio”, “raccontare il silenzio” erano formule ricorrenti in un delirio di prolisse e arzigogolate riflessioni dagli effetti involontariamente comici, che tuttavia incantavano gli sprovveduti dentro e fuori l’università. Avevo letto il romanzo di Lafontaine solo a metà e non avevo alcuna intenzione di andare oltre (occorre forse mangiare un intero risotto per sentire se è buono o no?), ma volevo comunque, dato che il caso aveva fatto dello scrittore un mio ospite, formarmi un’idea della sua personalità andando ad ascoltare la lezione per la quale era stato invitato in Italia. Essa fu pubblicizzata tramite un annuncio che recava come logo l’immagine simbolica del silenzio, un fanciullo che si porta l’indice alla bocca, lontana metamorfosi del vecchio dio Arpocrate. Titolo della lezione non poteva che essere: “Al di là delle parole”. Ma era inevitabile pensare che sarebbe stato altrettanto adeguato: “Al di qua delle parole”: il generico e il vacuo offre infatti molte possibilità di articolazione. E perché non “Al di sotto delle parole”? O anche “Al di sopra delle parole”? O ancora “Al margine delle parole”?

Miraggi, Mario Andrea Rigoni, Elliot. C’è chi la insegue tutta la vita e non la raggiunge mai. A qualcun altro invece piove addosso all’improvviso, e ne rimane benedetto per sempre. È la fama. Che molti confondono, specie nel nostro tempo liquido e sempre più mercificato e vacuo, con una sorta di diritto all’esistenza. In realtà, evidentemente, non è così. E non è tutto: non è che la celebrità sia una garanzia di felicità. Anzi, di norma è il contrario. L’esistenza in sé, in effetti, ha difatti degli innati accenti di tragicità. Ma per chi sente di essere ai margini del suo stesso vivere è ancora più drammatico non esistere. Percepire sé medesimi come assenti, inutili, invisibili, immeritevoli dell’amore degli altri, della stima, della considerazione, della partecipazione, dell’empatia, della tenerezza. Essere riconoscibili e riconosciuti, strappare con le unghie e i denti qualche scintillante scaglia di pulviscolo d’immortalità, garantita dal proseguimento della vita nel ricordo di chi resta, e non solo, è per molti indispensabile. Lo è, per esempio, per i protagonisti dei racconti, uno più bello dell’altro, di Rigoni, che cercano sempre di raggiungere ciò che loro sfugge, figure umane caratterizzate con tinte tenui e dettagli raffinatissimi, che generano immedesimazione e comunione, anche se il disincanto, l’ironia, lo sguardo disilluso nei confronti delle piccole umane miserie che ognuno prova e che ci rendono fratelli come forse solo la memoria condivisa, e molto più di tanti altri valori, non mancano nella prosa elegante che fa di questa antologia uno scrigno prezioso.

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“Quello che dice una cameriera”

download (10).jpegdi Gabriele Ottaviani

La cosa stupida

è amare te…

Quello che dice una cameriera, Nicola Manuppelli, Miraggi. Grazie a lui il pubblico italiano conosce autori come, per esempio, Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault e Don Robertson. E già questo è oggettivamente molto più di quanto serva per guadagnarsi un bel posto in paradiso. Ma Nicola Manuppelli con ogni evidenza non vuole lasciare nulla al caso, e siccome ha talento esprime la sua propria personale sensibilità in vario modo, nella fattispecie con delle vividissime narrazioni, veri e propri racconti, o meglio brevi romanzi, in versi, storie che sembrano quadri di Hopper o rapide e liquide pennellate impressioniste, frammenti polimaterici di discorsi amorosi e non solo, spaccati di vite in cui ognuno può riflettere qualcosa di sé, di chi conosce, di chi ama, di chi, con tenerezza e un flebile rimpianto, ricorda. Leggendo le sue poesie, connesse tra di loro da diversi temi e da numerosi rimandi e riferimenti, sembra quasi di vedere Elvis aggirarsi nella Bassa a bordo di una Cadillac decappottabile rosa confetto mentre carica Arbasino, Kerouac e Luigi Tenco che, lungo la solita strada bianca come il sale, attendono col pollice alzato e i capelli al vento che qualcuno si fermi e faccia come Manuppelli col lettore. Li prenda con sé e li conduca in un bellissimo viaggio.

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“Non disturbare”

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Sono in pausa pranzo. Ho davanti ai miei occhi un piatto di prosciutto crudo e mozzarella di bufala. Non che sia importante per il racconto cosa stia mangiando ma serve solo a descrivere la scena. C’è anche un bicchiere di vino rosso, un calice per l’esattezza. La cameriera conosce il mio amore per gli alcolici e me lo ha riempito così tanto che è parecchio pesante. È tardi per mangiare, o almeno per i canoni di Torino, forse per Roma sarebbe presto ma siamo nel capoluogo del Piemonte e non nella capitale d’Italia, quindi è tardi. La coppia seduta al mio fianco è molto affiatata, si tengono per mano e si guardano negli occhi come due che hanno scopato la sera prima, oppure poco fa. Ma non glielo chiedo perché non è educazione. C’è un’altra coppia, lui anziano con capelli e baffi bianchi e una tosse catarrosa che non è il massimo durante i pasti, lei capelli bianchi raccolti in una coda di cavallo, loro non scoperanno dal 1987. Ma non lo domando neanche a loro. Litigano su tutto, a lei non va bene nulla di quello che fa lui e lui tra un colpo di tosse e l’altro cerca solo di sopravvivere. Parlano in piemontese stretto. Lui vuole andarsene da quando è entrato, lei no. Arriva anche un cane che mi guarda con occhi simpatici ma non mi dice nulla, tra l’altro i cani non sanno parlare. Tranne Pippo e qualcun altro. Ma questo non è Pippo, non conosco il suo nome e lui non me lo dice. Ho finito di mangiare. Ordino un caffè. Lo bevo, pago e me ne vado. Fuori piove a dirotto e non c’è neppure un cane con cui parlare.

Non disturbare, Claudio Marinaccio, Miraggi. Chi è uno scrittore? Con ogni probabilità ciascuno di noi ha la sua personale risposta a questa domanda, ammesso e non concesso che se la sia mai posta. Uno scrittore è qualcuno capace di raccontare, di parlare, di entrare in confidenza con te che sei dall’altra parte del libro e di portarti a fare un giro. Una passeggiata, come due vecchi amici. Ti prende per mano, o sottobraccio, e ti sembra sempre che dica di te anche quando narra di cose che non conosci, e che con te non c’entrano niente. Soprattutto, sembra sempre che ti ascolti, che abbia le parole giuste al momento giusto, che sappia dire esattamente quello che vorresti dire in quel preciso istante, in quella determinata situazione, che ti si palesa dinnanzi sorprendente come una piantina che spunta nell’asfalto, e tu ti chiedi come possa fiorire, visto che terra non pare esserci, mentre stai correndo chissà dove, dato che la vita, e ormai sempre più, sembra essere diventata spesso poco altro che non una frettolosa e continua maratona non per andare da A a B, ma per non ruzzolare all’indietro come quando sbagli passo sul tapis roulant della palestra, per non perdere il poco che hai, che ti sei guadagnato. Claudio Marinaccio è senza dubbio uno scrittore. Bravo, bravissimo. Perché ha il tocco dell’artista. Con pochi cenni riesce a tratteggiare ritratti di rara precisione: il contesto che racconta in questo diario illustrato è quello che appartiene a buona parte della nostra collettività, un mosaico di persone che ormai sembrano tutte essersi assuefatte alla constatazione che ciò che nasce come una scelta, ossia la volontà di comunicare, è ormai diventato un obbligo, per opporsi al quale può essere necessario persino un registro. I quotidiani assilli e la malinconia di chi cerca un angolo per sé, di chi non vuole né disturbare né essere disturbato, ma semplicemente poter guardare il mondo a modo suo, viverlo come meglio crede, con delicata e umana irriverenza e il tono dolcemente esilarante di un ironico e mai supponente cabaret, sono i protagonisti di questo discorso di limpida armonia composto di luminosi frammenti, fra satira ed elegia.

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“Se solo fossimo altrove”

Se-solo-fossimo-altrove-Romina-Carrisi-cover-libro-2016-11di Gabriele Ottaviani

Persino le nostre ombre s’ameranno

ballando su tetti innevati

di vite solitarie.

I tuoi specchi riflettono

le mie fragili forze

mentre le mie mani

sfiorano i tuoi perfetti difetti.

Tra nuvole e sogni

si toccheranno

ridendo della carne

confinata nei suoi ridicoli dettagli.

Se solo fossimo altrove, Romina Carrisi, Miraggi. Settantanove poesie, varie per lunghezza, metro, atmosfera, unite da un comune denominatore: l’amore. Che davvero, verrebbe da dire, muove il sole e le altre stelle. Oltre a dare senso alla vita, a ogni cosa, anche la più piccola. Si può scegliere di amare per ripicca a un’indifferenza cattiva e immotivata (Ti punisco), si può innamorarsi del proprio cuore, come rifugio nei confronti di uno squallore fatto di attese che la pasta non sia più mangiabile, fra guanti di gomma e sigarette, e di tradimenti banali, si può decidere di scrivere un Testamento (parola forte, soprattutto se proclamata da una ragazza così giovane) che in realtà non è il messaggio della fine, ma la testimonianza di un nuovo inizio. Una raccolta che ha un dono e fa un dono ai suoi lettori: una grandissima grazia pacificatrice.

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Intervista, Libri

“Se solo fossimo altrove”: intervista a Romina Carrisi

file.jpgdi Gabriele Ottaviani

Di gentilezza, dolcezza e sensibilità innate, che traspaiono sin dalla voce cristallina e si riverberano nei suoi scritti, semplici, umili, delicati, sinceri, Romina Carrisi è autrice della raccolta di poesie Se solo fossimo altrove, edita da Miraggi: Convenzionali ha avuto il grande piacere di intervistarla.

I temi principali sono quelli dell’amore e della perdita: come mai questa scelta?

Perché l’amore è il sentimento più importante che c’è, è tutto, è assolutamente indispensabile, e quando lo perdi ti senti come se avessi perso ogni cosa. La poesia probabilmente nasce sempre dalla sofferenza d’amore, e amore e perdita sono legati, come tutti gli opposti, come la coppia e la solitudine, che quando scrivi certe volte ricerchi, anche se ti fa stare male.

Solitudine che viene descritta anche in un componimento come unica compagnia.

Sì, spesso è così. Come si suol dire ciò che ti nutre ti distrugge, e viceversa.

Ci sono anche altre tematiche nei componimenti: l’infanzia, il passato, l’innocenza. In particolare molto tenera è l’immagine delle “trecce storte” nella poesia Ventimila mezzanotti fa: come è nata?

Da un ricordo di un albero che avevamo in campagna in Puglia, in mezzo a un sentiero: è sbocciata per caso. E per quanto riguarda le trecce storte… beh, è nell’imperfezione che sta lo speciale!

Molte poesie sono strutturate come un dialogo diretto, ma altre volte, come in Tornò o nell’Essenziale, si nota l’uso della terza persona: come mai?

Bella domanda! (ride) Non saprei, è stata una cosa che mi è venuta spontanea, dal cuore.

Il blocco dello scrittore: come ci si sente quando si pensa di aver perso le parole?

Malissimo. Come quando si perde un amore senza riuscire a capacitarsene, nonostante si sia fatto del proprio meglio. Infatti è proprio in quel modo che ne parlo: ma come, vi ho trattate con così tanto affetto e rispetto e ve ne siete andate via?

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“L’estremamente magico”

l'estremamente magicodi Gabriele Ottaviani

Il tempo passa e non lascia perdere.

L’estremamente magico, Rolando Alberti, Miraggi. Cinquantotto poesie. A cura di Enrico Medda e Guglielmo Fiamma. Scritte da un autore di limpida vena, che racconta la vita in versi, classici e insieme modernissimi. Tutta la vita. Senza veli. Senza remore. Senza pudori né filtri. Senza timore della verità che la sua sensibilità gli suggerisce. La sua visione del mondo, delle cose, dell’amore. Un autore che è nato nel millenovecentosettantuno a Forno. Che è un piccolo paese della Valle del Frigido, nel cuore della catena montuosa delle Alpi Apuane. Dove ancora vive e lavora. Come pastore. Come suo padre. In una terra fertile di suggestioni, condensate nell’antologia sin dal suo immaginifico titolo, dove la tradizione del racconto come esperienza comunitaria, dell’improvvisazione, della condivisione di versi è una usanza consolidata che rimanda ai sentimenti più diretti. Più che un libro un incontro senza eguali. Ed è un vero piacere fare la conoscenza di Alberti. Oltre che un’opportunità. Da non lasciarsi sfuggire.

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