Recensione a cura di Giacomo De Marzi, già professore di Storia Moderna all’Università di Urbino, autore di saggi su Piero Gobetti e Benedetto Croce, su Adolfo Omodeo, sulla Restaurazione in Francia, sulla cultura nel periodo fascista.
Ma non è un libro “ermetico”! Anzi, mostra la sua natura di libro aperto, chiarissimo e se non proprio di facile lettura, certo di lettura piacevole per chiunque ami rendersi conto di speciali problemi sulla storia della cultura e della poesia …. oppure è un libro “ermetico”? Sono versi, quelli di Piu, legati alla tradizione poetica, per evidenti legami con Fortini, con Montale, con Pasolini, con il carissimo “compagno di passeggiate viareggine” Giorgio Caproni, ma anche versi che «se ne distaccano e vanno oltre …. Il linguaggio a volte è da decifrare». Difficile (e non so quanto utile), trovare norme fisse e stabili per reperire una collocazione che sia definitiva, o andare alla ricerca di una definizione …. anche se a qualcuno si potrebbero confondere le carte in tavola. In effetti l’“ermetismo” è «la tendenza della letteratura italiana contemporanea, che intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che tanto vale in quanto riesce ad esprimere l’intuizione lirica nella sua originaria purezza, senza l’intervento di preoccupazioni razionalistiche, strutturali, tecniche, metriche, senza l’introduzione di motivi logici, narrativi, esplicativi, senza alcun nesso di socialità, di tradizione, di cultura, e affidandosi interamente alla suggestione fonica della materia verbale…»: quasi … quasi …
Per cui ancora una volta si rendono necessari l’intervento di Croce e la sua critica della dottrina dei generi letterari, della loro produzione ed evoluzione, delle storie e delle storture, dell’uso e della impossibilità di determinarli: «Basta accennare, in esempio, al continuo impaccio da essa posto ai poeti e agli scrittori con l’inibire l’uso di certe parole perché forestiere, dialettali, di nuovo conio e insomma non registrate nei vocabolari e di certe flessioni di parole, perché non accolte nelle morfologie e nelle sintassi e di certe forme di dramma e di commedia o di lirica perché contrastanti coi generi ammessi e con le forme a questi assegnate. Né con ciò si veniva soltanto a calunniare e a screditare opere belle, ma si affliggevano le coscienze degli stessi scrittori e poeti…».
In questo caso si tratta di un libro che soggiorna fuori da ogni classificazione ufficiale, libro dalla vera ispirazione nel quale persino l’ironia gioca su motivi profondamente umani. Difficile anche per un lettore esperto riuscire a discernere il vivo e, se c’è, il men vivo … che non c’è! La Prefazione di Tripodi, di fronte al dilagare di una eccessiva specializzazione delle produzioni, che solo raramente divengono cultura poetica, mostra come «2000 versi allineati a sinistra e articolati a destra negli ondeggiamenti frattali del verso libero», acquisiscano un valore di rottura, offrendo inoltre un piacevole quadro d’insieme. Mano a mano che si prosegue nella lettura, si viene scoprendo il difficile gusto elitario dell’Autore, raro poeta di istinto, pronto al continuo richiamo che gli viene dall’intimo. In questo caso una maggiore ricchezza giunge non solo dal riferimento critico, ma anche da un approfondimento linguistico.
L’evidenza di questo lavoro nasce proprio dalla singolarità del suo linguaggio, così come le immagini hanno buona riuscita per l’effetto della sorpresa causata dal contenuto originale, originalissimo, laddove l’incanto nasce dalla materia, inaudita, e dalla qualità dell’espressione. Sono immagini sorprendenti e di indubbia ricchezza, conversazioni forse ingrandite dalla preoccupazione di rinnovare il linguaggio poetico e dalla necessità di dargli un contenuto non banale (Mi accorgo di fare ricorso troppo spesso ai puntini di sospensione. Ora non è che si vogliano bandire; molti scrittori li sanno adoperare benissimo con fare allusivo, intelligente e furbesco, per altri sono solo segni grafici piuttosto inconcludenti; sarà sufficiente, allora, armarsi di una buona educazione letteraria che ne giustifichi la presenza ed il buon uso).
Gianni Piu: liceo prestigioso a Sassari, laurea in filosofia, insegnante, sindaco, amministratore comunale; Tripodi parla di un suo «sardismo filtrato attraverso l’esperienza gramsciana». L’isolamento insulare potrebbe aver contribuito a proteggere Piu da tentazioni di sbandamenti e di avventure. Può darsi. Basta, però, che non si parli di «folclorismo», brutta parola che in arte e in antropologia culturale è venuta assumendo significato ancora più brutto. L’ambiente, i costumi, le usanze del popolo sardo non sono un pretesto, ma un sentimento assai vasto e profondo. È indiscutibile il profondo interesse che presenta, in materia, l’opera di Piu, che tenta, felicemente, una via ben diversa da quella seguita dalla poesia paludata, ma pur non avvantaggiandosi della presenza dei larghi, malinconici, gioiosi, sorridenti ritmi, dei dolci e usuali versi amorosi e facendo mostra, piuttosto, di una forma costante di dolore e di malinconia, intenerisce e dona una ebbrezza all’anima del lettore.
«Gianni, poeta di lotta e di governo»: a volte gli ossimori sono utili! Ora tengo d’occhio il nome di Piu con maggiore attenzione, operazione necessaria per il sottoscritto che non avanza di un solo metro senza aver avuto il necessario consenso di Croce e senza aver consultato il pensiero del filosofo sulla poesia …. Ma questo libro mi ha catturato in toto, ha superato la lezione di don Benedetto, per cui mi si perdonerà se non insisto con la sua presenza risolutrice, oltre tutto gli sarebbe sicuramente piaciuto … Tutto ciò per mettere in chiaro la reale difficoltà che il sottoscritto, sostenitore della concretezza del fatto storico, ha trovato nell’addentrarsi nel bellissimo pandemonio poetico di Piu … qualche illuminata invenzione vocabolariesca si è resa necessaria e quasi sempre è giunta ad ingioiellare il testo, ad operare abbellimenti intorno alle parole.
In questi versi non si porge orecchio alla tradizionale poesia d’amore, all’attrattiva verso la natura vergine e men che meno alla rima convenzionale. Insomma il poeta non è interessato al lembo di cielo che si scopre levando l’occhio dalla pagina, non lo rallegra un’apertura di verde campagna. Le sue sono rime varie d’interesse e di valore, ma prive dei lieti abbandoni comuni al formalismo poetico: chiunque cercasse riferimenti all’avvicendarsi delle stagioni, ai pleniluni, alle albe e ai tramonti, alle montagne, all’arcadia, all’ebbrezza della leggera felicità della natura, resterebbe deluso: non li si cerchi in questo libro, dove piuttosto si trova l’insolito accostamento Moana Pozzi/Popper che entrano ambedue a far parte di una galleria di mostri/morali.
Ma qui trovo anche l’haiku e con saccenteria tutta professorale, recito la definizione di componimento poetico giapponese di 17 sillabe, di tono lirico e contemplativo, ed allora inserisco Piu in un elenco virtuale, insieme con Calvino (… se sapessi il giapponese mi basterebbe descrivere questa scena in tre versi di 17 sillabe in tutto e avrei fatto un haiku….) con Arbasino (…. Le 17 sillabe della composizione poetica più illustre, l’haiku …..) con la Cederna ( …. Gli ospiti saranno appassionate declamatrici di haiku, poesie di 17 sillabe, non una di più, non una di meno ….) in opere da smontare e quindi rimontare con lo stesso materiale del medesimo autore, ma con un significato diverso …
Di fronte a composizioni dal verso libero, ancora non è stata abbastanza avvertita la vanità della odierna critica sillabica della poesia, intesa a rendere difficile il facile, arcano e oscuro il chiarissimo. E risultato n’è l’inaridimento. Se scende dalla sua cattedra il dotto ad offrirci endecasillabi, settenari talora sdruccioli, novenari, ottonari, sonetti, strutture, regole, tensioni, non ci resta che scacciarlo lontano … non lo si lascerà svolazzare entro le nostre sillabe … C’è chi coltiva in ombra la propria poesia, a conforto della sua vita raccolta, dei suoi studi e pur frequentando il presente, vive spiritualmente accanto ad alcuna gente del passato, da cui trae incitamento ed esempio all’opera propria. Di siffatti poeti, si va riducendo sempre più il numero, ma ve ne sono ancora … Palazzeschi dà molta importanza al verso libero, dal quale trae estensione che diviene gioco ed ironia, che acquisisce pieghevolezza, levità e rapidità esemplari. Il suo uso è diventato, in pochi anni, se non generale, molto diffuso, sferrando uno scossone alla metrica delle forme chiuse. Già da una prima lettura dei versi di Piu, lo si può riconoscere come esempio di modernismo pensante e certo uno dei più raffinati: in effetti tutto il filo del suo discorso, è tenuto su un piano di pura melodia, pur se non si lascia andare laddove le forme del suo lirismo sono tenute molto a freno. La traccia degli anni apocalittici che ritroviamo nel libro, si viene svolgendo come in certi diari, come in un intreccio musicale, ma senza la crudezza esacerbata di una ferita. Sono poeti che si collocano tra la memoria e l’invenzione, che dal fantastico scendono al ricordo e quindi dal ricordo risalgono al fantastico.
Delle narrazioni poetiche presenti nel libro, quella che serve a svelare l’Autore ed il suo legittimo estro poetico, il suo mondo e il suo tempo, si deve cercare certamente tra le Dediche. La notazione diaristica si avvicenda alla rievocazione, all’ironia, in un intreccio di bizzarrie nel quale Piu è felice di trovarsi. Il suo nitore, la simmetria, la pacatezza hanno molto della presenza del pittoresco: ogni sentimento è dominato, ogni parola è ben disposta, la penna avvolge e riavvolge vite a volte decorose, a volte nascoste da un certo velo di fiabesco. Curiose dediche, piene di semplici analisi complicate, di abbandoni, di affetti, sempre colme di propositi e di ricordi, senza la presenza fuorviante delle reticenze: a volte sembra quasi che siano le persone a lui più vicine a portare turbamenti. E Piu, avendo vasta esperienza d’arte e pratica diretta della letteratura, propone, con grande originalità, dediche in versi. Dopo la lettura, si recepisce un’impressione forte che resta in noi; ecco Peppe calze lunghe … Una cugina squadrata … Angelino …. La scuola elementare … La preside … Piero, storico d’archivio …. Lucia … Salvatore ….. l’amicizia è vista sotto l’aspetto della sensibilità, celebrata calorosamente e posta al centro degli interessi e degli affetti del poeta; sono pagine che rispondono ad una esigenza profonda e che svelano molto del suo atteggiamento verso questo sentimento. Nobiltà e delicatezza suscitano felici pensieri in una lingua schietta, il cui vigore non esclude una certa leggerezza del tocco ed una fresca grazia di innegabile eleganza.
Ma, per caso, Peppe calze lunghe non avrà anche un nome e un cognome? Non sarà colui che «ha ispirato e ispira pensieri ed emozioni»? Avrei dovuto capirlo dal benevolo intento del poeta! Peppe: «umanista multivalente … abbarbicato nelle tradizioni … amico di cultura editore … nell’onestà cristallina del suo fare … nella terra piena di vento di Condofuri … che incendia con la fiamma pura …. portiere in erba …. dagli stracci impreziositi…»: Mi sento di apprezzare anche «Graziana, sempre più impelagata in pedagogiche scaramucce» oppure la «preside Porcu, piccola pensionata, Penelope pervicace…», che pure non conosco. Sta di fatto che mi si para dinanzi una bibliografia di citazioni, purtroppo non goduta pienamente per la non conoscenza degli «eroi», cosa che in nessun modo mi toglierà di mano gli elogi alla perfezione stilistica del poeta. Qui il vero valore di quegli argomenti avanza da solo … senza il bisogno della presenza di un qualche tedioso ammonitore degli errori e delle colpe degli uomini …!
In mezzo a tanta umanità, non è raro il caso di ritrovarsi sorpresi davanti a espressioni nuove, a parole rivelatrici, ad aggettivi per niente dettati dall’abitudine letteraria, ma obbedienti a determinare una persona, una istituzione, un amico, una scuola che così espressi, acquistano il diritto alla presenza poetica. In questa rassegna mi sembra di poter affermare che Piu distingua perfettamente tra l’ingegnosità dell’invenzione letteraria e la potenza della fantasia creatrice: non per niente riesce a dominare i materiali che la sua assai vasta “erudizione” gli offre.
Che cosa significa questo? Che, leggendo Piu, bisogna tener conto di quel complesso di voci che, sicuramente sbagliando e facendo di tutta l’erba un fascio, definisco “minori”. Ed è proprio nell’accostarsi a queste figure “minori”, che si trovano i segni lasciati dalle intenzioni, dalle inclinazioni, arrivando così quietamente al giudizio con quelle forme allusive, a volte piene di finissima malizia. L’arte di Piu è arte raffinata per la varietà d’invenzione con cui rappresenta il suo tema sotto nuovi scorci colti nel vivo, per i personaggi bel delineati, per la leggerezza e insieme per la precisione del tocco, per lo stile per niente semplice ma sempre saporito ed esatto. Fin dall’inizio ci si trova davanti a personaggi aggruppati in atteggiamento tragico, eppure, la tragedia non arriva mai, personaggi senza un terreno sul quale incontrarsi ed urtarsi, la loro tragicità è soltanto lirica. Bisogna riconoscere che Piu presenta dei versi che a volte somigliano ad un gioco di evocazioni, presenti uno spirito ed una vivacità veramente singolari, per non dire preziosi. Egli vuole essere scanzonato e le cose più belle ce le dà dissodando la terra di Sardegna, disseppellendone le memorie.
La seconda parte del libro ci porta verso alcunché di affine, ad un tempo, e di diverso. Ma ora ho imparato a leggere questi versi, quindi ho il piacere di camminare più svelto e così incontro A Zanzotto, i versi onomatopeici del Vecchio pastore, una sorta di delicatezza nelle forti espressioni di Vedove, ed ancora L’insalata di riso sardonico, fino ad un titolo che è un grido di vittoria: Se ne vanno! Gli americani andreottiani se ne vanno! Per lasciare il posto a Sbalestrati, a Messaggio cardiaco (…. Il cuore di Cuccu come cuculo pigola in altro petto ….), verso le poche parole di Emerite, utilizzate per descrivere Cossiga, oppure il dolore che non riposa mai de la Plaza de Mayo fino alla disperazione che si prova per le bombe naziste che nel 1940 “coventrizzarono” la città, risorta in Biblioclastia. È una poesia, quella di Piu, di pura intelligenza, non ci si deve lasciare trarre in inganno da criteri apparentemente difficoltosi (Osanna Bin Leghen). Amori e delusioni, bellezza e sacrifici, affetti domestici, gioie, pene e dolori, amicizia, gratitudine e pietà, lavoro, studio e pensiero, virtù confortatrici e rasserenanti della poesia, senza le angosce del dubbio, del gelo, dello smarrimento, del rimpianto, dello scoramento, ma bellezze della vita e del mondo nei vari tempi, e luoghi, gaudiosi e belli, ritmi sorridenti, perennemente sorretti e percorsi da una magica ironia, da un inconsueto acume di osservazione di ambienti, di cose, di anime, di fatti, di colloqui, presentati al ritmo di una sorridente (scanzonata) poesia.
Tale potrebbe essere una delle diagnosi del poeta che è Piu. Da molte delle sue poesie, apparentemente di una psicologia intellettualistica, balzano personaggi scultorei che, malgrado l’uso di un linguaggio d’avanguardia, si possono racchiudere in una cornice classica, con un vigore e con un rigore storici. Si notano sovranità e necessità dello stile, anzi, del culto dello stile. Qui il poeta sente il bisogno di fermare un poco le sue inquietudini, spogliarle del tempo e dell’ansia, vederle così nel loro segreto. Mi sembra di poter dire che l’animo di Piu sia consegnato in queste pagine che sono la sua ricchezza e la perennità della sua vena. Certo, qualche volta c’è la compiacenza della bella forma, ma un respiro suo c’è e si caratterizza per una continua aura di sogno.
Ho dunque letto un’opera nuova, dettata dal ricordo di occasioni, di incontri, di personaggi che hanno lasciato il segno nell’essere di Piu. Ho riassunto un poco sommariamente, ma penso che pur da questo rapido volo, sia possibile scovare i termini di una interpretazione della poesia e dei suoi aspetti spesso trascurati. Non spetta a me offrire novità, prendo solo nota di una inquietudine che ha travagliato la sensibilità creatrice di Piu. In queste sue felici sollecitazioni della memoria, il lirismo raggiunge timbri di assoluto rilievo, coadiuvato da una vitalità che confligge con l’aridità dei tempi presenti. Ho cercato il segno più alto della poesia di Piu isolando alcune delle sue pagine, distaccandole dal contesto; l’operazione non mi è riuscita, in quanto tutti i suoi messaggi sono in grado di dire e di dare qualcosa all’animo del lettore. L’universo di Piu è fantastico e surrealistico, ma sempre verosimile e vicino ad una realtà accettabile; in quelle pagine è presente una lezione, nemmeno tanto sottintesa, del professore Piu, impartita attraverso una ironia sottile e insinuante, mai amara e grave.
Volendo riassumere, ho incontrato una storia un po’ pensosa, un po’ crepuscolare, dai toni per niente smorzati, dalle aperture intimistiche non sempre velate, nelle quali l’Autore descrive in versi le svolte essenziali di una vita. In presenza delle poesie paludate, quelle che ricevono tanti premi letterari, quelle in cui la rima è sempre perfetta, ebbene, in loro aiuto si possono invocare le stelle brillanti, la primavera col suo tepido risveglio, l’intervento stagionale che risolve ogni problema, che incamera la loro persuasione di appartenere ad una civiltà letteraria che evita di rimettersi in discussione tutti i giorni, che non si nutre di diversità, ma di certezze nel pensiero come nella vita sociale, che segue schemi, regole e quant’altro ecc. … ecc. … ma tutto ciò non risiede qui, non in questo lavoro, come ho già avuto modo di anticipare! Quella di Piu è una storia dei tempi nostri, di un mondo solo apparentemente lontano dalle ingannevoli tentazioni. È presente una ossimorica tecnica audacemente tradizionale con la quale Piu affronta descrizioni e introspezioni.