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“A Roma con Alberto Sordi”

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Il comune senso del pudore è un documento di com’erano certe sale a fine anni Settanta, col pubblico che ricorda un po’ quello del Teatro della Barafonda in Roma di Fellini, e quindi quello del varietà, ma in una declinazione più bassa, più decadente, secondo la visione di Sordi di come si era andato guastando il gusto generale. «Che è la pura verità» ci dice il tassinaro, che ha ascoltato la nostra chiacchierata. «Io ci ho ottant’anni e mo pe’ ride devi esagera’. Prima ti bastava ammiccare, no? Tu facevi ’n’allusione e la gente se spanciava de risate. Ma desso come fai a fa’ ride? È molto difficile. Per quello dico che è più facile fare i drammoni. Te guardi in giro e poi solo piagne. Io l’ho detto a mi moje quanno è morto Alberto: e mo chi ce fa’ ride?». Attraversiamo ponte Sublicio e arriviamo alla Piramide Cestia. La Piramide è inglobata in un altro posto storico di Roma, il cimitero acattolico, dove sono sepolti Keats, Shelley, Gramsci e molti altri. «Dotto’» mi dice il tassinaro, quando smontiamo, «Sordi ci voleva bene a noi tassinari. Ci ha fatto anche due film, se lo ricorda? Perché ce sta’ pure quello de New Yorke. Quindi che ne dice se mi ci mette anche a me nel suo libro?». Lo guardiamo. Ci strizza l’occhio. Somiglia vagamente a Sordi. Anzi, è talmente simile che potrebbe essere lui. «Si può fare» dico. «Ma dove la metto?». «Faccia come quando si parcheggia». «Come?». «’Ndo trova posto, no?». «Ma è un libro su Sordi». «E appunto che glielo dico. Alberto ci voleva bene. E poi era una grande idea raccontare Roma da un taxi, no? Geniale. E il finale? Sordi con Fellini? Non lo so, dotto’, serve quarcosa di questo tipo. Una trovata». Si mette una mano sul mento e riflette. «Tipo che ne dice se scrive che vi accompagno alla Piramide Cestia a farve ’sta bevuta. Proprio come è successo. Scrive che noi tassinari glie volemo un sacco di bene ad Alberto. Nun è bello?». Ci fa la ricevuta. «Grazie, dotto’. Questo è il mio biglietto da visita. In famiglia siamo tutti tassinari, sa? Veniamo da Scandriglia, che è ’na grande tera. Sia mai dovesse farci un libro anche su di noi, dico. Abbiamo un sacco de storie. Tipo…». Ci allontaniamo prima che possa riprendere. Guardo il biglietto da visita. Pietro Marchetti, Taxi Zara 87.

A Roma con Alberto Sordi, Nicola Manuppelli, Giulio Perrone editore. Il quindici di giugno avrebbe compiuto cento anni, ne sarebbero passati venti da quando è stato sindaco di Roma per un giorno, al tempo in cui il primo cittadino era l’attuale presidente dell’ANICA Francesco Rutelli, e chissà che cosa avrebbe detto della pandemia: probabilmente avrebbe guardato, giustamente, certe isterie collettive dall’alto in basso e, pur certamente addolorandosi per chi fosse sottoposto al dolore per la perdita d’una persona cara, allo smarrimento per una straniante e imprevedibile alienazione o all’oppressione dell’ansia per il lavoro e per i conti da pagare, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di prendere in giro, che so, quelli che non hanno mai fatto nemmeno un passo in vita loro, se non tra divano e frigo e viceversa, e ora tutto insieme avevano la smania di correre. Ma ‘ndo annàte?, li avrebbe apostrofati sardonico guardandoli arrancare sudaticci fra le terme di Caracalla e Porta Metronia, è sicuro. Alberto Sordi è la quintessenza di una certa romanità e di una certa italianità (per esempio quella che sognava l’America e cavalcava l’Harley Davidson: quella del film, per la cronaca, apparteneva al cugino del padre dell’autore della presente recensione…), non v’è dubbio, ma è anche molto altro: e Nicola Manuppelli, che ha talento da vendere e da appendere, dà alle stampe un affresco totale e un ritratto minuziosissimo pieno d’amore e intelligenza, da cui non si può assolutamente prescindere.

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“Roma”

511wkaKiNEL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Ma c’erano anche situazioni più complesse, dove gli uomini di Satchmo erano costretti a fare quasi da attori. Volevi vedere il divo in compagnia della determinata diva? Perfetto, bastava mandare una comparsa. – Le migliori sono le donne ricce e coi capelli rossi –, diceva Satchmo. – Le confondi tutte. – Davvero, Satchmo?, – replicava qualcuno. – E come fai con l’altezza? Anche le rosse hanno pur sempre altezze diverse. – Esistono i tacchi. Oppure li fotografiamo seduti.

Per fare tutto questo, Satchmo spesso si serviva di Calabria, che era una specie di trasformista e ogni tanto interpretava anche le parti da donna. Guido Calabria era un giovanotto pallido, smilzo e dai capelli ovviamente rossi, che era venuto dalla Calabria (scherzi del destino!) qualche anno prima per tentare la carriera d’attore, ma gli era andata male. I motivi per cui fosse andata male non erano ben chiari. Si vociferava che fosse troppo pignolo e avesse da discutere con le battute che i registi gli affibbiavano. Altri parlavano della sua omosessualità, che gli aveva messo i bastoni fra le ruote, il che ne faceva un po’ il nostro Montgomery Clift, anche se Satchmo lo riteneva naturalmente superiore a “Monty”.

Roma, Nicola Manuppelli, Miraggi. Federico Fellini, nel millenovecentosettantadue, con Peter Gonzales, Fiona Florence, Britta Barnes, Pia De Doses, Marne Maitland, Renato Giovannoli, Elisa Mainardi, Raout Paule, Galliano Sbarra, Paola Natale, Mario Del Vago, Alfredo Adami, Stefano Mayore, John Francis Lane, Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Gore Vidal e molti altri, realizzò un’opera complessa e articolata, intima e solenne, un malinconico apologo della decadenza e del cupio dissolvi che porta il nome della città più bella e marcescente del globo, Roma. Quella che rivive esaltata nella prosa che non ha bisogno di presentazioni, perché la magnificenza di Nicola Manuppelli in quanto scrittore è nota ed evidente anche a partire dalle sue sempre precise e raffinatissime traduzioni, di un autore che dà impressionante prova di maturità con un libro che un’opera-mondo e che merita assai fortuna. Quella che accoglie tra le pagine di questo romanzo che fa venire nostalgia di epoche mai vissute il giovanissimo Tommaso, aspirante giornalista di belle speranze che finisce a occuparsi di pettegolezzi a Cinecittà, frequenta una ragazza inglese e… Da non perdere. Per nessuna ragione.

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“Quello che dice una cameriera”

download (10).jpegdi Gabriele Ottaviani

La cosa stupida

è amare te…

Quello che dice una cameriera, Nicola Manuppelli, Miraggi. Grazie a lui il pubblico italiano conosce autori come, per esempio, Andre Dubus, Charles Baxter, Jane Urquhart, Roger Rosenblatt, A.B. Guthrie, Sara Taylor, Gina Berriault e Don Robertson. E già questo è oggettivamente molto più di quanto serva per guadagnarsi un bel posto in paradiso. Ma Nicola Manuppelli con ogni evidenza non vuole lasciare nulla al caso, e siccome ha talento esprime la sua propria personale sensibilità in vario modo, nella fattispecie con delle vividissime narrazioni, veri e propri racconti, o meglio brevi romanzi, in versi, storie che sembrano quadri di Hopper o rapide e liquide pennellate impressioniste, frammenti polimaterici di discorsi amorosi e non solo, spaccati di vite in cui ognuno può riflettere qualcosa di sé, di chi conosce, di chi ama, di chi, con tenerezza e un flebile rimpianto, ricorda. Leggendo le sue poesie, connesse tra di loro da diversi temi e da numerosi rimandi e riferimenti, sembra quasi di vedere Elvis aggirarsi nella Bassa a bordo di una Cadillac decappottabile rosa confetto mentre carica Arbasino, Kerouac e Luigi Tenco che, lungo la solita strada bianca come il sale, attendono col pollice alzato e i capelli al vento che qualcuno si fermi e faccia come Manuppelli col lettore. Li prenda con sé e li conduca in un bellissimo viaggio.

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