di Gabriele Ottaviani
Il comune senso del pudore è un documento di com’erano certe sale a fine anni Settanta, col pubblico che ricorda un po’ quello del Teatro della Barafonda in Roma di Fellini, e quindi quello del varietà, ma in una declinazione più bassa, più decadente, secondo la visione di Sordi di come si era andato guastando il gusto generale. «Che è la pura verità» ci dice il tassinaro, che ha ascoltato la nostra chiacchierata. «Io ci ho ottant’anni e mo pe’ ride devi esagera’. Prima ti bastava ammiccare, no? Tu facevi ’n’allusione e la gente se spanciava de risate. Ma desso come fai a fa’ ride? È molto difficile. Per quello dico che è più facile fare i drammoni. Te guardi in giro e poi solo piagne. Io l’ho detto a mi moje quanno è morto Alberto: e mo chi ce fa’ ride?». Attraversiamo ponte Sublicio e arriviamo alla Piramide Cestia. La Piramide è inglobata in un altro posto storico di Roma, il cimitero acattolico, dove sono sepolti Keats, Shelley, Gramsci e molti altri. «Dotto’» mi dice il tassinaro, quando smontiamo, «Sordi ci voleva bene a noi tassinari. Ci ha fatto anche due film, se lo ricorda? Perché ce sta’ pure quello de New Yorke. Quindi che ne dice se mi ci mette anche a me nel suo libro?». Lo guardiamo. Ci strizza l’occhio. Somiglia vagamente a Sordi. Anzi, è talmente simile che potrebbe essere lui. «Si può fare» dico. «Ma dove la metto?». «Faccia come quando si parcheggia». «Come?». «’Ndo trova posto, no?». «Ma è un libro su Sordi». «E appunto che glielo dico. Alberto ci voleva bene. E poi era una grande idea raccontare Roma da un taxi, no? Geniale. E il finale? Sordi con Fellini? Non lo so, dotto’, serve quarcosa di questo tipo. Una trovata». Si mette una mano sul mento e riflette. «Tipo che ne dice se scrive che vi accompagno alla Piramide Cestia a farve ’sta bevuta. Proprio come è successo. Scrive che noi tassinari glie volemo un sacco di bene ad Alberto. Nun è bello?». Ci fa la ricevuta. «Grazie, dotto’. Questo è il mio biglietto da visita. In famiglia siamo tutti tassinari, sa? Veniamo da Scandriglia, che è ’na grande tera. Sia mai dovesse farci un libro anche su di noi, dico. Abbiamo un sacco de storie. Tipo…». Ci allontaniamo prima che possa riprendere. Guardo il biglietto da visita. Pietro Marchetti, Taxi Zara 87.
A Roma con Alberto Sordi, Nicola Manuppelli, Giulio Perrone editore. Il quindici di giugno avrebbe compiuto cento anni, ne sarebbero passati venti da quando è stato sindaco di Roma per un giorno, al tempo in cui il primo cittadino era l’attuale presidente dell’ANICA Francesco Rutelli, e chissà che cosa avrebbe detto della pandemia: probabilmente avrebbe guardato, giustamente, certe isterie collettive dall’alto in basso e, pur certamente addolorandosi per chi fosse sottoposto al dolore per la perdita d’una persona cara, allo smarrimento per una straniante e imprevedibile alienazione o all’oppressione dell’ansia per il lavoro e per i conti da pagare, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di prendere in giro, che so, quelli che non hanno mai fatto nemmeno un passo in vita loro, se non tra divano e frigo e viceversa, e ora tutto insieme avevano la smania di correre. Ma ‘ndo annàte?, li avrebbe apostrofati sardonico guardandoli arrancare sudaticci fra le terme di Caracalla e Porta Metronia, è sicuro. Alberto Sordi è la quintessenza di una certa romanità e di una certa italianità (per esempio quella che sognava l’America e cavalcava l’Harley Davidson: quella del film, per la cronaca, apparteneva al cugino del padre dell’autore della presente recensione…), non v’è dubbio, ma è anche molto altro: e Nicola Manuppelli, che ha talento da vendere e da appendere, dà alle stampe un affresco totale e un ritratto minuziosissimo pieno d’amore e intelligenza, da cui non si può assolutamente prescindere.