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“Mad in Italy”

81iv9rS7D0L._AC_UY218_di Gabriele Ottaviani

I Mondiali di Italia ’90

Dall’8 giugno all’8 luglio del 1990

Sequenza degli spot in onda prima della cerimonia di apertura dei Mondiali di Italia ’90 allo Stadio di San Siro, trasmessa da Rai 2: Miccole ai fiocchi di cereali Mulino Bianco, Jump di Mennen eau de toilette e after shave – in un solo prodotto il profumo e il dopobarba –, poi Crodino («È allegria, è simpatia, è fantasiaaa»), carta igienica colorata Foxy, in giallo, in rosa e anche in azzurro, poi il buio, poi l’annuncio, ed è un annuncio che precisa la stereofonia nelle zone già raggiunte dal segnale. Cominciano dopo una sigla in computer-grafica immortale e le riprese di San Siro dall’elicottero, i Mondiali di Italia ’90. «La scuola del calcio è quella della vita. Dei suoi sentimenti, dei suoi protagonisti, uomini del duemila, ma non marziani.» Non l’ha detto Gianni Brera, bensì Walter Zenga nell’agenda Smemoranda del 1990. Già piuttosto popolare come portiere dell’Inter, Gino e Michele gli avevano chiesto di vaticinare il suo futuro. Zenga immagina così il suo addio al calcio, che profetizza in un – per allora – lontanissimo 2005. Nato nel 1960, milanese di viale Ungheria, Zenga avrebbe dato l’addio al calcio italiano nella stagione 1996-1997, con titoli di coda davvero finali nel New England Revolution tra il 1997 e il 1999 e poi una bella carriera da allenatore e commentatore tv. Il 1990 è l’anno dei Mondiali di calcio in Italia, dove giocano «uomini del duemila, ma non marziani». Le facce  – le nostre e quelle dei giocatori  – sono cambiate. Nella memoria collettiva ci sono ancora quelle del 1982, facce proletarie, povere, di italiani di una volta, secchi, abbastanza bassi, e se pure erano anche ricchi – e lo erano infinitamente meno di un centrocampista di seconda fascia di oggi – si mostravano austeri, dignitosi. I nostri zii, i nostri nonni da giovani. A vent’anni ne dimostravano quaranta, vedi alla voce Giuseppe Bergomi. Tra chi c’era in Spagna e chi c’è adesso, nel 1990, tra l’Olimpico e il Meazza della partita d’esordio, siamo cambiati. Siamo stati qualcosa dal dopoguerra agli anni ottanta, poi abbiamo cominciato a cambiare, a cambiare proprio faccia. In una rappresentativa di calcio di un paese geopoliticamente ed etnicamente stabile, quasi del tutto privo di fenomeni migratori verso l’interno, questa cosa si nota molto. Siamo anche nel 1990, per cui «etnia» è una parola ancora utilizzabile. Negli Azzurri c’è quindi un campione abbastanza rappresentativo di giovani uomini in forma, atleti, bene o male della stessa età, bene o male tutti che arrivano dalla stessa area geografica, tutti bianchi caucasici, nessun nero, nessun asiatico, molti baffi lunghi, pochissime barbe, nessun tatuaggio. Dal 1982 al 1990 hanno proprio cambiato faccia, e anche fisico. Più muscolari, meno striminziti, più forti, pompati da un decennio nel quale un’intera nazione ha vissuto gioiosamente e avventatamente al di sopra delle proprie possibilità. Solo un giocatore conserva ancora le fattezze di un italiano d’altri tempi ed è Totò Schillaci. Grazie a lui, capocannoniere dei Mondiali, l’Italia arriverà alle semifinali, sconfitta in una leggendaria partita al San Paolo di Napoli contro l’Argentina di Maradona. Schillaci, siciliano, palermitano del CEP – Centro edilizia popolare – titolo di studio seconda media, sarà il protagonista del campionato. «Ci sono periodi nella vita di un calciatore nei quali ti riesce tutto. Basta che respiri e la metti dentro. Per me questo stato di grazia è coinciso con quel campionato del mondo» ha raccontato Schillaci al sito Storie di Calcio. Schillaci oggi se lo ricordano tutti soprattutto per i Mondiali di Italia ’90, anche perché, mai troppo amato in Italia dalle dirigenze delle grandi squadre, decise con un anticipo impressionante su ogni fenomeno di globalizzazione pedatoria di trasferirsi a Shizuoka, in Giappone, per concludere la carriera nell’esotica compagine della Jubilo Iwata. Schillaci in Italia era quello dal cui labiale si leggeva «Ti faccio sparare» indirizzato a Fabio Poli, attaccante del Bologna, durante un momento concitato di un Bologna-Juve. I cori dei tifosi avversari suggerivano che Totò rubasse le gomme alle auto lasciandole coi mattoni sotto, reato di cui era stato accusato suo fratello. Meglio un’altra isola dopo la Sicilia, meglio il Giappone. Schillaci ci rimane dal 1994 al 1997, con 86 presenze e 58 reti. (Negli stessi anni c’è anche un altro calciatore che emigra all’estero, anche se nella più vicina Germania, uno che ha la faccia da italiano di un altro tempo: Ruggiero Rizzitelli, a Monaco di Baviera, sponda Bayern dal 1996 al 1998.) Terza e ultima isola nel destino di Totò Schillaci, dopo la Sicilia e il Giappone, quella dei Famosi del 2004. Chissà, magari Totò trovò finalmente la pace lì su quell’isola, tra Rosanna Cancellieri e Aída Yespica, tra Sergio Múñiz e Dj Francesco, tra Valerio Merola e Alessia Merz, a litigare con Kabir Bedi o Antonella Elia. Alla fine vinse il superfluo e bellissimo Sergio Múñiz, uno di quelli che una faccia bella e sincera come quella di Schillaci non ce l’avranno mai.

Mad in Italy – Manuale del trash italiano – 1980-2020, Gabriele Ferraresi, Il saggiatore. Lungi dal trito ritornello per cui si stava meglio quando si stava peggio, c’è da dire una cosa: da un certo punto di vista la narrazione nazionalpopolare dell’Italia nel corso dei decenni è andata via via sempre più scivolando verso il fondo del barile, spostando l’asticella in direzione del deteriore, del corrivo, del pecoreccio, gettando alle ortiche decenni di elzeviri per rincorrere in una gara al ribasso i titoli dei tabloid, che non fanno cultura ma vendono e incassano. Si dice che sia nato tutto con le televisioni commerciali, ma forse quelle non sono state che il piede di porco che ha svelto le convenzioni bacchettone ma gravide di buon gusto che hanno soffocato un istinto già esistente ma poi definitivamente sdoganato: del resto anche negli anni del boom la grande commedia non faceva che stigmatizzare lo squallore. Si è passati però a vantarsene: è questo il problema. Con ritmo annalistico degno di Tacito Ferraresi conduce il lettore nei meandri di una realtà discutibile ma esistente, e di cui ognuno è parte, anche, talvolta, chi apparentemente non solo se ne professa distante, ma manifesta anche una certa sicumera nei confronti del mondo che lo circonda, in cui però si riverberano anche le sue miserie. Da leggere.

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