di Gabriele Ottaviani
Prozia Albania era la più indaffarata ad appostarsi sui terrazzi con la foga di scoprire lumache volanti ed era così persuasiva nei gesti, così cerimoniosa nei ragionamenti da convincere prozio Taddeo e prozio Alfeo a fare altrettanto: sarebbe stato di buon augurio per le nozze se una cometa avesse fatto l’onore di affacciarsi, almeno a dare perdono per la fretta di sposarsi prima di Salutare. «Da questa parte, venite da questa parte» invitava prozia Albania e chiamava a nome le comete: Allei, Rubiconda, Rosamunda. Nessuno fra i clienti si stupiva delle stranezze perché anche questa era casa Bensalem: aurore, pensieri, sogni, attese. Ogni cosa finiva nei mattoni e nella calce, contribuiva a far salire ancora più in alto i muri robusti e vivi come la corteccia degli alberi. E Crocifossi, quando si affacciava a contemplare la costruzione che cresceva, si abbandonava allo stesso sospiro: «Che ne volete fare, la Torre di Babele?» I dubbi di Crocifossi nemmeno arrivavano alle orecchie di prozio Taddeo e prozio Alfeo perché le impalcature si erano fatte lunghe e sottili come trampoli, l’aria confondeva i nervi, dava giramenti di testa. I due fratelli fischiavano senza più soggezione ritornelli d’amore, mentre sistemavano un mattone sull’altro e si lanciavano a tirare carrucole, a sollevare carriole. Sognavano una stagione di galanterie sentimentali, scambi di anelli e di collane. La ebbero: canzoni, appostamenti, ambasciate. Quando tornavano dalle scorribande, ripetevano a squarciagola i nomi delle prescelte: Sinforosa e Cristallina, liquore di mimosa, stoffa di trina… Le avevano ammirate nelle fiere e si erano concertati occhi negli occhi su come fare la prima mossa. Poi arrivò il giorno dei festini e i muri ascoltarono i suoni dei violini nuziali e delle fisarmoniche, ascoltarono il dum dum delle danze che gli invitati eseguivano intorno alle coppie, attenti a non sporcare i veli bianchi delle spose.
Giuseppe Lupo, L’albero di stanze, Marsilio. Sono tanti i discendenti di Redentore Bensalem. Babele è quello con il compito più ingrato: prima della consegna a chi verrà deve svuotare la torre, la casa immensa sviluppatasi in verticale, l’albero di stanze che ha memoria di tutto e non vuole che i ricordi svaniscano. Le pietre parlano, e la loro voce è quella della storia, aggrappata alle tende, annidata negli angoli dei muri e dei cassetti. Anno dopo anno, generazione dopo generazione, suppellettile dopo suppellettile, sedimento dopo sedimento, il labirinto ha moltiplicato le sue giravolte, dal tronco sono gemmati nuovi rami, e la costruzione, simbolo essa stessa della ricerca, utopistica e tenace, della felicità, non si rassegna al silenzio, all’oblio, alla perdita, all’abbandono, alla demolizione. Perché se niente resta niente esiste, nemmeno una pallida eco di questi personaggi che sembrano aver preso direttamente una funicolare da Macondo. Bellissimo.