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“La tana del polpo”

di Gabriele Ottaviani

Con un graffio improvviso visualizzò il volto di Federica…

La tana del polpo, Giorgio Lupo, Augh! Edizioni. Eloquente sin dal nome, parlante come forse solo quelli dei personaggi di Plauto, la figura del protagonista di questo riuscito thriller che si basa sull’inestricabile unione dei contrari: Placido Tellurico è un commissario di polizia tormentato da un passato che lo riporta di continuo a Palermo, da cui pertanto si è fatto trasferire per condurre, in quel di Termini Imerese, ex polo industriale di primissima grandezza nel meridione d’Italia, un’esistenza meno bisognosa d’essere a ogni piè sospinto rasserenata. Non esiste però neghittosa routine che non possa diventare d’improvviso funesta e rocambolesca: quando infatti viene rinvenuto un cadavere senza testa non può né vuole esimersi dall’indagare. E… Mozzafiato.

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“A Praga con Kafka”

di Gabriele Ottaviani

Ma i fantasmi non si mandano via con un’infinita fuga, specie quando assumono la fisionomia della malattia e della morte…

A Praga con Kafka, Giuseppe Lupo, Giulio Perrone editore. Città dal fascino straordinario e variegato, la capitale della Repubblica Ceca è inestricabilmente legata alla figura di Kafka, straordinario intellettuale, formidabile interprete di istanze connaturate e intimamente connesse alla natura umana nel suo complesso, artista preconizzatore di cui conserva numerose vestigia e una grane abbondanza di monumenti, retaggi, eredità: Giuseppe Lupo, con prosa bella e ampia, prende per mano il lettore, lo conduce con sicurezza, gli racconta ogni cosa con chiarezza e dovizia di particolari, lo fa immergere in una laguna di emozioni che conquista e istruisce. Da leggere, rileggere, far leggere.

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“Breve storia del mio silenzio”

81T-w+gNgOL._AC_UY218_ML3_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Tutto era sfumato nell’evanescenza del tempo che poteva essere e non era mai stato.

Breve storia del mio silenzio, Giuseppe Lupo, Marsilio. Quando ha quattro anni nasce sua sorella. E le parole che prima gli sgorgavano fluenti e zampillanti di bocca d’improvviso si arrestano, divengono ostili, anche se poi in realtà, al protagonista di questa storia, serviranno eccome per edificare la propria identità. Del resto l’esistenza è un viaggio, l’infanzia, più che un lasso di tempo, uno spazio cui tornare, un’isola, un nuovo nostalgico approdo, una reminiscenza, una fuga, la percezione d’un’assenza, l’esperienza di un contrario, un lessico familiare fatto di piccole cose, ricordi, imbarazzi, brame e anche silenzi, che possono essere eloquentissimi, malmostosi, timidi, fragili: l’Italia del Novecento è un crogiuolo di emozioni, e Lupo ne regala al lettore tutti i profumi, i colori, i sapori. Magistrale.

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“Hamburg”

Hamburg_Campiello2019-350x486.jpgdi Gabriele Ottaviani

A volte si pente di aver deciso che cosa fare nel caso in cui lui fosse morto. Odia l’idea di diventare superstiziosa, odia la possibilità che un dio possa punirla per ciò che ha pensato. Odia questa assenza imposta dalla storia e dalla stupidità umana.

Hamburg – La sabbia del tempo scomparso, Marco Lupo, Il saggiatore. Fossero tutti così gli esordi il mondo della letteratura sarebbe il giardino delle Esperidi, mentre nella realtà dei fatti bisogna stare molto attenti a separare, come si suol dire, il grano dal loglio: succulenta primizia ricchissima di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione, l’opera avvincente, intensa, coinvolgente, commovente, entusiasmante, trascinante, premiata – con pieno merito, viene da dire con assoluta convinzione leggendola – dalla giuria presieduta da Carlo Nordio e composta pure da Chiara Fenoglio, Philippe Daverio e Roberto Vecchioni col Campiello opera prima (la consegna avverrà il quattordici di settembre a Venezia) scritta dal giovane autore di racconti per il collettivo Terra Nullius, nativo di Heidelberg, città simbolica per eccellenza, ma residente a Torino, dove lavora come libraio alla Luxemburg di via Cesare Battisti, a un tiro di schioppo dal meraviglioso Palazzo Carignano e dal museo egizio, narra di un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto del potere salvifico della bellezza – se ne può parlare ancora dopo la Shoah, si è chiesta la scuola di Francoforte? Sì, pare essere la risposta, purché si sappia farlo: e Lupo lo sa fare, eccome – e della letteratura. Elegantissimo e imprescindibile.

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“Gli anni del nostro incanto”

51kaV4HA+0L._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Vedi la vita?

Gli anni del nostro incanto, Giuseppe Lupo, Marsilio. Il papà fa l’operaio, la mamma fa la parrucchiera, il figlio ha sei anni, la figlia ne deve ancora compiere uno. Sono gli anni del boom. Della motorizzazione di massa. Della Vespa. Della Lambretta. Della 500. Dell’autostrada del Sole. Della bella di Lodi di arbasiniana memoria. Del lavoro che c’è, si trova, per non lavorare non devi averne voglia, non come oggi, che il desiderio c’è, eccome, ma è l’impiego che manca. Della rinascita dopo la guerra. Della ricostruzione. Della speranza. Della lira che vince l’Oscar di miglior moneta del pianeta. Vent’anni dopo è un’altra la vittoria che si sta manifestando, quella dell’Italia ai campionati del mondo, e una figlia, al capezzale della mamma che all’improvviso ha perso i ricordi, riannoda i fili di una stagione passata per il terrorismo, di una parentesi collettiva e individuale punteggiata dai versi delle canzoni di Sanremo. Fa tenerezza e commuove come una vecchia fotografia color di seppia, che ritrae quel che c’è stato e ora non c’è più. Semplicemente meraviglioso.

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“La letteratura al tempo di Adriano Olivetti”

letteratura-olivetti-s.pngdi Gabriele Ottaviani

Far entrare Kafka nei capannoni di un’officina è un esperimento ambizioso e carica la fabbrica di quei motivi che ne trascendono la nozione di tempio destinato esplicitamente alla liturgia del lavoro.

Romanziere e professore associato di Letteratura italiana contemporanea, esperto di letteratura industriale, collaboratore di diverse testate: è Giuseppe Lupo. E se si parla di letteratura e industria non può non venire in mente anche un altro nome. Quello di un uomo che aveva un sogno. Meglio, che immaginava una vera e propria utopia, anche politica. Quello di un uomo che voleva costruire una grande industria. Quello di un uomo che è riuscito a realizzare il suo obiettivo. Quello di un uomo che desiderava che i suoi dipendenti avessero tempo libero da passare con i propri cari o per andare al cinema, per studiare, per acculturarsi. Quello di un uomo che ha dato il là all’edificazione di quella che Le Corbusier ha descritto come la strada più bella del mondo. Via Guglielmo Jervis. A Ivrea. Quello di un uomo che era, e che comunque è, anche se non vive più, Adriano Olivetti. La letteratura al tempo di Adriano Olivetti è un saggio straordinario, non un semplice elenco di nomi illustri (Barolini, Brignetti, Bigiaretti, Ginzburg, Maritain, Giudici, Noventa, Vittorini, Volponi, Calvino, Mastronardi, Sinisgalli, Pampaloni, Pavese, Buzzi, Longobardi, Weil, Fortini, Moravia, Ottieri, Bianciardi, Parise, Mounier, Soavi…) che a loro volta persino tra le altre cose discettano pure su ulteriori numi tutelari dell’arte delle lettere come Joyce, Faulkner e Kafka, ma soprattutto un ritratto vivdissimo, chiaro, completo e riuscito del Novecento. Edizioni di comunità.

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“L’albero di stanze”

LupoALBERO_piattoCanvasdi Gabriele Ottaviani

Prozia Albania era la più indaffarata ad appostarsi sui terrazzi con la foga di scoprire lumache volanti ed era così persuasiva nei gesti, così cerimoniosa nei ragionamenti da convincere prozio Taddeo e prozio Alfeo a fare altrettanto: sarebbe stato di buon augurio per le nozze se una cometa avesse fatto l’onore di affacciarsi, almeno a dare perdono per la fretta di sposarsi prima di Salutare. «Da questa parte, venite da questa parte» invitava prozia Albania e chiamava a nome le comete: Allei, Rubiconda, Rosamunda. Nessuno fra i clienti si stupiva delle stranezze perché anche questa era casa Bensalem: aurore, pensieri, sogni, attese. Ogni cosa finiva nei mattoni e nella calce, contribuiva a far salire ancora più in alto i muri robusti e vivi come la corteccia degli alberi. E Crocifossi, quando si affacciava a contemplare la costruzione che cresceva, si abbandonava allo stesso sospiro: «Che ne volete fare, la Torre di Babele?» I dubbi di Crocifossi nemmeno arrivavano alle orecchie di prozio Taddeo e prozio Alfeo perché le impalcature si erano fatte lunghe e sottili come trampoli, l’aria confondeva i nervi, dava giramenti di testa. I due fratelli fischiavano senza più soggezione ritornelli d’amore, mentre sistemavano un mattone sull’altro e si lanciavano a tirare carrucole, a sollevare carriole. Sognavano una stagione di galanterie sentimentali, scambi di anelli e di collane. La ebbero: canzoni, appostamenti, ambasciate. Quando tornavano dalle scorribande, ripetevano a squarciagola i nomi delle prescelte: Sinforosa e Cristallina, liquore di mimosa, stoffa di trina… Le avevano ammirate nelle fiere e si erano concertati occhi negli occhi su come fare la prima mossa. Poi arrivò il giorno dei festini e i muri ascoltarono i suoni dei violini nuziali e delle fisarmoniche, ascoltarono il dum dum delle danze che gli invitati eseguivano intorno alle coppie, attenti a non sporcare i veli bianchi delle spose.

Giuseppe Lupo, L’albero di stanze, Marsilio. Sono tanti i discendenti di Redentore Bensalem. Babele è quello con il compito più ingrato: prima della consegna a chi verrà deve svuotare la torre, la casa immensa sviluppatasi in verticale, l’albero di stanze che ha memoria di tutto e non vuole che i ricordi svaniscano. Le pietre parlano, e la loro voce è quella della storia, aggrappata alle tende, annidata negli angoli dei muri e dei cassetti. Anno dopo anno, generazione dopo generazione, suppellettile dopo suppellettile, sedimento dopo sedimento, il labirinto ha moltiplicato le sue giravolte, dal tronco sono gemmati nuovi rami, e la costruzione, simbolo essa stessa della ricerca, utopistica e tenace, della felicità, non si rassegna al silenzio, all’oblio, alla perdita, all’abbandono, alla demolizione. Perché se niente resta niente esiste, nemmeno una pallida eco di questi personaggi che sembrano aver preso direttamente una funicolare da Macondo. Bellissimo.

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