di Gabriele Ottaviani
Avevano traslocato in un giorno di pioggia di novembre, soli, loro due, approfittando del pisolino pomeridiano di Mara, facevano su e giù per i due isolati che dividevano casa di Carla dalla loro, mesti, senza parlarsi, gli occhi bassi, la pioggia ora cadeva a gocce grosse e dure sulla testa e sui cartoni. Rosa portava quelli leggeri, Nicola i più pesanti. Quando fu il turno di portare la piantana che Carla aveva regalato a Nicola sperando che un giorno si mettesse a studiare, a Rosa mancarono le forze. La lasciò cadere – eppure era così leggera – e quella rotolò in mezzo alla strada. Nicola si spaventò per sua sorella, lasciò il cartone che aveva in mano, gocce grosse di pioggia e gocce di sudore. Fece per andare a recuperare la piantana, ma poi guardò Rosa, e si fermò. I due fratelli si guardarono. La piantana giaceva in mezzo a via Prenestina. Rimasero fermi, Nicola e Rosa, sotto la pioggia, le mani in mano, finché passò un camion che non vide la piantana, ci passò sopra, la travolse, e la oltrepassò. La piantana si spezzò in più punti, in schiocchi ripetuti. Solo allora, senza nemmeno farsi un cenno, i cartoni ormai zuppi di pioggia che minacciavano di sfilacciarsi da un momento all’altro, i due fratelli ripresero il trasloco, avanti e indietro da casa loro a casa della madre. «Che cazzo stai a di’», Nicola sbatté un pugno sul tavolo su cui tante volte avevano mangiato insieme, Carla, Nicola, Rosa, Mara. Quella era la casa dove viveva la loro madre prima di uccidere il loro padre, e due piani più su c’era la casa del delitto. Prima che Rosa, Nicola e Mara si trasferissero a casa della madre, lì dentro non entrava più nessuno da mesi, nessuno di umano, pensava Rosa, nessuno di naturale, nessuno che non fosse la polizia, la scientifica. «Con quelli di Massafra non dobbiamo avere più contatti, hai capito Rosa?» Nicola si avvicinò, la guardò con odio, e lei era di spalle, spense la fiamma, guardò il merluzzo morto, pronto per essere divorato. «Oh. Hai capito?», e la girò verso di sé. «Chi cazzo ti credi di essere?», lei aveva occhi allargati e gonfi, spingevano fuori dalle orbite, e il merluzzo come al solito era secco e molle, immangiabile, Rosa non sapeva cucinare, «Metti giù queste cazzo di mani. Mara è mia sorella tanto quanto tua, e io non sono tua figlia né tua moglie né la tua schiava. Tu decidi per te, io per me», e le si riempirono gli occhi di lacrime. Nicola le strinse forte il braccio, pieno di rabbia, e intanto: Rosa, pensava Nicola, Rosinella mia, piccola piccola Rosinella mia. «Ma per Mara decidiamo tutti e due» disse, abbassò gli occhi, e lasciò la presa. E poi si sentì un sospiro di Mara nel sonno, e sembrò di essere tornati all’altra dimensione, quella in cui erano ancora tutti vivi. «Scusami» disse Nicola a Rosa, «scusami, non so cosa mi è preso. Dài, cucino io.» Rosa gli sorrise (c’era un’eco di sua madre in lei? Era una donna mite, incapace di vivere da sola, come lei? No, sono diversissima da lei, solo che cosa vuoi rispondere a Nicola adesso, a dargli addosso ti si spezza il cuore). «Hai ragione» disse, «per Mara decidiamo insieme. Mi piacerebbe che decidessimo tutto insieme, anche per noi due. Io non voglio stare senza di te, Nicola.»
Una storia nera, Antonella Lattanzi, Mondadori. Tradotto in più di dieci paesi, avrà con ogni probabilità una trasposizione cinematografica, dato che Lucky Red ne ha acquistato i diritti: del resto, la mossa strategica della casa di produzione e distribuzione cinematografica indipendente di Andrea Occhipinti, una delle realtà senza dubbio più interessanti, importanti e prestigiose del panorama italiano sin dall’anno della sua fondazione, ossia il millenovecentoottantasette, pare più che vincente, visto che si tratta di un libro dalla tessitura solidissima, dal ritmo coinvolgente, potente e articolato, costruito – verrebbe da dire montato, proprio come si sosterrebbe in merito a una pellicola – con intelligenza e senza mai dare l’impressione di respingente artificiosità. Cosa poi ancora più importante, non vi è traccia di retorica: in nulla questa prosa metallica, scabra, vivida appare manichea, fredda, moralista, benché vi sia, eccome, una morale, profondissima e molto più che forte. Fa riflettere, interrogare, scavare nell’anima questo romanzo in cui nulla è come sembra, in cui il torto e la ragione non stanno mai solo da una parte, e nel quale a ogni volgere di pagina si penetra un po’ di più in un labirinto di emozioni destabilizzanti e di rara e magnifica ambiguità. Antonella Lattanzi dà prova di saper gestire come meglio non si potrebbe, con l’agilità di un acrobata e l’immaginazione di un inventore visionario e coraggioso, le possibilità che fornisce la letteratura: è un giallo, un noir, un thriller, una storia d’amore. È agosto. È il duemiladodici. Siamo a Roma. Vito è scomparso. È un uomo. Ha tre figli. Ha una moglie da cui si è da un po’ di tempo separato. È stato il suo grande amore, e lo stesso lei per lui. È stato un marito violento. È un disperso che adesso tutti cercano. Carla. Mara. Nicola. Rosa. L’altra famiglia, nascosta. I colleghi. La sorella e il padre, a Massafra, nel Tarantino. I loro amici. La polizia. Perché la verità è un obbligo. Ma siamo proprio sicuri di essere disposti ad accettarla, sempre e comunque, qualsiasi essa sia?