di Gabriele Ottaviani
Non provare nemmeno a dispiacerti per me. Sarò io a seppellirti.
L’arte della vittoria, Phil Knight. Titolo trionfalistico, in italiano, nella bella edizione Mondadori tradotta da G. Lupi, L. Tasso e G. Zucca. Shoe dog, l’originale, in tutta onestà è molto più divertente. Ma in effetti funziona comunque. Vittoria. L’obiettivo degli obiettivi. Perché partecipare è bello, ma vincere, specie se lealmente, e contro un avversario ostico, dà una gran soddisfazione, è innegabile. Barone De Coubertin, ci appelliamo alla sua clemenza e alla comprensione delle umane virtù che di certo manifesta anche dall’alto dei cieli, o dovunque si trovi. Vittoria, si diceva. In greco, a Samotracia e non solo, è Nike. Se la pronunci all’anglofona, la i diventa ai. Ed è subito multinazionale. Un marchio che è un messaggio. Un simbolo. Un’idea. Un baffo. Una storia. La rappresentazione reale e realistica di un percorso di vita e imprenditoriale che riproduce pienamente e alla perfezione la Weltanschauung dell’uomo che si fa da solo, lavora, lavora, lavora, ha intelligenza e coraggio e alla fine diventa uno che dà lavoro, oltre che farlo. Certo, è l’autobiografia del riccone filantropo, convinto sostenitore del reinvestimento delle ricchezze, in contrasto col compulsivo e sterile accumulo, quindi è chiaro che sugli aspetti meno brillanti, come le accuse di sfruttamento della manodopera nei paesi più poveri del mondo, o più dolorosi, come la tragica perdita del figlio, glissi con l’invidiabile agilità di qualcuno che indossi le sue pregiate scarpe sportive per fare i centodieci ostacoli, ma è un libro comunque interessante, semplice, compiuto, ben scritto, piacevole, divertente, che incuriosisce, fa da pungolo e sprone.