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“I ricordi di una signora meravigliosa”: parla la mecenate del Bloomsbury Group

I ricordi di una signora meravigliosadi Erminio Fischetti

La classe non si dimostra solamente con l’eleganza e l’educazione impartita, ma anche dalla capacità di saper presagire il genio e condividere l’intelligenza e le idee. Se questa diventasse per tutti la massima dell’esistenza, Lady Ottoline Morrell sarebbe allora senza dubbio la fondatrice di questa filosofia del quotidiano. Al momento, resta forse la dea di un mondo parallelo per noi contemporanei storicamente passato che guardiamo, forse a torto forse a ragione, con una punta di invidia. Perché lei ha fatto tutto questo e molto di più diventando a cavallo fra le due guerre mondiali di fatto, in quanto sposa del politico britannico Philip Morrell, la “padrona di casa” del Bloomsbury Group. Quello composto da Virginia e Leonard Woolf, dallo scrittore Lytton Strachey, dalla pittrice Dora Carrington, senza dimenticare T.S. Eliot e sua moglie Vivianne – la tormentata Vivienne, ma in quell’ambiente era quella la normalità -, Bertrand Russell – Bertie – e Aldous Huxley. E Katherine Mansfield e Joseph Conrad e Henry James. E Oscar Wilde. Queste e molte altre furono le figure che frequentavano la villa di Lady Morrell dove era possibile assistere ad animate discussioni fra Huxley e Russell, dove ad un certo punto, dopo lungo silenzio, Virginia Woolf poteva uscirsene con una battuta a mezza bocca che sarebbe diventata leggendaria.

Le vicende e gli aneddoti della vita della fedifraga e libertaria Ottoline vengono raccontate da lei stessa nei suoi due libri di memorie – per la prima volta tradotti in italiano da Nicola Zippel ed editati da Castelvecchi nella collana Ritratti con il titolo I ricordi di una signora meravigliosa – dove si alternano i personali accadimenti della sua vita alla compagnia di queste figure eccezionali, di cui lei scandaglia con educata bonarietà e al tempo stesso con quella squisita eleganza che si mescola a quel tono tagliente misto a ironia che solo la scrittura britannica ha saputo concedere ai suoi lettori. Ma fra quelle righe, ancor più del ritratto brillante e graffiante di una società di privilegiati, viene fuori quello di un Paese diviso – per dirla alla Downton Abbey o di chi meglio l’ha preceduto – fra piani superiori ed inferiori, fra classi sociali che abitavano negli stessi stabili, ma non si toccavano, non interagivano, non si emozionavano insieme. Sullo sfondo di un tardo Ottocento ancora suddiviso in caste e dove lei, Ottoline, figlia di un mancato duca, morto prima di poter ereditare il suo titolo, quando lei aveva appena quattro anni, si stava per perdere nella vacuità del ruolo nel quale la donna era relegata nel suo tempo. Sullo sfondo di una prima metà del Novecento, dove il riscatto intellettuale e la costante “irreprensibilità” da donna ricca l’avevano resa, insieme al marito, con il quale aveva una relazione libera dalle convenzioni vittoriane della fedeltà coniugale, che però nelle sue pagine un po’ troppo borghesemente non traspare, una delle tante, ma sempre troppo poche, personalità pacifiste di spicco durante la Grande Guerra. Una figura, quella di Lady Ottoline Morrell, che danza senza troppo frastuono nella culla del momento più fervente della cultura inglese, ma che al tempo stesso non passa inosservata.

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