di Gabriele Ottaviani
Quella che si muove sopra di me da mezz’ora è la Zozza. Tutti la chiamano così ma il suo vero nome è Viviana ed è anche mia cugina, anche se l’ho scoperto per caso, quando già avevamo iniziato a rotolarci sotto le lenzuola di casa sua. Ha gli occhi chiusi, annuisce come se mi stesse dando ragione e intanto si impegna per non far scivolare fuori il mio uccello. Si muove strana, ondeggia e mugola. Sembra una bambola ubriaca. Le tette ballano su e giù, sono morbide, le strizzo come se volessi tastarne la consistenza e quando lo faccio lei guaisce ancora più forte. Lo fa sempre, come se avesse il mal di pancia. Muove la testa bionda e so che alla fine mi ritroverò con un pugno di suoi capelli, simili a fili di paglia, incollati al torace. All’inizio l’idea di essere cugini mi eccitava; le prime volte venivo subito e lei doveva aspettare che fossi pronto per ricominciare, ma adesso ho il problema opposto: dopo pochi minuti niente mi eccita più. I nostri movimenti si fanno sempre più annacquati e lenti, come se ci trovassimo in un sogno pieno di fango. Quando finiamo? – Fammi girare – mormora. Lascio che si sfili da sopra e che si metta a novanta di traverso sul letto a due piazze. Forse è già venuta, ma con la Zozza non lo capisco mai. A volte dice: “Mi fai godere”, ma non so se sia vero. Ci muoviamo all’unisono in avanti e indietro, come i pistoni di una strana macchina umana, sempre più concentrati sull’atto che sta diventando meccanico. Osservo il suo culo bianco aprirsi sempre di più. Mentre il sudore mi cola negli occhi, un raggio di sole filtra verso di noi e si va a posare proprio sul neo in rilievo che le divide le scapole a metà, come una chiazza di caffè in un mare di latte. Vorrei grattarlo via per vedere cosa succede. Il sangue colerebbe giù, lasciando una bella striscia rossa in tutto quel bianco. Invece le abbranco le braccia carnose lasciando segni con le dita. – Aaah, oggi sei una bestia – rantola. Quando la sento di nuovo gemere, mi limito a spingerle il viso verso il cuscino, continuando a tirare colpi con il bacino. Mi rendo conto con un pizzico di ansia che non riesco proprio a venire e che avrei solo voglia di sfilarlo e tornarmene a casa. Mi è già capitato altre volte e ho scoperto che mi eccito se penso di scoparmela insieme a qualcun altro, così immagino Denis che glielo mette in bocca ed è talmente reale che riesco a sfilarmi poco prima di eiaculare, quasi senza accorgermene. Poche gocce sulla sua schiena. Bianco su sfondo pallido. Con la Zozza non c’è poesia neanche negli orgasmi.
La notte in cui suonò Sven Väth, Lucio Aimasso, CasaSirio. Non è vero che i cosiddetti “ragazzi di oggi” sono aridi. Ignoranti. Materiali. Incapaci di sognare. Sono ragazzi come tutti. Come sempre sono stati. E come sempre saranno. Banalmente, si relazionano in modo ogni volta diverso con un mondo di volta in volta differente. Hanno tante cose, e soffrono la carenza di altre. E poi, in particolare, a quelli di questa generazione è stato scientemente rubato il futuro. Si trovano a brancolare in un buio profondo e gelido, oscillando tra la noia e l’autodistruzione, assordati dal loro stesso disperato urlo, dalla richiesta d’attenzione che rivolgono a una società che li ignora, che non ne ha cura, che non li sente. Non vuole sentirli. Finge di non sentirli, e tira avanti dritto per la sua strada. Federico ha sedici anni e appare senza speranza. Sa solo che non vuole essere come suo padre. Che gli sbatte la testa nel tavolo e gli dà del fallito. Lui, però, in realtà, ha delle aspirazioni. Sembra forte, ma è fragilissimo… Anche lo squallore in questo romanzo si tinge di accenti lirici, perché è umanissimo il ritratto di un insieme di personaggi bramosi di trovare il proprio posto nel mondo, di raggiungere la felicità. Straziante, chirurgico, metallico, lacerante, disturbante, esplosivo. Lucio Aimasso, al suo secondo romanzo, dopo una vita ricca di mestieri, esperienze e passioni, spiega la voce stentorea e policroma della sua narrativa dinnanzi al lettore, lo coinvolge e conquista.