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“Il tocco del pianista”: intervista all’autore

komentarmirt_komel_bkimg_2456.jpgdi Gabriele Ottaviani

Il tocco del pianista è il caleidoscopico romanzo del brillantissimo filosofo e scrittore Mirt Komel, che Convenzionali intervista con estrema felicità.

Da dove nasce questo romanzo?

Il tocco del pianista è nato all’incrocio di molti miei amori: l’amore per la letteratura, per la musica, per la filosofia, ma anche per il tocco come tale. Non ho mai pensato di fare una filosofia del tocco, e tantomeno un romanzo su tale tema, ma dopo aver letto il Noli me tangere di Jean-Luc Nancy mi è venuta come un’epifania, che ha avuto riscontri tattili anche nella mia vita. Dopo Nancy ho scoperto la musica di Glenn Gould e la sua particolare fobia del tatto che combaciava con la necessità del contatto con il pianoforte, del quale mi sono innamorato anch’io, che prima di incominciare a scrivere il romanzo non ho mai avuto un’educazione musicale. Ne è seguito l’acquisto di una vecchia Chaika russa che ho cominciato a suonare e imparare vari pezzi a memoria, da Bach a Beethoven. Ecco, da questa combinazione è nato il desiderio di suonare il pianoforte, di studiare la filosofia della musica, e di scrivere un romanzo sul tocco del pianista.

Qual è il ruolo dei nostri sensi nella vita, e specialmente del senso del tatto?

I sensi sono, tradizionalmente parlando, cinque (ce ne sono ovviamente molti di più!), ma se ci pensiamo un po’ su vediamo che tutti sono riducibili al tatto: non solo l’assaporare, che domanda il contatto, ma anche il guardare, l’udire e l’odorare possono essere concepiti come forme di tatto a distanza, come dita prolungate del corpo, con il quale stiamo in contatto col mondo. Ed ecco, questo è il ruolo dei sensi nella nostra vita: metterci in contatto con il mondo nel quale viviamo, primordialmente per orientarci e per sopravvivere, ma anche per godere e infine vivere un’esistenza sensata, se mi si permette di giocare un po’ col doppio senso della parola “senso”, che significa così il senso come attributo del corpo e anche quel senso del quale va in cerca la mente quando si propone di pensare.

Che rilievo assumono la musica e i suoni nella formazione della nostra identità?

I suoni come tali sono importantissimi, basta pensare alla differenza tra un bambino, che cresce in campagna (circondato da suoni animali e vegetali), o a uno che vive in città (circondato di suoni tecnologici) – quale differenza enorme c’e tra l’uno e l’altro! – e quale ancor maggiore differenza c’è tra qualcuno che vive in un paese di pace o qualcun altro che vive in zone constantemente in guerra! Credo che ci siano suoni di pace e suoni di guerra, così come esiste musica militare, che incita alla violenza, e musica della pace, quale per esempio la nona di Beethoven, che incita a quel “bacio con il mondo intero” della poesia di Schiller che Klimt ha dipinto con tanta maestosità nella sua Beethovenfries, che ho avuto modo di ammirare di recente a Vienna. Ed è questo il ruolo importantissimo che ha la musica nella formazione della nostra identità: la musica che scegli, la musica che ti piace, risuona non soltanto in te e ti forma e transforma, ma fa lo stesso anche attorno a te stesso, influenza e crea e ricrea il mondo comune a tutti.

C’è un suono che per lei ha una valenza peculiare?

Forse non sarà una sorpresa scoprire che vado pazzo per il suono del pianoforte, che è, almeno per me, lo strumento supremo della musica, perché rinchiude in sé tutti gli altri strumenti – tranne forse la voce umana, il suo canto, il suo tatto. A parte il suono musicale del pianoforte mi piacciono un sacco di suoni mondani, dal cadere della pioggia al vento che soffia tra i alberi, ma anche cose un po’ peculiari, diciamo, come il suono del caffè che esce dalla caffettiera la mattina. E a proposito di suoni strani mi sono ricordato di un altro strumento che attira la mia curiosità: il theremin, che a suonarlo hai l’impressione di suonare il nulla, il vuoto, che risuona tra le tue dita.

È maggiore la potenza evocativa di una sinfonia o di un’opera letteraria?

La potenza è maggiore se ascoltiamo una sinfonia, ma la letteratura è definitivamente più evocativa, perché può evocare non solo suoni, ma anche immagini, e perlopiù opera al livello del linguaggio, che è la cosa più vicina al pensiero e perciò la cosa più astratta, ma anche per questo la più toccante. Se prendiamo il tatto come criterio per l’arte vediamo come le diverse forme d’arte mano a mano ripiegano, per così dire, su sé stesse, fino alla eliminazione dei sensi a guadagno del senso come tale, cioè esistenziale: l’architettura e la scultura producono arte tangibile, la pittura trasforma il tangibile in puro visibile, ridimensiona, per così dire, il tridimensionale in due dimensioni, che la musica a sua volta riduce ancor di più in una dimensione sola, quella del tempo – se le belle arti della scultura e della pittura sono arti dello spazio allora la musica e l’arte del tempo – e infine arriviamo alla poesia e alla prosa, che hanno come base il suono e l’immagine, indipendentemente se la sentiamo o se la leggiamo, ma che produce un effetto di surplus di senso proprio perché opera tramite la parola, che è esclusiva dell’uomo.

Che cos’è che soltanto l’arte e la filosofia possono spiegare?

Credo che l’arte e la filosofia siano due cose ben distinte, ma che si incontrino sul piano del linguaggio, che lo usano – se posso esprimermi così, perché la lingua noi non la “usiamo” semplicemente – per fini diversi: il fine della filosofia è la riflessione, la conoscenza, la spiegazione della, per dirla un po’ all’antica, “verità”, nientemeno, il fine dell’arte è mettere la verità a nudo, esprimere il vero nell’ambito sensibile ed estetico che le è proprio, o, più precisamente, che è proprio di ciascuna forma artistica. Ed è proprio questo il senso della parola “estetica”, che deriva dal greco aesthesis: il sensibile del senso o anche il senso del sensibile, tutt’e due i sensi di “senso” che combaciano e si baciano a vicenda.

Perché scrive?

Perché non posso farne a meno. Ho la libertà di scegliere cosa scrivere, sì, ma non di scrivere.

Quale stimolo o impulso desidererebbe che i suoi lettori ricevessero dalle sue pagine?

Desidererei che quello che ho scritto sul tocco del pianista li toccasse.

Quale classico avrebbe voluto scrivere?

L’Ulisse di James Joyce, ma anche la Bibbia, se fosse possibile.

E quale progetto vorrebbe realizzare?

Un poema epico che sto scrivendo da una vita ormai, intitolato Persiana.

Su cosa sta lavorando ora?

Sul mio romanzo Akilles, un esperimento letterario con la lingua slovena, e allo stesso tempo su un giallo intitolato Detective Dante che è il prequel del mio romanzo poliziesco Medsočje.

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Libri

“Il tocco del pianista”

Cover Mirt Komel. Il tocco del pianista.Carbonio Editore.pngdi Gabriele Ottaviani

Gabriel, invece, preferiva di gran lunga immergersi nella lettura di libri, così come gli capitavano tra le mani ‒ libri persi, libri abbandonati, libri di intrattenimento, che avrebbero dovuto farlo divertire senza compromettere la sua convalescenza: Mimo mene, Oltre me, annotazioni romanzesche di un surrealista contemporaneo (in realtà un sonnambulo che scriveva esclusivamente in stato di dormiveglia); ClichéCliché, un dozzinale romanzo erotico di una ninfomane dallo pseudonimo, non esattamente raffinato, di Clitorí; e, ultimo ma non meno importante, il più grande bestseller di tutti i tempi, la Bibbia del Vecchio e del Nuovo Testamento, edizione ridotta, nelle lingue originali, ebraico e greco (con ulteriori note dell’autore). Ma che fare se nessun libro, e in effetti, niente di niente poteva per lui essere un sostituto del pianoforte, così come la cicoria non può essere un sostituto per il caffè, i cerotti alla nicotina per le sigarette, la masturbazione per il sesso, il sesso per il cioccolato e il cioccolato per il caffè. Ovvero, allungando ancora di un passo l’analogia e tornando indietro ai libri: leggere Engels non può sostituire leggere Marx, e a sua volta leggere Marx non può sostituire leggere il buon vecchio Hegel. Fluì il tempo e fluttuò la civetta di Minerva, emblema di saggezza. Il Gabriel del quale parliamo adesso ‒ tornato più giovane di vent’anni ‒ stava già cominciando a vedere il proprio insolito disturbo musicale più chiaramente, come qualcosa che fosse cresciuto di pari passo con lui: sviluppatosi al pari di capelli, unghie, ossa o denti, concresciuto con lui stesso, con il suo corpo; tutto il suo essere era permeato di questo pulsare che scandiva il ritmo della sua esistenza. Se avessero rimosso chirurgicamente quell’inquietante elemento che, in seguito, lo avrebbe reso oggetto dell’interesse di tutta la professione medica, di lui sarebbe rimasto solo un corpo di morto non morto, che gradualmente si sarebbe impadronito del suo spirito, prosciugandolo in una lettera totalmente disanimata. Un tempo aveva incautamente cercato di liberarsi del suo disturbo, ma l’angoscia che lo aveva assalito gli aveva fatto provare sulla propria pelle quanto fosse incapace di vivere senza pianoforte…

Mirt Komel, classe millenovecentoottanta, filosofo, traduttore e scrittore sloveno (uno degli autori ospiti dell’edizione 2019 di Milano Book City, dove presenta il libro di cui si sta per parlare domenica diciassette di novembre al Magazzino Musica con Angelo Foletto (la Repubblica) e Alberto Chines al piano – Ore 16,30 – Via Soave, 3), docente di filosofia e letteratura al Dipartimento di culturologia della Facoltà di scienze sociali dell’Università di Lubiana, ricercatore alla Peace institute di Lubiana, co-fondatore e membro dell’International Hegelian Association Aufhebung, autore di numerosi saggi, imperniati anche sul tema del tatto, nevralgico in questo romanzo finalmente in Italia grazie a CarbonioIl tocco del pianista, di enorme successo quattro anni fa appena uscito, segnando il suo esordio letterario, in patria, più volte ristampato, selezionato per il premio Kersnik – per il quale ha ottenuto la nomination anche la successiva opera di Komel, un volume poliziesco-filosofico – e tradotto pure in tedesco e serbo-croato, ispiratore di dipinti e musiche, racconta con stile variegato, poliedrico e profondissimo una vicenda dai mille livelli di lettura e dalle molteplici chiavi d’interpretazione, anche per il gran numero di riferimenti di cui è intrisa. Si tratta della storia vibrante e non priva d’acutissima ironia di un giovane pianista, Gabriel, che nella New York di poco meno di cinquant’anni fa si trova bloccato in un letto d’ospedale, in un coma da cui riemerge ripercorrendo le fasi e gli incontri di maggior significato nella sua vita, agitata da un dissidio interiore perenne e bruciante che un lutto non fa che acuire. E un giorno scopre di aver perduto il controllo sul tatto: così… Monumentale.

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