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“Una notte sbagliata”

51fbfbV1XQL._SX425_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La nebbia che gli era calata sulle pupille si diradò in un istante e i suoi sensi furono investiti da un’infinità di nuovi indescrivibili stimoli. Ogni singola goccia di sudore che gli colava lungo la schiena, i capelli che si muovevano assecondando i movimenti della testa, come migliaia di dita che gli carezzavano la cute, ogni impercettibile granello di polvere sotto i polpastrelli, i terrificanti miasmi che emergevano da quel cesso infame, l’odore del suo sudore, quello di Padorin, il lezzo acido che proveniva dal suo corpo e che aveva intriso i vestiti, il dopobarba dozzinale del russo, il tanfo di orina, merda e sangue che stagnava nonostante lo scadente deodorante da bagno diffondesse un’essenza artificiale al limone. Due mani forti lo afferrarono per il bavero e lo scrollarono con impeto. «Ti sei ripreso? Non abbiamo tempo! Lo capisci?» Il fiato di Padorin sapeva di birra e fumo di sigaretta. Un’infinità di spruzzi di saliva gli bagnò il volto. Quella ventata fresca, però, continuava a spirare sul suo viso, era quasi sicuro gli scompigliasse i capelli, e le parole del russo erano chiare, limpide, cristalline, gli si conficcarono nel cervello con nettezza e lucidità, in tutta la loro urgente evidenza. Era in piedi e non era mai stato così in alto, gli sembrava quasi di volare al di sopra del suo corpo, quel fagotto smagrito, corroso dall’eroina fino al midollo, ed era certo di poterlo comandare a distanza, come un burattinaio onnipotente, e che la sua essenza si fosse intrinsecamente mutata in qualcosa di forte, veloce, scattante, felino. Nulla lo poteva spaventare: né la sconfitta, né il dolore, né la morte. Fece un cenno meccanico col capo. Sì.

Una notte sbagliata, Gianluca Ales, Imprimatur. Tiziano e Alessandro sono fratelli, sono romani, sono omofobi, xenofobi, naziskin, Skizzo è un tossico, Igor è un ex militare di origini russe o giù di lì, Riccioletto è un delinquente di bassa lega. Sono i componenti del commando. Sanno che devono raggiungere una villa sulla via Flaminia e mettere paura a un cinese che ha fatto qualcosa che non doveva. Non sanno che quella a cui stanno andando incontro è una trappola mortale… Gianluca Ales è giornalista, inviato, uomo di lettere: si vede. Scrive in modo ottimo, con competenza, cura, ritmo, amalgamando in un noir efficace, feroce, sostanzioso, credibile, raffinato, simbolico, caleidoscopico e ricco di livelli di interpretazione e chiavi di lettura, le mille sfumature delle umane miserie. Da non lasciarsi sfuggire per nessuna ragione.

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“L’inganno delle pensioni”

pensioni_fronte_lowdi Gabriele Ottaviani

Le proposte contenute nel contratto del “governo del cambiamento”, invece, non fanno riferimento al meccanismo dell’adeguamento all’aspettativa di vita. L’autore del testo – l’economista ed ex sottosegretario al Lavoro Alberto Brambilla – però ha subito precisato che «l’adeguamento all’aspettativa di vita rimane perché è un elemento fondamentale del sistema». E ancora: «Non è possibile immaginare di andare in pensione oggi a 60 anni quando l’aspettativa di vita media è di circa 84 anni». Insomma, a parte l’introduzione di Quota 100 e di Quota 41 e mezzo, il meccanismo rimane tutto, confermando l’innalzamento dell’età pensionabile per tutte le soglie già previste. Una vera beffa. Si dice di voler “cancellare la Fornero” e invece si mantiene la sua norma più impattante, specie per il futuro. Per gran parte dei giovani e dei precari la prospettiva rimane andare in pensione a settant’anni suonati con un assegno da fame.

L’inganno delle pensioni – Come l’austerity previdenziale è stata usata per fare cassa alimentando lo scontro generazionale, Massimo Franchi, Imprimatur. Il problema non è solo la legge Fornero, che il nuovo governo ha promesso di abolire, ma non è stata intavolata ancora la benché minima discussione costruttiva, e le prospettive, come si legge nella citazione in esergo, non sono propriamente rosee (verrebbe da declamare, per antifrasi, che L’è el  di Mortalegher!), anzi, e che tra l’altro da un certo punto di vista corregge anche una sperequazione e un vulnus, visto che con le vecchie norme l’assegno della pensione veniva calcolato solo in base alla retribuzione degli ultimi dieci anni di lavoro, quando si presume che lo stipendio sia più alto (se nel frattempo non si è stati costretti, però, a cambiare mestiere, perché magari l’azienda ha chiuso i battenti, e quindi alla fine ci si rimette), e invece ora il parametro, più equo, almeno in apparenza, sono i contributi versati. Sistema che però c’è solo in Italia, Svezia e Lettonia: tutti gli altri paesi utilizzano in tutto o in parte il sistema retributivo. Ma allora com’è possibile che questa sia stata considerata l’unica ricetta adeguata per salvare capra e cavoli, bilancio e assistenza? Gli esodati, di fatto, sono persone che hanno subito un marchiano torto dallo stato, e ancora non si sa quanti effettivamente siano costoro, colpiti dalla riforma e rimasti senza stipendio, senza pensione e senza ammortizzatori per un lungo periodo a causa dell’innalzamento improvviso di almeno cinque anni dell’età pensionabile. Il problema, in ogni modo, è davvero complesso e soprattutto annoso. Prima è stata data letteralmente a tutti anche se requisiti veri e propri non ce n’erano. Ti va male un raccolto? Ti do la pensione. Ti va di lavorare nella scuola pubblica tredici anni e un giorno e poi startene a casa a fare i tuoi comodi? Ti do la pensione. Non versi i contributi perché evadi e poi diventi anziano e risulti nullatenente? Ti regalo la pensione sociale. E poi ci si è accorti – in realtà si è sempre saputo, è stato il popolo pian piano a cominciare a ragionare, a rendersi conto che ciò che gli faceva comodo nell’immediato gli si sarebbe ritorto contro nel lungo termine – che in questo modo si conquistavano i voti ma si penalizzava chi era, a vario titolo, in difficoltà per davvero: insomma, la solita differenza tra chi fa politica, e dunque è interessato solo alla poltrona, e chi è uno statista, e si preoccupa delle prossime generazioni. Che ora sono in conflitto, l’una contro l’altra armate in una vera e propria guerra tra poveri: prima si lasciava il lavoro troppo presto e si veniva mantenuti per decenni (complice la fortunata evenienza dell’allungamento della vita media), adesso, in una società che grazie al cielo è per tradizione risparmiatrice e ha sempre avuto, a differenza di altre nazioni, il culto della casa di proprietà (d’altronde spesso la rata di un mutuo è uguale a quella di un affitto, con la differenza che almeno si possiede qualcosa…) fa assai meno figli – anche perché talvolta non se li può proprio permettere, visto che gli ammortizzatori sociali più efficaci rimasti sono i nonni, che però eterni non sono… -, troppo tardi. Col risultato che si resta in ufficio, in negozio, in fabbrica o in qualunque altro posto anche da vecchi, stanchi, affaticati, malati, disillusi, disamorati, non più lucidi e aggiornati, bramosi solo del meritato riposo dopo una vita di sacrifici (per chi li ha fatti, beninteso). Ma non si può andarsene, di che si vivrebbe? Impieghi nuovi d’altro canto non se ne creano, e quindi i giovani iniziano a poter avere delle instabili basi su cui costruire il proprio futuro a un’età nella quale ormai giovani non sono più, e nemmeno da poco: e non parliamo poi di tutti gli altri problemi che riguardano l’accesso al mondo del lavoro, questa è solo la punta dell’iceberg… Massimo Franchi, con stile naturalmente divulgativo, tratteggia fin nel minimo dettaglio il panorama relativo a uno dei principali connotati del tessuto economico, politico e sociale del nostro paese: da leggere.

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“L’anima del vino toscano”

vino_fronte_low-703x1024di Gabriele Ottaviani

L’anima del vino toscano, Massimo Rustichini, Imprimatur. È una delle voci più importanti nella bilancia commerciale italiana e anche uno dei grandi piaceri della vita: è il vino, il nettare che dà godimento e talmente amato da avere una divinità tutta a lui dedicata, quel Bacco che è l’imperatore dell’ebbrezza, dell’abbandono ai sensi. Ne hanno scritto Alceo, Orazio, Platone, Rabelais, Carducci, Pascoli e chi più ne ha più ne metta: è il prodotto della vendemmia, nasce dalla vite, ma ha un’anima, una personalità. E un esperto sommelier come Rustichini sa riconoscerla. E raccontarla. Non una semplice guida, ma un viaggio e un’esperienza. Da leggere.

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“Clone”

51HmEQ0cQFL._SX341_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

«Dunque?» chiese il monsignore con un’espressione un po’ imbarazzata. «Dunque che?» rispose stupito. «Dunque ha scoperto qualcosa su quell’uomo morto?» domandò. Barberi deglutì e si guardò attorno sperando che il nervosismo che stava provando in quel momento non trasparisse troppo. «Monsignore» iniziò a dire dopo qualche secondo cercando di controllare la voce, «comincia a essere tardi e sono nervoso. Avevamo quest’appuntamento perché lei mi doveva parlare urgentemente. Ricorda? La chiave…? Insomma» concluse, «non sono qui a dare informazioni, ma nella speranza che lei abbia qualcosa di interessante da dirmi. Quindi, la pregherei di arrivare al dunque». Il monsignore lo fissò negli occhi senza batter ciglio e senza chinare lo sguardo. Solo prendendo saldamente in mano il manico dell’ombrello disse alla fine: «Non qui… Ha già cenato?» Barberi lo guardò stupito. «Quasi, lo stavo per fare quando sono dovuto venire in Cattedrale» rispose dubbioso. «Bene, allora se non ha altri impegni, le propongo un piatto di pasta o quel che ci daranno nella trattoria qui di fronte, non è male. E forse» aggiunse guardando il proprio orologio, «avranno ancora la cucina aperta. In ogni caso, qualcosa da mettere sotto i denti sono sicuro lo troveremo» concluse spalancando la porta. «Faremo in fretta» aggiunse attendendo che muovesse un passo.«E abbiamo anche un ombrello…» concluse con un sorriso ironico.

Clone, Paolo Negro, Imprimatur. L’autoritratto di Leonardo da Vinci e la Sacra Sindone sono due importanti monumenti. Testimonianze del passato. Oggetti fatti di storia, culto, materia. Entrambi immortalano un volto. Entrambi sono custoditi a Torino. A poche centinaia di metri di distanza. Entrambi sono preziosissimi. Entrambi non vengono toccati da chi, in prossimità dei luoghi dove vengono conservati, con tutta la cura del caso, delinque. Ma accanto a loro la gente muore. Due delitti efferatissimi. Che non sono che l’inizio di una vera e propria ridda – ma l’azione non è mai vanamente concitata o forsennata, anzi, fa del tempo la sua precisa misura – di colpi di scena: a quanto pare, infatti, l’ispettore Barberi sarà costretto a inseguire gli autori di un piano che, sembra insieme definizione appropriata e blasfema, diabolico. Del resto basta un campione di tessuto per isolare il DNA, e a partire da quello si può ottenere, grazie ai progressi della scienza e della tecnica, un vero e proprio clone. Nella fattispecie, di Cristo, colui che, per chi crede, è nientedimeno il figlio di Dio. Ma… Avvincente dalla prima all’ultima riga, brillante, complesso. Da non perdere.

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“Wild Wild Sheela”

wild_sheeladi Gabriele Ottaviani

Le allergie di Osho sono uno dei motivi fondamentali per cui Sheela scelse l’Oregon, nonostante Bhagwan abbia dichiarato: «Ho scelto l’Oregon perché questo povero Stato non ha conosciuto un solo uomo illuminato nella sua intera storia». Osho era allergico quasi a tutto: pollini, polvere, peli di animali, fumo.

Wild Wild Sheela, Roberta Lippi, ImprimaturWild wild country è un documentario ben fatto e interessante in sei puntate su Netflix che narra l’assurda vicenda della comune di Rajneeshpuram, fondata trentasette anni fa dai seguaci di Osho in Oregon (che non fosse altro per aver dato i natali a Carl Barks smentisce categoricamente l’affermazione per cui non vi siano mai state persone illuminate): dopo aver visto i filmati però restano sospesi molti interrogativi. Che Roberta Lippi, autrice televisiva e radiofonica, docente, responsabile dei contenuti per la casa di produzione 3zero2, consulente in strategie editoriali e sviluppo di nuovi format televisivi, scrittrice e molto altro ancora, approfondisce e svela. Con assoluta brillantezza. Da leggere.

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“Educati alla violenza”

baby_gang_fronte_lowdi Gabriele Ottaviani

Quando arriva a casa, mi racconta: non riesce più ad andare a scuola, le viene il panico, ha paura. Un suo compagno, tra i più bravi della classe (intelligenza sprecata) con il suo entourage di scagnozzi senza palle, regolarmente l’aspetta negli angolini più oscuri dei corridoi della scuola per metterla contro il muro e minacciarla. Avvertimenti tipo: «Guardati le spalle che prima o poi ti facciamo la festa» oppure «occhio che se ti becchiamo da sola ti facciamo nera». E tutto questo perché? Perché mia figlia non ha ceduto alle sue “grazie” e perché lei è “diversa”: non ascolta la stessa musica, non ama andare in discoteca. Il suo presunto “snobismo” viene mal digerito dal bullo. Poi ci sono stati altri episodi. A fronte di un suo intervento durante una lezione, era stata apostrofata: «Stai zitta tu che non capisci un cazzo», oppure «sta parlando la deficiente». Pensando fosse solo una questione di un momento, lei lo ha ignorato per un po’; visto che invece non finivano le minacce e le vessazioni, ha cominciato con il vomitare nei bagni della scuola e poi scappare. Andava in biblioteca per cercare di rimanere al passo con lo studio. Una volta che si è confidata, siamo andate a scuola l’indomani a parlare con la professoressa. Dopo averci ascoltato disse che «il ragazzo, d’accordo, era un imbecille ma che lei doveva mettere acqua sul fuoco e non paglia e che certamente avrebbe smesso». Mia figlia, intanto, non aveva voti e, comunque, non riusciva a tornare a scuola. Non fu nemmeno ammessa agli esami e ovviamente perse l’anno. Lì ho sbagliato io: avrei dovuto ribaltare scuola e docenti.

Educati alla violenza – Storie di bullismo e baby gang, Antonio Murzio, Imprimatur. Non hai vestiti firmati. Ti piace studiare. Non riesci ad avere buoni voti anche se ti impegni. Sei gay. Pensano che tu sia gay. Sei timido. Sei insicuro. Sei povero. Sei ricco. Balbetti. Sei un po’ sovrappeso. Sei troppo magro. Sei troppo alto. Sei troppo basso. Sei troppo bello. Non ti senti bello. Non ti piace un certo cantante. Non ti piace bere o calarti le mutande ogni cinque secondi con chiunque capiti per sbaglio nel primo angolo buio che trovi. Possono essere mille milioni di miliardi i motivi. Che motivi non sono. Perché non c’è motivo. Non esiste motivo al mondo per cui ti debbano fare del male. Proprio a te, che non fai del male a nessuno. Eppure te lo fanno eccome. Sei una vittima. E basta. Sei stato scelto. E ti vergogni. Perché pensi che sia colpa tua. Perché ti fanno credere che sia colpa tua. Perché ne parli con i tuoi e loro ti dicono di essere superiore. Di ignorarli. Che quelli sono solo dei deficienti che cercano solo attenzione. Che passerà. Che tanto alla fine tu emergerai e loro no. Che non devi avere nulla di cui preoccuparti. Al limite se ti menano mena due volte e più forte. Certo, come se fosse facile. Perché uno impara così, dalla sera alla mattina. Allora ne parli a scuola. Con gli insegnanti. Ma non sei mica figlio loro. E poi hanno tante cose da fare. Il programma da finire. I compiti. Le interrogazioni. I ricevimenti. Il collegio docenti. La pausa caffè. La pausa sigaretta. Capire come si accende la LIM. Il registro elettronico da compilare. Mandare a chiamare la bidella che però non si può più chiamare bidella perché se la chiami bidella si offende. Leggere le circolari. Andare in gita. La cattedra da riscaldare. Lo stipendio che è tanto basso, con tutto il lavoro che sta dietro. Talmente dietro che spesso non si vede però c’è. Dicono. Allora ne parli con il preside. Che però deve occuparsi delle scartoffie. Delle scartoffie. Delle scartoffie. E quindi a novembre ti dà un appuntamento per maggio. Fai prima a parlare col papa. A cambiare scuola. A morire. Perché il bullismo può persino ucciderti. Perché ti viene voglia di morire, se sei bullizzato. Perché vuoi sapere se magari a qualcuno mancherai. Perché vuoi che chi ti ha ignorato si senta in colpa. Perché certo qualche bullo magari è recuperabile. In fondo è un ragazzo come te, probabilmente figlio di una situazione di disagio. In altri casi però semplicemente è un malvagio. Che va messo nella condizione di non nuocere. A sé e soprattutto agli altri. Perché il problema della violenza va affrontato, senza se e senza ma. E per essere affrontato va conosciuto. Perché l’ignoranza, reale o presunta, è la prima colpa. Io non c’ero. Non sapevo. È la prima condizione, la base. Voltare la faccia dall’altra parte. Questo libro non lo consente. Perché racconta perfettamente la realtà e le sue storie. Necessario.

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“Il quinto dominio”

quinto_dominio_fronte_highdi Gabriele Ottaviani

Nella quiete apparente di quel silenzio, il ronzio della stampante si preparò a dare forma all’inchiostro e un senso al foglio bianco. Ambrosi lo attese con un impercettibile stato di ansia. Aveva bisogno di rileggere nella tridimensionalità cartacea il testo inviato da Altedo in cui, ne era sicuro, aveva colto un messaggio nascosto. Quando il movimento meccanico del dispositivo restituì il documento ormai stampato nella vaschetta ogni rumore cesso. Il nastro si riposizionò dov’era inizialmente, pronto a rimettersi al lavoro al prossimo input. La mano di Ambrosi si allungò per prenderlo e subito dopo cancellò il messaggio dal form della pagina riservata. Lo lesse, poi lo rilesse di nuovo, stavolta più lentamente separando bene le parole, come farebbe un software di lettura. Altedo aveva voluto comunicare qualcosa che non poteva dire espressamente, temendo forse che la comunicazione non fosse del tutto protetta. Si rimproverò per non aver stabilito un codice con quell’agente anomalo, perso da qualche parte all’altro capo del mondo. Fece un rapido calcolo sulla differenza di fuso orario. Decise di chiamarlo. Non per chiedere spiegazioni. Qualunque cosa Altedo avesse trovato non gliel’avrebbe certo spiegata al telefono. In ogni caso, era ora che tornasse a casa. La reception dell’albergo rispose e, rapidamente, collegò la camera richiesta da Ambrosi. Uno squillo, due, poi tre. Sei, sette. Riattaccò.

Il quinto dominio, Antonio Valenzi, Imprimatur. Un gran bel libro. Per vari motivi. Prima di tutto è un libro di genere. C’è il thriller, il giallo, lo spionaggio, l’intrigo, e le redini della scrittura sono tenute in maniera salda, solida, sicura. Si vede che alle spalle c’è un lavoro attento, accurato, preciso, intelligente e consapevole. Ma il genere è inevitabilmente trasceso. Si va ben oltre. Senza retorica. Senza prosopopea. Anzi, con ironia. Un libro con un ritmo buono senza essere inutilmente forsennato, semplice, chiaro, leggibile, fluido e fluente. Ma niente affatto banale, o approssimativo. Ci sono molte chiavi di lettura (finalmente l’economia esce dalle pagine infarcite di numeri e di difficile comprensione che stanno di norma al centro dei quotidiani e che nell’immaginario collettivo medio ne sono immediata rappresentazione, e rientra a pieno titolo al centro della vita, in quanto ne governa diversi settori), molti temi, una ricchezza e un’ampiezza di prosa non consuete. Incasellare questo volume in un solo e specifico settore sarebbe un esercizio di tassonomia non solo riduttivo, ma vano, inutile, vacuo, arido, dannoso, insensato. Al tempo stesso la corposità e la densità non lasciano spazio a passaggi a vuoto: e questo è un pregio ulteriore, soprattutto in un periodo in cui sovente, viceversa, capita di leggere libri e vedere film in cui ci sono palesi fasi di stanca, parti che andrebbero tagliate ma che invece, forse per affezione (perché si fa fatica a cancellare una parte del proprio lavoro, a eliminarla, a cestinarla, poiché, come diceva Zola, in un’opera letteraria o in una pièce l’autore non ci mette solo il lavoro manuale, ma la testa, il cuore e tutta la sua vita) restano lì dove sono, e diluiscono la trama. Che d’altro canto Valenzi, giornalista e romanziere, concentra, e assai bene, partendo da uno spunto originale – così come non consueta, hallelujah!, è l’ambientazione – e contemporaneo (l’oro, in tempo di crisi, è sempre più un bene rifugio, e il paesaggio metropolitano ormai è punteggiato di negozi più o meno ambigui, spesso apparsi sulla scena con una velocità tale da indurre, pur senza essere malevoli, al sospetto) che sviluppa con invidiabili tenuta e souplesse: Flavio Altedo è un economista, concentrato per lo più sulla carriera. Non divide la sua sfera sentimentale con nessuna persona, è tornato da poco in Italia dopo anni negli Stati Uniti, e tutto sembra procedere normalmente. Poi un giorno lo accusano di contrabbando… Da non perdere. Così Convenzionali recensiva qualche tempo fa Golden standard, con cui Antonio Valenzi, insegnante, cronista di politica ed economia del cinema e dei media, curatore di un blog sull’Huffington Post e vincitore dei premi intitolati a Domenico Meccoli e a Giuliana Gallo è stato insignito nel duemilasedici del Casa Sanremo Writers. E dopo il riuscitissimo romanzo ambientato nel mondo del traffico internazionale di oro la vena autoriale ha un’ulteriore conferma: l’econometrista Flavio Altedo torna di nuovo alla ribalta per un assai avvincente intrigo, ispirato di nuovo a molta della cronaca degli ultimi anni, tra alta società, politica e malaffare. Viene difatti richiamato come agente fuori quadro dal Dipartimento di Intelligence Economica dei Servizi di Informazione con lo scopo di scoprire cosa realmente si celi dietro la decisione di Lorenzo Borghi, presidente della Italcom, di riportare in Italia – di solito il movimento avviene in direzione ostinata e contraria… – il domicilio fiscale della controllata Trans Ocean Cable, società proprietaria di cavi sottomarini per le telecomunicazioni. Ma… Da leggere e rileggere.

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“Dammi tregua”

dammi_tregua_fronte_highdi Gabriele Ottaviani

L’Irap è l’imposta regionale sulle attività produttive, è un’imposta locale che viene applicata alle attività produttive esercitate in ogni regione. L’imposta deve dunque essere pagata solamente da quei soggetti che svolgono attività d’impresa e non dalle persone fisiche. L’Irap riguarda sostanzialmente: imprese o enti soggetti a Ires, ovvero società di capitali ed enti commerciali; imprese soggette a Irpef, ossia società di persone, società di armamento, società di fatto e imprese individuali; lavoratori autonomi e, infine, banche e assicurazioni. L’Irap sostanzialmente colpisce il valore della produzione realizzato dalle aziende, dove per “valore della produzione” si intende la differenza tra i ricavi ed i costi che contraddistinguono la gestione caratteristica, cioè il core business per il quale l’azienda è stata costituita e lavora. L’Irap è una delle imposte più odiate dalle imprese italiane. Il motivo? È un’imposta che nella sua base imponibile comprende (parzialmente) il costo del lavoro e, di conseguenza, va a penalizzare quelle imprese che hanno una componente “capitale umano” molto accentuata. In realtà, oggi la normativa fiscale prevede diverse deduzioni ed esenzioni Irap sulla componente lavoro, fattore assolutamente decisivo per una maggiore equità dell’imposta. Per il periodo d’imposta a decorrere dal 1° gennaio 2018 l’aliquota Irap è fissata al 4,82%. L’Iva è l’imposta sul valore aggiunto. L’Iva è un’imposta generale sui consumi, il cui calcolo si basa solo sull’incremento di valore che un bene o un servizio acquista a ogni passaggio economico (valore aggiunto), a partire dalla produzione fino ad arrivare al consumo finale del bene o del servizio stesso. Nel valore aggiunto sono comprese eventuali accise, ossia tasse sulla produzione o fornitura che il venditore rigira al consumatore finale. Mediante un sistema di detrazione e rivalsa, l’imposta grava sul consumatore finale, invece per il soggetto passivo d’imposta, ad esempio l’imprenditore o il professionista, l’Iva resta neutrale. Infatti il soggetto passivo d’imposta, cioè colui che cede beni o servizi, detrae l’imposta pagata sugli acquisti di beni e servizi effettuati nell’esercizio d’impresa, arte o professione, dall’imposta addebitata (a titolo di rivalsa) agli acquirenti dei beni o dei servizi prestati. L’Iva pertanto rappresenta un costo solo per i soggetti che non possono esercitare il diritto alla detrazione e quindi, in generale, per i consumato- consumatori finali. Nell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto occorre quindi distinguere il contribuente di fatto (il consumatore finale), che pur non essendo soggetto passivo dell’imposta ne sopporta l’onere economico e il contribuente di diritto (di norma un imprenditore o un professionista) su cui gravano gli obblighi del soggetto passivo d’imposta, sebbene per lui l’imposta resti neutrale. Le aliquote Iva al momento sono pari 4, 10 e 22%.

Dammi tregua, Gianluca Timpone, Imprimatur. Le tasse sono indispensabili. Perché attraverso le tasse si finanziano tutti quei servizi di cui ognuno si avvale. Bisogna pagarle. Chi non le paga è un ladro. E di ladri ce ne sono tanti. Troppi. Anche perché non si ha la percezione che chi venga colto sul fatto effettivamente subisca una pena giusta. Anzi, di solito chi evade passa per furbo e chi è onesto per deficiente. Del resto siamo il paese in cui nella maggior parte delle occasioni le case sono specchi, perché “non sia mai che arrivi un ospite all’improvviso poi che figura si fa”, però ciò che è pubblico è considerato non di tutti bensì di nessuno, e quindi nessuno ne ha cura. È altrettanto vero però che la pressione fiscale spesso e volentieri è a dir poco asfissiante: ma perché è così opprimente, tanto da far venir voglia di non pagare? Perché non tutti pagano, certo. E chi lo fa talvolta non lo fa nella misura in cui dovrebbe, è chiaro. Ma… Commercialista e revisore contabile, Gianluca Timpone, titolare di uno studio a Roma, docente universitario a contratto di Microeconomia, collaboratore delle maggiori riviste scientifiche del settore e delle principali emittenti televisive nazionali, scrive un volume fondamentale, utilissimo, di chiarezza esemplare, divulgativo, semplice e istruttivo. Da non lasciarsi sfuggire.

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“L’amico degli ultimi”

51Rq+nA87HL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Noi abbiamo fatto sempre una resistenza passiva, non siamo state capaci di fare di più, i tempi non ce lo permettevano. Ci arrestavate, ci mandavate in carcere, ci comminavate multe sostanziose, ma il giudice ci rimandava a casa subito e voi tornavate ad arrestarci ancora, finché i giudici si sono stufati di questo sopruso e hanno cancellato l’antica legge del codice fascista che vi permetteva, con un’errata interpretazione, di arrestarci. Con pazienza, con perseveranza, ci siamo costruite un nostro mondo nel quartiere più disgraziato e dimenticato della città, senza dare fastidio a nessuno. Chi ci conosce e ci ha come vicini non ha mai reclamato per la nostra presenza in questi lunghi quarant’anni. Al contrario, venuti a conoscenza dei nostri attuali problemi si sono sentiti in dovere di difenderci da questa ulteriore persecuzione, testimoniando il loro appoggio con una petizione a nostro favore. Ma adesso, onestamente, vi chiedo: dove vorreste che andassimo? Vi siete almeno posti la domanda di quale possa essere l’alternativa per la sopravvivenza? Vi siete chiesti se questa società darebbe un lavoro a noi trans? Se non potete o se non volete risolvere questo problema, non sarebbe più opportuno che continuaste a ignorarci come avete fatto negli ultimi quarant’anni? Noi siamo in grado di sopravvivere senza disturbare nessuno e se è il vostro senso di pudore a essere disturbato (nella motivazione di chiusura si faceva riferimento al fatto che i nostri bassi dovevano essere chiusi perché erano una turbativa al senso del pudore), è un piccolo prezzo che pagate. Credeteci, noi abbiamo pagato e continuiamo a pagare molto di più. In questo quartiere poi, di chi offendiamo il pudore? Degli spacciatori di eroina? Dei venditori di merce contraffatta? Dei tossici scippatori? Non certo dei lavoratori e dei commercianti, perché quelli hanno firmato in blocco una petizione per farci rimanere, coscienti del fatto che simile provvedimento equivale a consegnare il quartiere alla delinquenza, rendendolo invivibile e intransitabile. Ma grazie di tutto, perché in fondo noi siamo felici anche così.

L’amico degli ultimi – Don Gallo visto dalle princesas, Rossella Bianchi, Imprimatur. Il messaggio di Cristo è un messaggio d’amore. Di pace. Di accoglienza. La misericordia ha braccia tanto grandi da avvolgere tutti coloro che le si affidano. È come l’amore di una madre, che all’aumentare dei figli non si divide ma si moltiplica, anzi, si innalza a potenza. E va sempre prima da chi ha più bisogno. Non perché ci sia qualcuno che bisogno non ha, perché tutti necessitiamo d’amore, forse soprattutto chi si fa sempre forza ma poi in fondo non ha forza da sé, e quando smette di illudersi, perché non ha più energie, che il suo amore basti anche per chi non lo prova, piomba nella disperazione più cupa, ma perché l’equità di un mondo si vede dal trattamento che riserva ai suoi figli più fragili. E i più fragili hanno avuto, hanno e avranno sempre, perché il suo messaggio è immortale, perché non cessano di vivere i suoi insegnamenti, perché ancora danno frutto i suoi esempi, dalla loro parte don Gallo. IL sacerdote. Il prete dagli ideali pacifisti e comunisti, che ha trascorso tutta la sua vita al fianco degli esclusi, in ascolto delle loro necessità, senza giudizi, senza pregiudizi, senza riserve. Drogati, prostitute, derelitti, per tutti la porta della Comunità di San Benedetto al Porto, a Genova, non è mai stata nemmeno per un attimo socchiusa, figurarsi serrata. Nei suoi ultimi anni di vita terrena don Andrea aveva abbracciato la causa delle transessuali della via del Campo immortalata dal più grande autore che si ricordi, battendosi affinché non  venissero cacciate dai loro bassi, e con il suo aiuto è stata fondata Princesa, presieduta dal duemilanove da Rossella Bianchi, associazione promotrice dei diritti e dell’identità sociale e personale delle persone transgender, che spesso si trovano a non poter nemmeno lavorare perché nessuno assume una persona che ha deciso di affrontare il travaglio di far somigliare il suo corpo a quello che la sua anima le dice. L’amico degli ultimi è un libro necessario.

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“Guareschi – Buona la prima!”

download.jpgdi Gabriele Ottaviani

Che la realtà di quei tempi fosse più guareschiana di Guareschi è un adagio incontrovertibile e la gustosissima serie di accadimenti, grandi e piccoli, intorno al set ne è un’ennesima e limpida testimonianza. Protagonisti ne furono lo stesso Giovannino Guareschi, i cinèr (come venivano chiamati i cineasti dai brescellesi) ma anche tanti cittadini comuni, molto spesso appartenenti alle classi più modeste, che per un caso fortuito ebbero più di un momento di gloria sotto i riflettori. È il caso della bambina che interpretò da neonata il bebè di Peppone e le mondine appena tornate dal Piemonte e subito scritturate per una scena in stazione. Addirittura anche un ergastolano uscito per buona condotta si trovò ad incrociare il suo destino con quello della troupe. Per non dimenticare il cane Leo, celebre per la sua speciale parte al seguito di don Camillo nella processione con il crocifisso verso il fiume. Tutte piccole storie che si potrebbero anche derubricare a dettagli nel contesto delle riprese ma che, al contrario, danno la misura di quel caso, ancora unico e inimitato, di una perfetta compenetrazione fra l’ambiente del cinema e e il sentire di una comunità pulsante che si è calata alla perfezione nella parte.

Guareschi – Buona la prima! – Politica, costume e stravaganze sul set di Don Camillo, Ezio Aldoni, Andrea Setti, Imprimatur. Si sa, siamo il paese dei campanili e dei campanilismi, delle due chiese, il più grande partito comunista d’occidente e la democrazia cristiana che rammentava come Dio potesse vedere finanche nell’urna le scelte compiute, a differenza di Stalin e dei suoi sodali che mai e poi mai avrebbero dovuto poggiare le suole dei loro stivalacci sul sacro terreno di San Pietro, né mai i loro cavalli gli zoccoli prima di abbeverarsi alle fontane cinte dal colonnato berniniano, che si sono date battaglia ma anche tenute bordone l’un con l’altra meno armate di quanto forse avrebbero dovuto per una lunga serie di decenni: e certamente le narrazioni guareschiane, e soprattutto i fortunatissimi film con Cervi e Fernandel che ne sono scaturiti hanno rappresentato compiutamente una realtà. Ma la verità, è noto e risaputo, supera la fantasia, anche laddove si parla d’arte, che è fatta della stessa immateriale sostanza del sogno: e così Aldoni e Setti raccontano il dietro le quinte della costruzione di un successo dipingendo limpidamente in realtà il sostrato di ciò che siamo stati, siamo e con ogni probabilità saremo, litigiosamente abbarbicati all’idea stessa d’essere migliori, tra idiosincrasie e slanci di umanità, cercando speranzosamente, qualche volta persino nostro malgrado, di costruire un paese più normale.

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