di Gabriele Ottaviani
Arriviamo al Museo delle Specie nel momento in cui Charnot, appollaiato su uno sgabello, le guance arrossate e la fronte sudata, legge Il testamento dell’uro davanti a una folla attenta. Sono nauseata. Ci saranno centocinquanta persone nella sala, una grande sala che normalmente accoglie bisonti imbalsamati, come indicano i pannelli appesi ai muri. Un po’ più in là, un tavolo su cui sono disposte bottiglie di vino, succhi di frutta, vassoi pieni di stuzzichini. La lettura deve essere cominciata da un po’. Nessuno nota la nostra presenza, le persone pendono dalle labbra del sindaco. Charnot parla con una voce grave e un ritmo strano. Non ho mai sentito leggere in quel modo. Rimango completamente sconcertata. Non sembra una voce umana, è un’altra cosa, il timbro rauco evoca un grugnito animale. Il sindaco non segue la punteggiatura, obbedisce a un tempo tutto suo, come un automobilista che ignori il codice della strada. Tuttavia, passato l’effetto sorpresa, l’orecchio si abitua. Ci sentiamo trascinati in un altro mondo, la voce animale ci incanta e…
Il testamento dell’uro, Stéphanie Hochet, Voland, traduzione di Roberto Lana. Nel sud della Francia c’è un festival letterario dove giunge come ospite di riguardo una giovane scrittrice: sarebbe tutto normale, se non fosse per l’atmosfera del luogo, stranamente inquietante e stravagante. Il fulcro di tutto pare essere il sindaco della località, una sorta di guru che incarica l’autrice di redigere nientedimeno che la biografia dell’uro, il Bos taurus primigenius antenato dei bovini moderni ed estinto, stando alle attestazioni, nonostante avesse affascinato, in quanto creatura mitica e bizzarra, finanche i nazisti, perlomeno dal diciassettesimo secolo. Non è però che l’inizio di un’avventura allegorica, trascinante, destabilizzante e visionaria…