Intervista, Libri

Domenico Astuti e il senso di una vita immaginata…

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Domenico Astuti è l’autore dell’intenso Il senso di una vita immaginata: Convenzionali lo intervista per voi.

Da dove nasce questo romanzo?

Un romanzo nasce da tante premesse comunicative, che sono private, pubbliche e appartengono al sogno e alla fantasia.  Ma anche in parte a debiti narrativi minimi e massimi. Il senso di una vita immaginata nasce da questo magma, a volte con pensieri contraddittori e apparentemente poco conciliabili.  E’ un viaggio a vari strati emotivi ed esistenziali fatto con lo stile dell’improvvisazione e in parte anti narrativo.

La sua opera affronta numerosi temi: qual è per lei il significato della libertà?

La libertà in questi tempi è una parola così disossata e dissacrata che sembra alla portata di tutti come se  ci trovassimo in un supermercato. In realtà ha bisogno di continua conquista e anche di distonia quotidiana. La libertà è come l’aria all’alba ma anche faticosissima, per i prezzi che si pagano.

Della memoria?

Bisognerebbe utilizzarla con molta cura e circospezione.

Della famiglia?

Esiste ancora in Occidente. Come scelta o conseguenza ?

Del tempo?

Ma il tempo in fondo non esiste, siamo noi a costruircelo per bisogno di sicurezza o di ribellione.

Dell’amore?

Parola ancora troppo semplice per non essere complessa.

Perché scrive?

Perché si scrive? Per fantasticare, per pensare, per fermare una parte di tempo provvisorio, per fuggire della realtà o forse per comprenderla, per dare un senso a delle vite immaginate o perché è il modo più economico per viaggiare.

Qual è il ruolo dello scrittore nella società?   

In questa società non ci sono reali ruoli, sono solo delle apparenze collettive. Il ruolo dell’artista si è fermato in qualche modo al secolo scorso.

Qual è la situazione culturale italiana? 

La cultura è anche la proiezione della società che la produce (tranne forse che nel Rinascimento), quindi non molto dissimile oggi dalla politica, dalla società dello spettacolo, dal mondo del lavoro.

Quale libro avrebbe voluto scrivere e quale non ha ancora scritto ma scriverà?

Delle pagine di Cèline o di Camus o di Joseph Roth, di Zweig, di Canetti… Che comunque non potrei mai scrivere. Quello che scriverò è ancora nel mio Es.

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Libri

“Il senso di una vita immaginata”

31S454L5ulL._AC_US218_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Nell’ultimo giorno che trascorremmo a Parigi, mio padre si svegliò di cattivo umore. Mi salutò appena, non rispose quando gli feci una domanda, stava per scendere a colazione senza aspettarmi. Lo chiamai dalla soglia della stanza mentre era immobile davanti alle porte chiuse dell’ascensore; si voltò, ma il suo viso non comunicava nulla. Proprio nulla! Quando ci sedemmo a fare colazione io mangiai il cornetto in silenzio guardando solo il tavolo, avevo timore di guardarlo, lui bevve tre caffè. Sembrava avvertisse una nausea fisica, ma non doveva essere l’esito di un peccato del vivere, tantomeno la conseguenza di un comportamento deliberatamente scelto. Sul suo viso traspariva uno stupore, come se tutti i sentimenti si fossero prosciugati e quello che rimaneva era la sola conoscenza della vita, il suo ricordo senza particolari emozioni. Uscimmo dall’albergo e iniziammo a camminare senza una meta. Mio padre era così chiuso in sé da evitare di guardarsi intorno, penso che mi avesse emotivamente dimenticato anche un po’. In quei momenti niente gli avrebbe dato sollievo, né incontrare un amico né ricevere una bella notizia tantomeno andare a sbattere contro una bella donna. Superammo Place Colette, era vuota, sembrava più ampia e noi più piccoli. Attraversammo tutta rue Saint Honoré, il vento freddo smuoveva tutto e giungeva un odore di plastica, gas di scarico di auto e di cibo fritto. Girammo per rue Royale, chissà perché qui si sentiva l’autunno in tutta la sua malinconia, trasudava dagli alberi, dagli angoli umidi, dalle sedie dei caffè ancora raccolte una sull’altra lungo il marciapiede. Giungemmo ad Avenue des Champs Elysées, muovendoci come due astronauti appena usciti dalla navicella spaziale. La percorremmo tutta nonostante un vento gelido ci schiaffeggiasse e il nevischio sul terreno che ci faceva slittare. Non ho mai visto Parigi così desolata, più che deserta era nuda.

Il senso di una vita immaginata, Domenico Astuti, Nulla die. Stefano è figlio di suo padre. Con cui, figura sfuggente e molteplice, piena di senso e di inquietudine, finalmente, dopo aver per tutta la vita brancolato tentando di sovrapporre le proprie orme a quelle del genitore, di viaggio in viaggio, di passione in passione, di ossessione in ossessione, di dolore in dolore, di gioia in gioia, aprendo brecce nei muri che ha messo tra sé e il mondo per proteggersi confrontandosi con la diversità, è, cinquantenne, arrivato alla necessità di riconciliarsi. È a Parigi – città dove l’autore, che si è laureato in filosofia e si vede lontano un miglio leggendo la sua dottissima e assai raffinata prosa, in cui c’è tutta la concezione bergsoniana del tempo e anche quella nietzschiana della famiglia al suo apice, ha vissuto – per scrivere un romanzo sull’uomo di cui eterna i geni. E le miserie. E… Costruito come un flusso di coscienza, è un suadente apologo sull’amore e la libertà.

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