di Gabriele Ottaviani
I molti e non affatto eccentrici paragoni che sono stati proposti dalla grande stampa tra la Tangentopoli di vent’anni fa e quella clamorosamente deflagrata con i casi dell’Expo di Milano, del Mose di Venezia e della brutta saga romana di oggi, portano dentro il sentimento malmostoso di una pubblica opinione ferita e indignata. Ai nostri giorni così come nei primi anni Novanta. Nuove cospicue fascine nel già colmo fienile della considerazione miserevole che la politica e i suoi attori raccolgono nell’opinione dei cittadini. Ma, attenzione: rispetto alla Tangentopoli «storica», c’è un di più, se è possibile, nella colonna del «disvalore» a carico della politica. E quel di più si chiama, appunto, «incompetenza». La viziosa sintesi che s’insinua nell’immaginario del corpo elettorale è più o meno questa: «Non solo disonesti, ma anche inetti, impreparati, ignoranti». Certo, la vulgata tiene un occhio fisso sui telegiornali e sul racconto disarmante dei «contenitori» televisivi per così dire «satirici», dove l’allegro zimbello è il politico che sembra fare il verso a Cetto La Qualunque: quando si dice l’iperrealismo… Ma non v’è dubbio sul fatto che l’accesso alle carriere politiche, in particolare quelle parlamentari, sembra oggi il frutto di una selezione fatta col metodo random sulla base di una campionatura ispirata alla naïveté. E alla medietà più assoluta: un’estrazione a sorte che prendesse a base l’intero universo della cittadinanza italiana darebbe per forza statistica almeno qualche numero di eccellenza in più. C’è, allora, da capire perché il nostro ceto politico è messo così come è messo. E da chiedersi se l’allegro dilettantismo dominante non sia per caso l’effetto di una qualche slabbratura sul versante dei processi di formazione. Non disturbiamo Max Weber e la sua triade perfetta (passione, responsabilità, lungimiranza) che illustra le qualità del «politico per professione» (o «per vocazione»), e restiamo sul terreno empirico dell’esperienza repubblicana nel Belpaese, peraltro molto «visitata» dalla ricerca politologica e costituzionalistica. Formuliamo, allora, chiaramente la domanda: con quale bagaglio di esperienze, di competenze, di attitudini, si arriva a svolgere la funzione di rappresentanza politica, oggi?
Qualcuno, per non dire quasi tutti, con ogni probabilità risponderebbe semplicemente “nessuno” alla domanda posta alla fine del paragrafo qui sopra riportato e tratto dall’interessante volume di Pino Pisicchio I dilettanti (Guerini e associati): nessun bagaglio. La risposta di Pisicchio è decisamente più argomentata e significativa, nonché meno qualunquista: certo è che effettivamente il problema in merito alla situazione politica italiana, quantomeno complessa e particolare, per non dire con maggiore schiettezza anomala, c’è. Quantomeno, se ne ha la percezione: il comune cittadino sente generalmente, stando alle chiacchiere più o meno da bar, di non essere ben rappresentato, immagina che al governo non vi siano veramente le migliori intelligenze e le persone di più specchiata moralità possibile, è stanco di scandali continui e costanti. Pisicchio scrive un saggio documentato e profondo, dettagliato e puntuale, che ha il dono della leggibilità, nonostante la raffinatezza della prosa possa far pensare a una prima occhiata che il testo non sia solo denso, ma anche difficile. Beh, non è affatto così.