di Gabriele Ottaviani
1988 Warner – Marie McLaughlin (Violetta), Walter MacNeil (Alfredo), Brent Ellis (Germont); coro del Festival di Glyndebourne, orchestra London Philhar‑ monic, direttore Bernard Haitink, regia teatrale e video Peter Hall Ancorché presente in qualunque teatro grande o piccolo, al chiuso o all’aperto, questa è tuttavia un’opera che, nel suo rifarsi al teatro da camera, in ambienti di ridotte dimensioni acquista molto: ideale, pertanto, quello della vecchia sala di Glyndebourne che per giunta, trovandosi in Inghilterra, assicura già in partenza un invidiabile livello di recitazione collettiva. Lo so di ripetermi, ma sul fatto che l’Inghilterra abbia sempre avuto – e tuttora abbia – il miglior teatro del mondo, non ci piove. Sanno recitare, perdiana. Tutti: dal prim’attore all’ultima comparsa. Non solo, ma padroneggiano qualunque repertorio, e il teatro lirico non costituisce affatto un’eccezione: non potrebbe, del resto, giacché il pubblico ma anche i colleghi di un eventuale incapace non l’accetterebbero. Se poi questo accade nella pratica quotidiana, figuriamoci nell’ambito d’un festival nel quale sono inderogabili sei settimane di prove per ogni spettacolo, frequentate dal primo all’ultimo dei suoi artefici, pena la sostituzione dell’incauto che sgarri. Puntualmente, qui si recita in modo strepitoso. Si può essere più o meno d’accordo su questa o quella soluzione visiva, ma che si tratti di teatro, e di teatro al massimo livello di professionalità, non è un’opinione ma un fatto. Se questo conta sempre, a maggior ragione conta nell’opera che, nel proprio spiccato realismo sociale, è tra le più moderne di Verdi. L’impianto centrale della messinscena di Peter Hall ruota dunque attorno a un accentuato realismo, dal quale vengono espunte tutte le divagazioni patinate per concentrarsi sul nodo della situazione, ovvero sui singoli personaggi. L’ambiente è schizzato con rapidità che rende piena giustizia all’analoga stringatezza verdiana. Le due feste sono, inequivocabilmente, ambientate in locali appena un gradino al di sopra del bordello: concetto stilizzato subito da due immagini poste ad apertura delle due rispettive scene. Quella di Violetta, dominata da un grande nudo femminile tizianesco sullo sfondo, si apre su invitati un po’ sfatti dall’alcol, che così come ottunde le menti sbrindella l’abbigliamento: con un vecchio bavoso seduto malfermo su una seggiola, che paga denaro sonante perché una ragazza sdraiata davanti a lui sollevi le gonne, unico senso rimasto un po’ vivo essendo la vista. Quella di Flora inizia sul concludersi d’uno spogliarello, in un salone cui si accede da un’invisibile scalinata sul fondo, dominata da un immenso orologio retto da pacchiani putti marmorei. Entrambi gli ambienti sono immersi in colori sbiaditi, atmosfere fumose e senz’altro equivoche, con maschere bianche e vagamente inquietanti che si aggirano tra facce ancor più maschere delle loro. Movimenti calcolati al millimetro, aplomb perfetto non solo di ogni personaggio ma anche di ciascuno dei coristi. E, soprattutto, controscene molto efficaci. La caratterizzazione del barone Douphol, ad esempio – personaggio drammaticamente così importante e tuttavia di regola quasi indistinguibile – è magnifica nel suo gelido distacco da maturo e aristocratico viveur. Annina è figura più articolata del consueto, col comparire fin dalla festa del prim’atto, e poi con quella sua aria felicemente sorpresa (tornano i quattrini!) al «Reca tu stessa questo foglio»; e molti altri esempi del genere caratterizzano le varie figure di contorno. Ma, naturalmente, sono i personaggi centrali a spiccare. Cantanti-attori tutti e tre di livello notevole non solo nel sapersi muovere molto bene, ma nel tendere spontaneamente verso una recitazione articolata, che ricerca l’apporto degli altri per integrarsi in un quadro generale, evitando nel modo più assoluto l’atteggiamento mattatoriale. In una condotta narrativa fluida ed estremamente logica, dunque, si inseriscono tocchi più specificamente registici di grande efficacia. Raramente, ad esempio, è apparso tanto ricco di sfumature il primo dialogo tra Violetta e Alfredo (che si svolge a tavola, in un ambiente tutto specchi opachi che riflettono ombre evanescenti e spettrali), dove canto e recitazione s’integrano alla perfezione. Bella l’idea – sarà impiegata anche dagli Herrmann – del malore di Violetta, che sputa sangue in un fazzoletto e poi lo getta rabbiosamente sotto la tavola; la tubercolosi riappare in prima persona al terz’atto, nelle macchie di sangue sparse sul cuscino di Violetta, quello stesso che Annina, al sopraggiungere del dottore, rivolta per nasconderle. E poi il bellissimo dialogo Violetta-Germont: lei che scivola lentamente in ginocchio esalando un «Dite alla giovine» esausto, amarissimo, più monologo interiore che preghiera. Regia insomma come la intendono gli inglesi: teatro nel quale la scenografia «fa cornice» anziché essere il fulcro dello svolgimento narrativo, e nel quale la figura del regista-demiurgo quasi non si nota, celata com’è dietro la perfetta recitazione di chiunque sia destinato a comparire sul palcoscenico. Gran teatro, allora: in simbiosi con una condotta musicale attestata su livello indubbiamente meno alto ma sempre, in ogni punto della frastagliata e insidiosa partitura, di buon livello. La direzione di Haitink, per la verità, inizia maluccio con un preludio floscio, alquanto inerte e meccanico oppure, come nell’anticipo della melodia del «Brindisi», decisamente greve. Poi prende quota, in una condotta narrativa pur sempre incline al tempo lento e al suono più massiccio che agile e nervoso. Precisione, cura nei dettagli, senso della narrazione e dello sviluppo teatrale nei frequenti episodi dialogati (riesce particolarmente bene la festa da Flora, con un colloquio Violetta-Alfredo smozzicato e convulso culminante in un «Ebben, l’amo» reso un urlo disperato) sono inframmezzati da taluni momenti francamente brutti: l’aria di Germont, ad esempio, della quale viene ripristinata una cabaletta che, qualora tanto saltellante, metronomica e greve come questa, induce quasi a rimpiangere le tradizioni «snellenti». Prevalgono, però, gli episodi riusciti. Il preludio dell’ultimo atto, ad esempio: lento, austero, denso di suono, non commuove con tristissima elegia bensì accusa con austera amarezza. E la regia televisiva (dello stesso Hall) traduce tale atteggiamento interpretativo con un virtuosistico carrello che è una galleria insieme squallida e commossa di nature morte, dalle mani grosse e callose di Annina dormiente alle maschere già viste nelle due feste, a dettagli d’arredamento, alle macchie di sangue sul cuscino, ai ventagli, senza che mai venga inquadrata Violetta se non sull’ultima nota: ed è apparizione impressionante nel suo disfatto, cadaverico pallore. Violetta non è in tutto e per tutto idonea alla caratura vocale della McLaughlin. Quella della vecchia Glyndebourne, tuttavia, era sala ancor più piccola dell’attuale, così che certi passaggi scabrosi possono essere superati senza esagerare in forzature, consentendo allo spontaneo lirismo d’una voce bella, timbrata, ben emessa, di farsi valere. In casi del genere, ovvio, la partita la si gioca sul fronte del fraseggio e della musicalità al fine di costruire il personaggio compensando con l’accento e col lavoro sulla dinamica quanto manca sul terreno dello spessore e anche – nel prim’atto – dell’abilità nello sgranare la coloratura: qualcosa di molto moderno, in definitiva, qualcosa che nel tempo ha fatto crescere di statura questa registrazione. Fraseggio dunque notevolissimo (le scene di conversazione, tanto essenziali in quest’opera, sono padroneggiate ammirevolmente), in seno a una linea vocale svolta con legati apprezzabili e apprezzabilissima abilità – frutto di musicalità di livello strumentale – nel variare l’intensità del suono a fini espressivi: il tutto al servizio d’un gioco scenico d’alta classe cui certo non nuoce la discreta avvenenza. Più pallidi i due interpreti maschili. Walter MacNeil non canta davvero male ma è spesso opaco, sforzato, piuttosto meccanico nella vocalizzazione concitata: emerge nell’invettiva a Violetta in casa di Flora e nei passi di conversazione. E il Germont di Brent Ellis è scenicamente splendido nella propria pomposa antipatia calcolatrice, ma non sa trovare, nel canto, né la consueta nota d’affetto per lo meno paterno, né la proterva meschinità borghese che molto meglio s’adatta a tale figura: la voce così arida e strangolata, inoltre, per tacere degli acuti allo sbaraglio, giustifica ben poco la riapertura della cabaletta che, all’epoca, costituiva una discreta novità. Però, guardando a questo video con la distanza consentita dal «dopo», è comunque un Germont che canta e che fraseggia nel canto, non «sul» canto come sarà sempre più il caso anche in interpreti solitamente di grande intelligenza come – per fare solo un esempio – Thomas Hampson. Discrete, nel loro complesso, le parti di fianco per ciò che attiene alle linee vocali: scenicamente, come dicevo, sono non meno che eccezionali. Il coro non è un granché ma per lo meno ce la mette tutta oltre a recitare in modo eccelso; e la London Philharmonic suona magnificamente. Di poco posteriore, una recita in un teatro italiano peraltro non secondario come la veneziana Fenice a un eventuale confronto evidenzia come più crudamente non si potrebbe due concezioni antitetiche della pratica teatrale quotidiana: interlocutorie entrambe, ma protesa verso un autentico futuro moderno l’una, mentre l’altra fa solo finta, e lo fa per giunta male.
L’Ottocento – L’Opera. Storia, teatro, regia – Volume secondo: Verdi e Wagner, Elvio Giudici, Il saggiatore. Langhirano (Parma) 6 gennaio 1944. Critico musicale (Musica, Diario, Classic Voice). Autore de L’opera in cd e video (Il Saggiatore), «il libro che recensisce tutte le edizioni discografiche di tutti i tempi di tutte le opere liriche di tutti gli autori. Dando i numeri: 218 musicisti, 735 melodrammi, 2.336 edizioni solo audio e 250 anche video. Giudici fa il critico e basta. Non è un maestro di canto né un agente né un press agent né aspirante direttore artistico. Quindi, oltre a pensare quello che dice, dice quello che pensa: due caratteristiche abbastanza rare, nel mondo dell’opera» (Alberto Mattioli). «In Italia esistono due categorie di melomani: quelli che hanno letto L’opera in cd e video di Elvio Giudici e i bugiardi» [Operadisc.com 21.10.2012]. «Lui fascistissimo, io di sinistra. Lui parecchio apodittico, io amante dei cavilli e dei “però…”. Ma era impossibile non essere affascinati dalla profonda cultura generale, da un certo suo modo d’istituire collegamenti, di formulare definizioni fulminanti, d’una sua tutta particolare disponibilità ad accogliere i pareri d’uno che in definitiva poteva essere suo figlio, ma su cui s’informava con tatto e con una ruvidezza financo affettuosa, su certi aspetti del privato che voleva conoscere non per emettere giudizi bensì per chiarirsi le idee. E difatti se l’è chiarite, facendo poi considerazioni di particolare acume che non ho mai dimenticato. Anche perché era uno che di persone ne aveva conosciute tante, facendo il dirigente della Motta» (parlando del suo rapporto con Rodolfo Celletti, capostipite italiano della critica discografica, delle cui tematiche Giudici è ritenuto continuatore) (ibidem). Sostenitore dell’importanza della regia nell’allestimento di un’opera perché «tanto è più grande il teatro musicale, quanto più nasce attorno a personaggi di cui traccia profili psicologici, la loro evoluzione, i loro rapporti specifici e – talora – con l’ambiente che li esprime. Le note debbono esserci, e sarebbe ben bizzarro sostenere il contrario. Ma le note debbono possedere un loro senso espressivo, e soprattutto oggi debbono pure avere un subito riconoscibile equivalente gestuale. Sennò non è teatro. È esercitazione vocale» (ibidem). «Io credo di non essere “diventato” proprio niente: sono rimasto sempre Elvio, magari solo molto più vecchio e un po’ più pratico nell’organizzare un discorso sul teatro musicale rispetto a quando ho cominciato a scrivere sulla neonata rivista Musica trentacinque anni fa. Se c’è una cosa che vorrei chiarire subito circa il “come si diventa”, è quella di non essermi mai ritenuto uno di quegli strani animali esotici noti come “maître-à-penser”: non foss’altro perché per somma fortuna io sono dotato d’un fortissimo istinto da bastian contrario» (a Operadisc che gli chiedeva “come si fa a diventare Elvio Giudici”). Nel 2012 ha pubblicato Il teatro di Verdi in scena e dvd (Il Saggiatore) «la storia teatrale (e non solo musicale) dei capolavori di Verdi, raccontata dal critico operistico più autorevole d’Italia, ripercorrendo le tappe delle più significative rappresentazioni verdiane per capire come è cambiata la regia del melodramma negli ultimi sessant’anni» [leggilanotizia.it 1.7.2013]. “La maledizione della drammaturgia verdiana è «il grossolano equivoco del nazionalpopolare» da cui è sempre scappato via. «Ogni incontro col pubblico di Riccardo Muti significava sentirsi ripetere la fregnaccia dannunziana del “pianse ed amò per tutti”, da cui: cuore in mano, la passione, il fuoco del Trovatore, le tre voci diverse per Violetta, il realismo confuso col verosimile, l’annacquamento sistematico d’ogni tratto sgradevole o persin laido in nome d’un buonismo di fondo e d’un supposto ideale etico da Principio Morale Superiore cui tantissimo ha contribuito nel dopoguerra l’estetica sinistrorsa del neorealismo. Remare contro questo paralizzante iradiddio è quasi altrettanto difficile dello sglassare lo strato zuccherino che avvolge la drammaturgia pucciniana. Arduo. Ma lo si sta cominciando a fare, e con sempre maggiore decisione» (ibidem)”. Dal 1971 vive a Milano con l’ex pubblicitario in pensione Giancarlo Cerisola: «Io non ho mai creduto all’outing proclamato con trombe e bandiere. Ma non ho mai nemmeno negato. Se qualcuno voleva sapere, non aveva che da chiedere». «Il punto è che nell’immaginario collettivo gli omosessuali sono o quelli modello Vizietto o gli sfigati da film di Fassbinder, condannati all’infelicità. O magari i grandi sarti. Però il problema non sono gli stilisti, ma gli impiegati di banca. Credo che, come testimoni, in tutti questi anni Giancarlo e io abbiamo fatto molto più effetto su chi ci conosce di un Gay Pride. Noi non siamo folkloristici. Siamo persone normali che si vogliono bene». Di lui così scrive Giorgio Dell’Arti, giornalista, scrittore, storico, conduttore radiofonico, fondatore del supplemento di Repubblica Il Venerdì: quel che è certo è che Elvio Giudici è uno straordinario critico musicale, uno dei più noti a livello non solo nazionale ma pure internazionale, dato anche il fatto che sovente il pregio culturale viene assai più apprezzato al di là dei patrii confini. Giudici prosegue in questa occasione la sua monumentale esegesi in merito al teatro musicale analizzando fin nel più minuto dettaglio del più misconosciuto allestimento le principali opere di due giganti dell’arte come Verdi e Wagner: un’opera grandiosa, formidabilmente divulgativa e realmente assai affascinante anche per chi non sia propriamente un appassionato melomane. Da custodire gelosamente.