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“Disturbi di luminosità”

62ffb5305adi Gabriele Ottaviani

Ma sono bisessuale, dico. Etero confusa, dicono. A te piace piacere, dicono. Quindi devo scontare?, dico. Tu non hai neanche la patente, dicono. Se t’invitano a cena ci vai, dicono. No, giuro, non ci andrò più. Devi difenderti da sola, dicono. E hanno la voce di mia madre. Sto cercando un dialogo con l’assoluto. E mi risponde l’estraneo. Ogni estraneo tenta di rieducarmi. Millenovecentottantaquattro castelli da cui non si può uscire. Ah, ma sei nata buona, dicono. La pazzia è arrivata dopo, dicono. Ho un buco nel torace, dico. Un buco profondo un inferno, dico. E chi può occuparsi di te, dicono. A chi importa il tuo dolore, dicono. Ma forse potremmo pensare di essere persone libere, dico. E fraternizzare per il semplice fatto di essere persone, dico. L’assoluto ci assolverà. Cerchi ancora Dio, dicono. Dio Padre Fallo. No, non cerco quel Dio. Cerco l’eternità. Sei fuori sei fuori sei fuori dall’eternità. È già prenotata per i figli dei politici, per le amanti degli intellettuali, per i servi dei potenti. Non puoi neanche guardare dalla feritoia. Siamo rimasti tutti intaccati dalla caduta. Tutti, restammo vivi morendo. Cerchiamo chi ci salvi. O ci dissolva. Qualunque cosa pur di non vedere la fine. Devi smettere se non ti capiscono, dice l’Oracolo. Dimmi dell’acqua, dice. Dimmi del sesso, dice. Dimmi di Roma e della tua solitudine. Gli racconto il sogno che ho fatto. Ero entrata furtivamente in casa di Non So Chi, e non sapeva fossi lì. Dormivo sul divano. Era buia questa casa, le luci erano spente ed era forse l’alba. Al risveglio – nel sogno – Non So Chi scopriva la mia presenza e diceva, guarda che sapevo fossi qui, ma non è una cosa corretta che hai fatto.

Disturbi di luminosità, Ilaria Palomba, Gaffi. Con un racconto di Anna Corsini. Non ha nome. È una donna affetta da un disturbo borderline della personalità. Tutto avviene nella sua mente, un flusso di coscienza, una tempesta devastante generata dal dolore più atroce, quello insopprimibile innescato da uno stupro, da un atto, come quello dell’amore, che dovrebbe dare solo piacere e che invece diventa la violenza più proterva e abominevole: lei è dappertutto, è sempre in fuga, in numerosi altrove in cerca di pace, accompagnata da figure enigmatiche che le tolgono pace e la costringono sul ciglio della sua disperazione a oscillare tra aspirazioni e depressioni. Ma… Potente, straziante, struggente, emozionante, commovente, imbevuto di una sensibilità che non può lasciare indifferenti, rifugge ogni categoria e conquista l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima parola.

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Intervista, Libri

Ilaria Palomba: “Il disagio non merita disprezzo”

62ffb5305a.jpgdi Gabriele Ottaviani

Ilaria Palomba è l’autrice dell’intenso, potentissimo e struggente Disturbi di luminosità: Convenzionali ha il piacere di intervistarla.

Da dove nasce Disturbi di luminosità?

È un libro parzialmente autobiografico, la prima parte totalmente autobiografica, la seconda è una costruzione immaginifica. In coda c’è un racconto su Basaglia di Anna Corsini. C’è molto Basaglia in Disturbi, a un livello astratto, di pensiero. Molto Nietzsche, molto Bataille, molto Deleuze e un po’ di Foucault. Non è un romanzo, forse si potrebbe definire antiromanzo. L’unico modo che avevo per parlare della mia esperienza di abuso e conseguente squilibrio psicofisico era farne poesia.

Come si guarisce dal male di vivere?

Non si guarisce. Si impara ad accettare un sentire troppo intenso. Può servire, talvolta, abbandonare ogni cosa e riflettere. Non tutti possono permetterselo ma sarebbe in realtà necessario. Quando non puoi separarti dal fluire caotico degli eventi e percepisci un disagio, allora sei in una sorta di gabbia, tutto diventa una gabbia, il mondo, l’altro, il corpo. Personalmente posso dire che la letteratura e la filosofia sono sempre state degli ottimi viatici nei momenti di buio.

Che influenza hanno sulla vita e sull’arte temi come la nascita, la morte, la paura, il dolore?

Sono i grandi temi affrontati dai più grandi autori, si pensi a Goethe, Dostoevskij, Thomas Mann, Camus, Virginia Woolf, Carver. Anche l’arte contemporanea non fa che riflettere costantemente su questi temi. Mi vengono in mentre Chris Burden, Franko B, Gina Pane, l’immancabile Abramovic. Anche se adesso l’arte sembra essere più vicina alla scienza che alla letteratura, c’è un’attenzione morbosa per il funzionamento interno dei corpi intesi come meccanismi, noto un accostarsi dell’arte all’informatica, alle neuroscienze e alla fisica dei quanti. Io mi ritengo una voce ancora legata al Novecento, quando scrivo mi ritrovo a ragionare sulle origini del dolore, sull’estremo dell’amore, sulla pulsione di morte. Sono i miei temi, sono ossessionata dalla fine delle cose. La fine, l’abbandono, la morte, sono proprio le cose che più temo quelle da cui parto per tracciare una storia.

La protagonista è in fuga: prima di tutto da sé medesima, ma non solo. Da cosa scappa la nostra società secondo lei, quale responsabilità non ha voglia di affrontare?

Tutti siamo in fuga dall’assenza di futuro. La protagonista si è per certi versi arresa. Si percepisce come preda e diventa a sua volta predatore. È una catena mortale, e lei lo sa. Sa di appartenere a un girone dell’inferno in terra. Credo che stiamo affrontando dei cambiamenti molto rapidi in ogni ambito della vita, l’uomo è troppo piccolo rispetto alla velocità che ha creato. L’uomo vuole farsi Dio ma non riuscirà mai davvero nell’intento. Non è riuscito neanche a diventare un ponte perché non vuole tramontare. Ogni epoca ha avuto i suoi scarti. Io racconto quegli scarti. Di chi ce la fa non m’importa nulla.

Lei ha lavorato in un centro diurno di psichiatria come operatrice letteraria: che esperienza è stata?

Stiamo giusto per pubblicare il libro nato dal mio laboratorio: Quattro passi nella storia – Gli amanti di Madama Lucrezia. Si è trattato di scrittura collettiva. Un modo per giocare da adulti. È stata un’esperienza di creazione pura. Il libro parla di Roma, statue parlanti, amicizia, amore e arte. Una ragazza storica dell’arte ha curato la sezione monumentale e poi tutti insieme abbiamo inventato le piccole storie dei personaggi. Non vedo l’ora sia edito! Ci sono voluti tre anni di laboratorio e ora finalmente abbiamo il nostro libro!

Che messaggio vuole trasmettere ai suoi lettori con questo libro?

Disturbi di luminosità è un urlo. Voglio poter essere ascoltata. Voglio che si guardi al disagio con meno disprezzo.

 

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“Estate indiana”

41mumJ5nUbL._AC_US218_di Gabriele Ottaviani

«Li vedo poco. Non che a loro gliene freghi qualcosa. Ho lanciato l’idea di andarcene una settimana a Jasper in tenda. Sa cosa m’hanno risposto? “Neanche morti, papà”. Capisce? Neanche morti. Stanno diventando due personcine con i fiocchi. Due veri gioielli. La femmina peggio del maschio. La madre sta facendo un ottimo lavoro. Li trasformerà in due cazzo di nazisti senza cuore come lei».

Estate indiana, Mauro Casiraghi, Gaffi. Gemmea l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l’odorino amaro senti nel cuore… Ma secco è il pruno, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno, vuoto il cielo, e cavo al piè sonante sembra il terreno. Silenzio, intorno: solo, alle ventate, odi lontano, da giardini ed orti, di foglie un cader fragile. È l’estate, fredda, dei morti. Così il poeta: è l’estate di san Martino, che nei paesi anglosassoni viene detta estate indiana. Un’illusione, la quiete prima della tempesta, una mite dolcezza prima che arrivi il gelo, prima che il distacco ti faccia sentire in preda all’abbandono, come un aratro in mezzo alla maggese: una pausa dal dolore, dalla colpa, dall’intollerabile, dall’innaturale. Come il sentimento che Peter ha dovuto reprimere, e a causa del quale si è isolato dal resto del mondo. Un evento naturale, inevitabile e prevedibile, però, lo costringe a partire. A tornare sui suoi passi. A elaborare. A riflettere sulla natura dei rivolgimenti del cuore… Intenso, emozionante, da leggere.

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“L’ultimo singolo di Lucio Battisti”

Cover_Angelini2.jpgdi Gabriele Ottaviani

Fu una cerimonia noiosa, ingessata, tirata come l’uniforme di Romano. I sacerdoti avevano un pastrano con la croce di Malta in petto. La chiesa era solenne; tre navate con struttura a croce latina. Colonne in marmo bianco. Altare in stucco. Nella calca dei saluti e delle congratulazioni finali, (e guai a chi avesse tirato il riso! – aveva avvertito Laura) sulla porta della chiesa Natale riuscì a mala pena a dire ciao agli sposi. Poi venne sequestrato da Roberto e Fabrizio che avevano la macchina. Il pranzo si sarebbe svolto in un castello medievale in Sabina, probabilmente appartenuto al principe Magnabosco, anche se nessuno lo dava per certo. Ci misero un’ora ad arrivare. Per entrare si salivano impervi gradoni in pietra, costeggiati da candele a terra. Si passava attraverso una porta sovrastata da un arco a torrette e si sbucava su un giardino pieno di querce faggi e lecci. Un verdissimo prato all’inglese pettinava il terreno che digradava dolcemente verso un boschetto e offriva una vista mozzafiato della vallata. Il sole splendeva alto quel sabato 15 aprile. Sembrava non esserci pericolo di pioggia e i tavoli erano stati sistemati all’aperto, ognuno sotto un ombrellone. Intorno a un pozzo, sull’altro lato del castello, erano stati apparecchiati altri tavoli per l’aperitivo.

L’Italia è la terra dei campanili, di Peppone e Don Camillo, dei ladri di Pisa che secondo il proverbio, con ogni probabilità, verrebbe da dire, messo in giro da un livornese, il giorno litigano e la notte vanno a rubare insieme, è una nazione fondata sull’istituto della famiglia, con le sue tradizioni, i propri riti e numerose idiosincrasie: ed è proprio di famiglia, anzi, di famiglie, tre, per la precisione, microcosmi che si fanno riverbero particolare di un senso generale per la vita e l’appartenenza, e d’Italia che parla il gran bel romanzo di Adriano Angelini Sut L’ultimo singolo di Lucio Battisti, edito da Gaffi e nella longlist del Premio Strega per cui è stato presentato da Simonetta Bartolini. È una vera e propria saga – nonché senza dubbio un collettivo Bildungsroman per molti degli assai ben caratterizzati personaggi, i cui ritratti, così come quelli degli ambienti e delle situazioni, sono credibili e dettagliati – d’amplissimo respiro, che parte circa tre lustri dopo la fine della seconda guerra mondiale e arriva alle soglie del terzo millennio, a quel millenovecentonovantotto che per tutti i fan del cantante di Poggio Bustone ha rappresentato un grandissimo dolore perché ha simboleggiato il momento della sua scomparsa, del suo definitivo passaggio, per chi crede, a una vita migliore, a una terra dove, a quel che si pensa, si dice, si millanta, si immagina e, appunto, si crede, ogni contrapposizione sarà pacificata. Da non perdere.

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Adriano Angelini Sut: “Il tempo divora i sogni”

download.jpgdi Gabriele Ottaviani

Adriano Angelini Sut ha scritto per Gaffi L’ultimo singolo di Lucio Battisti, nella longlist dello Strega: Convenzionali ha il grandissimo piacere di intervistarlo.

Da dove nasce questo romanzo?

Questo romanzo nasce dall’esigenza di raccontare i cambiamenti occorsi nella nostra Italia negli ultimi vent’anni. Ma non mi interessava raccontare proprio questi cambiamenti, che io reputo disastrosi. A me interessava raccontare Roma in particolare (che è un po’ lo specchio d’Italia) nei suoi momenti migliori, la sua crescita come città simbolo dal dopoguerra, i due boom economici degli anni ‘60 e ’80 del secolo scorso. Mi interessava dare voce a quelle categorie, la piccola borghesia produttiva, così bistrattata dalla cultura mainstream. E, se se ne parla, lo si fa solo per sottolinearne aspetti negativi. Mi interessava mostrare la bellezza di una città, la capitale d’Italia, con tutte le sue contraddizioni. Bellezza che oggi non c’è quasi più. Oggi Roma sembra una Calcutta qualsiasi. E lo dico senza timore di offendere nessuno. Senza ipocrisia. Calcutta è brutta, Roma no. E non dovrebbe assomigliarle. Mi interessava mettere in evidenza i cambiamenti disastrosi degli ultimi vent’anni, raccontando i bei tempi che furono, prima, molto prima.

Cosa rappresenta il tempo?

Un divoratore di sogni. Un mostro impossibile da sconfiggere al quale dobbiamo piegarci. Siamo imprigionati in questa dimensione spazio-temporale. La fisica moderna ha scoperto che il tessuto che compone l’universo si chiama spazio-tempo, un’unica parola a simboleggiare come siano la stessa identica cosa. E’ una gigantesca onda energetica che si piega al passaggio degli oggetti e crea la gravità. Lui vince sempre, perché si piega, si lascia scivolare tutto addosso, e ci risputa via.

Che valore ha la musica?

Per me è il fondamento della vita; i buddisti hanno ragione in una cosa. La vita è suono, l’OM originario che permea il sottofondo di quello spazio-tempo di cui sopra. Negare la musica è negare la vita.

Cosa ha fatto sì che Lucio Battisti sia diventato un mito per più di una generazione?

Semplicemente perché è stato il più bravo, il più talentuoso, il più ispirato. Negli anni ‘70 non lo hanno voluto ammettere per cecità politica (ma David Bowie glielo ha ricordato). A 40 anni di distanza i ragazzi cantano ancora le sue canzoni mentre i ‘grandi cantautori’ impegnati di quegli anni sono (quasi) scomparsi.

Cosa ha simboleggiato la stagione del cantautorato italiano?

Un momento di estrema creatività imbrigliata dalle ideologie (sia di destra che di sinistra). Sa una cosa, io oggi sto rivalutando tutti quegli artisti che in quegli anni se ne fregavano delle ideologie e facevano cose all’avanguardia (che poi si sono rivelate tali solo dopo), e venivano considerati ‘minori’. Penso al primo Renato Zero, a Ivan Cattaneo (che nel ’78 lanciò Anna Oxa inventandone il look e nel 1980 compose quel capolavoro che è Polisex). Penso a Ivan Graziani, a Gianni Togni a Enzo Carella (che all’epoca come paroliere aveva Pasquale Panella, diventato il paroliere ufficiale di Battisti dopo Mogol). Penso a Rettore. Alla Bertè. A Mia Martini. A Gianni Bella. Gliene potrei citare tantissimi. Invece si va sempre a ricordare quei tre quattro, forse cinque, politicamente impegnati di cui francamente oggi non se ne sente più il bisogno.

Com’è cambiata la società negli ultimi decenni?

Come è cambiata lo vediamo sotto i nostri occhi. In peggio. E sa perché? Perché si continua a condannare e a non seguire l’unico modello che ci ha dato sviluppo e benessere, il capitalismo (e la tecnologia e che ha portato con sé) e si continua a opporre al modello liberista un modello (quello socialista) perdente, che ha distribuito miseria e povertà ovunque. In nome di questa ideologia che va contro il mercato stiamo costruendo una società basata sulla miseria, sull’assistenzialismo, sull’elemosina, e sull’incontro di culture che spesso e volentieri non possono convivere. Il multiculturalismo è già fallito negli Stati Uniti 30 anni fa. Riproporlo oggi è una scelta folle. Io non dico che le società debbano essere chiuse. Io sono per le società aperte e inclusive, ma alla base deve esserci un metodo di scelta e di inclusione forte e preciso, che parta da valori condivisi (che io ritengo siano quelli della laicità dello stato e del rispetto dei diritti umani per tutti; e per molte ‘civiltà’ che stanno arrivando qui da noi questa cosa non è affatto scontata) altrimenti mandiamo tutto all’aria. Tutto ciò che di buono abbiamo creato fin qui.

Qual è la situazione culturale italiana?

In teoria pessima. In pratica ci sarebbero tante potenzialità. La rete ha amplificato le opportunità e fenomeni impensabili fino a un decennio fa sono oggi possibili (Rovazzi che fa un singolo di successo e finisce pure a fare film, Paola Taverna che diventa vice presidente del Senato). Voglio, devo leggere questi fenomeni sotto un lato positivo, altrimenti le direi che stiamo andando incontro a una catastrofe culturale di proporzioni bibliche. In realtà quando le elite culturali si lamentano che i giovani sono ignoranti forse intendono che sono digiuni di ideologie (e questo secondo me è un bene), o che non leggono i libri che loro scrivono, si pubblicano e si leggono nei circoletti che contano. C’è una oggettiva situazione di ignoranza di ritorno, di analfabetismo funzionale. Ma ci sono anche tantissime opportunità per farsela una cultura (anche diversa da quella che l’élite vorrebbe) e non mi sento di gridare alla catastrofe.

E quella politica?

Come sopra. Personalmente detesto il M5S, e credo che la loro ascesa sia per il fallimento della sinistra: quella più liberale non è mai riuscita a diventarlo per davvero, liberale. Quella estrema spinge verso un estremismo anti-storico e pericoloso. In Italia, lo diceva il buon Marco Pannella e non solo lui, non c’è mai stata una vera cultura liberale. Ecco, un partito che difenda il mercato, i valori della laicità dello stato, l’Impresa, la detassazione, che ponga i diritti civili come punto fermo irrinunciabile. La difesa non già dei lavoratori ma della dignità del lavoro. Che è molto diverso. E invece ci ritroviamo senza un governo o con un governo di compromesso forse impossibile mentre avremmo bisogno di risposte forti e condivise.

A cosa è dovuta la crescente disillusione nei confronti proprio della politica? Mancano le ideologie o mancano gli ideali?

Mancano gli ideali. Per fortuna le ideologie non ci sono più. Cioè, ci sono ma non suscitano più quella fascinazione deleteria che hanno esercitato in passato. Purtroppo ci sono le religioni che spesso fanno da sostituto a questo vuoto (una in particolare che non voglio nominare ma abbiamo capito).

Perché scrive?

Non lo so. Perché ho bisogno di comunicare e far sapere agli altri delle cose. E poi perché vorrei vivere facendo quello che so fare, e se poi ci divento pure ricco non mi dispiacerebbe. Si scrive per vendere, anche (o soprattutto). Ma questo non glielo diranno mai, gli scrittori impegnati…

Qual è l’aspetto più importante di cui tener conto nel momento in cui ci si accinge a narrare una storia?

Che non faccia due palle così al lettore. Scusi la franchezza!

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“Buongiorno mezzanotte, torno a casa”

51xPw-QQJAL._SX318_BO1,204,203,200_.jpgdi Gabriele Ottaviani

Che lo si ami o invece non lo si sopporti più, l’essere lontani da “casa” fa soffrire. In casi più fortunati, genera una malinconia traducibile in parole – dove la distanza gioca funzione di “fecondo tormento”, e l’inventare scorre e fluisce, parallelo al nostro re-inventarci altrove, in territori stranieri. Altrimenti è pena muta, nel tempo anche sorda (sorda a se stessa). Quella fu la prima volta in cui capì: lo sgomento esterrefatto della donna è la nuova maturità che incomincia quel giorno per lei.

Buongiorno mezzanotte, torno a casa (appunti su espatrio e creatività), Lisa Ginzburg, Italosvevo – Gaffi. Nostalgia, resilienza, sradicamento, lontananza, fantasia, immaginazione, ricordo, estraneità, quel giusto distacco che consente di vedere le cose per quello che sono, attraverso la prospettiva che meglio ne definisce l’ampiezza, la memoria e i suoi proteiformi inganni, la percezione distinta di un’assenza, di una carenza, di una necessità che si fa sempre più forte mentre il tempo passa, gli anni si assommano gli uni agli altri, depositandosi come granelli di sabbia sul fondo di una clessidra che nel momento in cui sarà capovolta rappresenterà soltanto una fine e non più un inizio, perché è impossibile cambiare direzione a una freccia nel momento in cui oramai è stata scoccata: sono questi solo alcuni dei tasselli che compongono il raffinato e splendente mosaico della prosa di Lisa Ginzburg, scrittrice, traduttrice e filosofa che non ha vissuto né vive sempre e da sempre nel medesimo luogo (conta ben diciannove traslochi nella sua esistenza fino al momento in cui scrive), e che indaga attraverso una trama raffinatissima di riferimenti e con sapida e meditabonda souplesse, tra diario, romanzo e saggio, i moti contraddittori – il titolo, splendido, spiega già tutto – dell’animo – di ogni animo, tant’è che la letteratura, da Joyce ad Anna Maria Ortese, fornisce una messe, qui riportata, variegatissima di esempi: del resto, chi scrive racconta l’essere, e tenta di rispondere alle domande che tutti ci poniamo in cerca di un senso – che si sviluppano attorno al concetto fisico e morale, reale e intellettuale, politico, sociale e culturale di altrove, che è la rappresentazione, in fondo, di quello che siamo, che vorremmo essere, che vorremmo che il prossimo pensasse che noi siamo. Da non perdere.

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“L’amore primordiale”

5945948di Gabriele Ottaviani

In questo, Cadenza d’inganno (Mondadori 1975) è la sua raccolta più politica ed è anche quella dove il procedimento, indipendentemente dagli esiti qualitativi, denuncia l’origine e il meccanismo del percepire lo stato presente della Polis. (Va detto pure, per inciso, che «inganno» non solo è una parola chiave dell’autore ma l’emblema di un decennio caratterizzato dalla cosiddetta strategia della tensione, dal romanzo delle stragi, dall’insorgere imprevisto del terrorismo e di una generalizzata repressione; «inganno» è sinonimo di disorientamento come poi la parola-chiave «inverno» lo sarà del generale ripiegamento nel decennio successivo, testimoniato dai titoli di alcuni poeti allora esordienti, da Antonella Anedda a Fabio Pusterla, da Francesco Scarabicchi a Remo Pagnanelli). Riprendendo lo spunto di un geniale non addetto ai lavori, Piergiorgio Bellocchio, così Pier Vincenzo Mengaldo scriveva di Cadenza d’inganno nella scheda monografica dell’antologia Poeti italiani del Novecento(Mondadori 1978) che per prima ha consacrato il percorso di Raboni: «Non per nulla l’“impegno” più esplicito coagula attorno a episodi di repressione e onnipotenza poliziesca del Potere; e l’io oscilla fra l’autoannullamento nell’impersonalità del referto o denuncia, e la ritrazione in un privato che sempre più acquisisce anch’esso i connotati della vita vissuta come automatismo sonnambulo». Nel saggio ricordato, Bellocchio parlava giustamente di un alternarsi del discorso indiretto (maggioritario nella poesia di Raboni) e invece di un discorso diretto minoritario, lasciato volentieri allo stadio plastico della materia prima. È il caso ad esempio di una poesia, probabilmente scritta a caldo, L’alibi del morto, dedicata alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù da una finestra della questura di Milano la notte tra il 15 e 16 dicembre del 1969. Pinelli era da due giorni abusivamente trattenuto in questura (dal questore Guida, dal capo della sezione politica Allegra, dal commissario Luigi Calabresi) per le indagini relative alla strage di piazza Fontana, cui peraltro rimaneva del tutto estraneo. I suoi compagni allora sapevano, e oggi purtroppo tutti sappiamo, che era innocente e che venne ammazzato. Sappiamo altrettanto (da una pagina in presa diretta di Fortini, ora in L’ospite ingrato secondo) che Raboni aveva preso parte, con Vittorio Sereni, ai funerali di Pinelli nel cimitero del Musocco: «Al campo 76 ci sarà stato un centinaio di persone, un gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il cielo verde e viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi,una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del morto. Erano ai due lati di una trincea […]. Dall’altra parte del fossato ho rivisto la testa candida di Giovanni. Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi, anch’io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si abbassavano». Tutta esplicita e scandita dal discorso diretto, L’alibi del morto è la poesia meno raboniana che l’attuale senso comune possa immaginare e perciò, paradossalmente, la più rivelatrice di un antico impulso politico e delle sue relative procedure. Il protocollo è frontale, così secco e disossato da sembrare una variazione (tramite Fortini) da Bertolt Brecht, la cadenza ossessiva e anaforica insieme con le soluzioni di montaggio dicono, viceversa, un’adiacenza con le partiture del Roversi di Descrizioni in atto e i tracciati di Giorgio Cesarano, due grandifigure cui il poeta milanese non ha mai lesinato né attenzione né stima, come ci ricorda il recente e bellissimo volume di pagine saggistiche intitolato La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano curato da Andrea Cortellessa. Ecco la quartina iniziale, laddove il «Giuda» può essere tanto l’allegoria di Calabresi quanto l’acre metaplasmo che storpia il cognome del questore Guida: solo da ricordare che il primo era presente nella stanza da cui volò Pinelli, il secondo invece era assente.

Massimo Raffaeli, L’amore primordiale – Scritti sui poeti, Gaffi. Scataglini, Sereni, Fortini, Mucci, Guglielmi, Neri, Piersanti, Scarabicchi, Giordani. Ma non solo. La storia del nostro paese, vista da tante angolazioni. Quella letteraria, certo. Però anche quella che ha costituito la trama e l’ordito del nostro edificare un’identità collettiva non solo strettamente intellettuale nel secolo breve, da cui poi deriva direttamente quello che stiamo vivendo, sospeso fra modernismo, postmodernismo, avanguardia e il recupero di una domesticità intima che rappresenta il punto di incontro tra spinte centripete e centrifughe nella condivisione di un’ideologia del sentimento, del pensiero e dell’azione. Il margine si fa centro, la periferia esce dalla sua condizione di alterità divenendo uno schema di interpretazione antropologica del reale, tra poesia sociale, rifiuto del canone, ricerca espressiva, filologica, linguistica, etica. Un’articolata espressione di saggistica complessa e densa, da non lasciarsi sfuggire, perché strumento di interpretazione del reale attraverso la rielaborazione delle radici del nostro formarci.

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“Finché dura la colpa”

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di Gabriele Ottaviani

Spesso mi sorprendevo, durante le ore di scuola, a voltarmi convinto di avere accanto Vincenzo. E invece, nel banco di fianco, mi ritrovavo il testone biondo di Ludovico, per il quale nutrivo una invincibile antipatia. I miei compagni di classe, con la loro cinica indifferenza, continuavano a trattarmi con la medesima spietata crudeltà di sempre. La tragedia non aveva segnato uno spartiacque, non aveva smosso alcun sentimento di pietà. Esauriti i bigliettini dei “Vincenzo, torna presto”, la scomparsa di mio fratello era scivolata nell’oblio. Il timbro della mia voce, tra le mura della scuola, era sempre stato un mistero impenetrabile. Sin dal primo giorno non avevo mai parlato. Mai. Nemmeno una sillaba. Come un muto. I tentativi della maestra di farmi aprire bocca, di indurmi alla socializzazione, erano sempre stati vani. Non riuscivo a liberarmi della mia atavica timidezza. Per verificare la mia preparazione, ed evitare che ascoltassi le interrogazioni dei compagni, con l’aiuto della bidella, la maestra trascinava il mio banco fuori dall’aula e lo spingeva all’estremità del corridoio. Davanti a una parete scrostata, isolato come un lebbroso, rispondevo per iscritto, su un foglio protocollo, alle domande di italiano e matematica. Ne riemergevo ogni volta appunto come un contagiato scampato alla quarantena. Quella sera mia madre fece scivolare la busta accanto al piatto di mio padre, insofferente perché il contenuto di quella comunicazione della scuola avrebbe avvelenato la cena e l’umore di lui nei giorni a seguire. Non era la prima né sarebbe stata l’ultima. La meticolosa burocrazia della scuola, con le sue ansie pedagogiche, non restava inerme a guardare, non fingeva di non capire. Secondo la griglia dei loro schemi, gli insegnanti sentivano il dovere di invadere la nostra intimità domestica e indagare sul mio universo oscuro. Mio padre, una volta letta la missiva su carta intestata, con un gesto rabbioso la lacerò in otto quadratini simmetrici. Mia madre sobbalzò, sebbene si aspettasse questa reazione. «Questa storia deve finire. Domenico è un bambino normalissimo. La storia di Vincenzo l’ha solo un po’ scombussolato».

Si muove avanti e indietro nel tempo, tra il millenovecentoottantaquattro e il millenovecentonovantotto, Crocifisso Dentello, autore di un bel romanzo (fossero tutti di questa qualità, gli esordi…) edito da Gaffi, Finché dura la colpa. Sin dal titolo, di indubbio impatto, si viene trascinati, con ritmo e accenti lirici, da una scrittura potente e solida in un mondo di male e pena. Sono poche le vie di uscita, le speranze: la periferia, questa periferia brianzola fumigante di ciminiere, è un luogo impersonale, di abbrutimento, spleen, fatica e sopruso, senza prospettive. E allora quali sono, per citare Emily Dickinson, le cose che restano? Davvero il dolore, le colline e l’eterno? Se in merito al primo non si lesina sulla quantità, rimangono però i libri e l’amore a far breccia nella notte. Ma si può anche incorrere in rischi non calcolati, subdoli, che conducono verso il baratro. Non si riesce a smettere di percorrerla avidamente parola per parola, la storia di Domenico, che sopravvive leggendo. Tentando di salvarsi da solo. Ma poi incontra, nella realtà reale, Anna, angelo positivo. E la Fabbrica e Agosto, che invece sono una nuova fonte di amarezza. Da non perdere.

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“Tempo lungo” – Gianluigi Melega

tempo lungodi Gabriele Ottaviani

Da buon borghese lombardo ebbi forse un’infanzia un poco ottusa, priva di quelle romanzesche avventure che temprarono il carattere di alcuni miei amici, ad esempio quelli ebrei. Mio padre amava il quieto vivere e la vita familiare e la maggiore preoccupazione di lui e di mia madre era quella di arrivare alla fin del mese con un po’ di soldi risparmiati e di migliorare ogni giorno, quotidianamente, un pochino, il nostro tenore di vita. Materialmente ebbi tutto quel che desideravo e i miei desideri non superarono mai le disponibilità della famiglia, che del resto sarebbero state pronte a dedicarsi completamente a me soltanto se lo avessi voluto. Sia in mio padre sia in mia madre o mia nonna non c’erano passioni dominanti, che so, il socialismo o il teatro o l’amore per il tempo passato. Di conseguenza potevo ben avere una mente sveglia e una capacità di assorbimento profonda: ma non c’era nulla da osservare o da assorbire al di fuori delle normali attività quotidiane della famiglia, per sei giorni alla settimana limitate al ritrovarsi insieme a tavola per il pasto serale. Ah, quando penso alla vita più tormentata, più naturalmente accesa di altre persone! Ho avuto la fortuna di conoscerne alcune al giornale ed era da aspettarselo che molte di esse finissero coll’accettare la professione del giornalista, che permette di poter rimanere coll’animo attaccato a qualcosa che non sia affatto del mondo della professione. Il nostro critico teatrale, De Monticelli, «figlio d’arte» se vogliamo e sinceramente appassionato e immerso in un pianeta diverso dal nostro! Tutto ciò che gli si chiede è di dirci quel che registra una sensibilità come la sua di fronte a uno spettacolo che per lui è diretta sostanza di vita, è caffelatte, scuola, pettinatura, un bacio alla mamma che deve recitare, è recita di se stesso e conoscere gli attori non come attori ma come coetanei o amici del padre e figli visti crescere sotto gli occhi.

Tra i fondatori di Repubblica, da non molto scomparso, Gianluigi Melega è l’autore di Tempo lungo, che porta in copertina il doppio logo di Marsilio e Gaffi, che ripubblicano quest’opera che ha più di cinquant’anni, e racconta l’Italia in cui la lira vinceva l’Oscar della moneta. Dunque, l’autore l’ha scritta a circa venti. Eppure, è un’autobiografia. Meglio, un autoritratto. Ma come si può fare un bilancio di una vita che è di fatto agli inizi? Si può, si può. Se ti assiste la dote della scrittura, o meglio della narrazione, del racconto. Soprattutto, se, benché con tutta probabilità non ne avesse all’epoca contezza, l’autore si inserisce in una tradizione che ha un unico grande nume tutelare: Borges. È come se Melega disegnasse una carta geografica senza scala. Non c’è riassunto, ogni dettaglio è dipinto, come in una foto, ma a grandezza naturale, con una prosa felicemente ibrida tra cronaca e diario. Sembra l’Arbasino di Fratelli d’Italia, ma la peregrinazione non è spaziale, bensì interiore, nel cuore e nelle sue ragioni, ricordando quel che si è stati e da dove si viene. Il che spiega senza ombre quel che si è.

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Libri

“Nella casa di vetro” di Giuseppe Munforte

nellacasadivetrogaffi1Il silenzio in uno spazio indefinito per raccontare la vita dei propri cari, che procede, che si insinua in una quotidianità che non fa parte di te. I sentimenti di quei figli che si vogliono bene, che si amano perché sono tuoi, che ti sono stati affidati e tu li hai accolti li hai accarezzati, abbracciati, confortati, come la loro madre, che fa tutto quello che può ogni giorno. È il punto di vista di un uomo che racconta dall’esterno tutto questo, con forza, animosità, premura, affetto. La vita a volte è crudele, a volte semplicemente ingiusta, ma quell’uomo possiede ancora il loro amore e i loro pensieri. Anzi, forse più di prima. Tu sei lì li guardi e non puoi fare più nulla per loro, salvo continuare ad amarli e continuare a stare acconto a loro in un modo diverso perché non puoi fare più tutto quello che avresti voluto fare per loro: accompagnarli a calcio, andare a prenderli a scuola, assistere alla loro laurea, al primo innamoramento, accompagnarli in aeroporto quando ormai già grandi vanno a vivere all’estero per cercare un destino migliore. Perché tu non ci sei più.

Quello di Giuseppe Munforte è un romanzo di rara delicatezza a leggersi di questi tempi, capace di saper cogliere la vera essenza dei sentimenti primari con perfetta semplicità e allo stesso tempo con grande realismo emotivo. Racconta la perdita in un modo originale e intenso, attraverso una prospettiva ribaltata, che viene narrata con grande malinconia e delicatezza. Nella casa di vetro è stata una bellissima sorpresa: una scrittura impeccabile, forte e intensa, bucolica e commovente, che si insinua sotto la scorza del cuore e rimane lì perché il suo autore ha la rara capacità di penetrare nell’emozione del lettore, nella sua pancia attraverso la capacità di dire quello che è necessario dire. Il testo, sviluppato su due piani temporali, attraverso un unico punto di vista, ovvero quello di Davide, padre e compagno, è avviluppante e totale per la sua straordinaria emotività psicologica e procede attraverso un racconto lieve, ma serrato, laddove più è semplice, più è incisivo nel tono, nella forma, nei fatti narrati. Chiunque ha perso una persona cara ne capirà il valore e l’essenzialità di sguardo. Rientrato fra i dodici concorrenti al Premio Strega, è davvero il libro che manca (e che soprattutto ci sarebbe voluto) nella cinquina finale. Un libro meraviglioso, forse perfino necessario in questo momento della nostra Storia. Sicuramente necessario nel panorama editoriale italiano.

Nella casa di vetro
Autore: Giuseppe Munforte
Casa editrice: Gaffi, 2014
Pagine: 198
Prezzo: 14,90

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