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“La polacca”

di Gabriele Ottaviani

Tzvi entra nel postribolo come fa tutti i giorni; quando le gemelle lo vedono si mettono a gridare isteriche e scappano in cortile. Quell’inspiegabile comportamento di Olga e Ana lo fa uscire dai gangheri. Però nella sala sporca di stelle filanti e carta traforata c’è puzza di vomito. Sarà stato male qualcuno? Chiede spiegazioni, senza ricevere risposta. Dietro al tavolo del grammofono scopre Malù insanguinata mentre balbetta incoerenze. È il colpo che lo fa reagire. «Dov’è Raquel, che è successo?», domanda ormai fuori di sé. Sofia è ancora nella sua stanza. Ha bisogno di solitudine per pensare, l’angustia l’ha intorpidita. Vede un abisso aprirsi di fronte a lei e, per saltarlo, ha bisogno della protezione della Varsavia. In quel momento decide di chiamare Isaac al telefono. Quando dall’altra parte della linea sente la voce del presidente della Varsavia, sa a chi sarà fedele d’ora in avanti. Quando il gruppo dei nani grotteschi irrompe nella sala con le croci, Tzvi non riesce a credere a quello che sta vedendo e, fuori controllo, gli lancia contro una sedia. Uno di loro gli viene addosso. Tzvi si dibatte. Sentendo lo scompiglio Sofia compare con una pistola e spara in aria, provocando la fuga degli incappucciati. Tzvi slega i piedi di Raquel che non riesce a muoversi. Perla è svenuta e Sofia si lancia su di lei per rianimarla. Tutte le lacrime che non ha versato durante gli anni dell’infanzia traboccano adesso. Sono i cosacchi che tornano per marcarla di azzurro e di rosso e le penetrano la bocca, l’ano… In mezzo a tutto quel caos, una Malù obnubilata prega senza sosta…

La polacca, Myrtha Schalom, Edizioni FogliodiVia, traduzione di Erika Casali. Nata a Buenos Aires da padre migrato in Argentina, l’autrice si imbatte nella storia vera di una donna dell’Europa orientale che all’inizio del Novecento raggiunge in Sudamerica il marito approdato al di là dell’oceano in cerca di fortuna ma dopo poco venuto a mancare, lasciandola sola e nella povertà più nera, ingannata, venduta a un postribolo, sfruttata: da qui prende le mosse un romanzo intenso, solenne, potente, tragico, straziante, una riflessione monumentale sulla cognizione del dolore e sulla condizione umana e nello specifico femminile, nel passato ma non solo.

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“Focara di sangue”

di Gabriele Ottaviani

Quella stessa settimana visse nell’attesa ansiosa che Sirella riprendesse il discorso, ma si accorse di essere tornato nuovamente invisibile sia in classe sia durante la ricreazione. Lei non sembrava evitarlo, semplicemente si muoveva come se lui non esistesse o come se non avessero mai parlato né di quell’argomento né di nient’altro. Era anche raro vederla da sola. Quando non c’era la cicciona di mezzo, le ronzavano attorno Rizzelli o Sergi. Non poteva certo proporre loro di andare tutti insieme al mare. Finalmente lei gli rivolse la parola sabato, all’uscita da scuola, per scroccargli la solita sigaretta. Stava quasi per andar via, quando Mirko, tutto d’un fiato: «Allora? Ci andiamo al mare?». Lei sembrò destarsi da un torpore: «Mare?» rifletté aspirando con le guance risucchiate all’interno. «Sì, pensavo di andarci oggi» enunciò tra le volute di fumo che si sfilacciavano intorno alla bocca. «Dove volevi andare?» chiese prudentemente. Sirella corrucciò la fronte, quasi dovesse fare un calcolo matematico. Poi: «Punta Maiale. Che ne dici?» Erano parole dolci come il miele per Mirko, che farfugliò: «Io… ho… il motorino…». Lei lo guardò con una sorta di tenerezza mista a pietà: «Che carino». E poi aggiunse: «Ma la patente per il motorino ce l’hai, almeno?». Lui fece una faccia confusa, come se davanti avesse una prof di biologia che lo stava interrogando sui componenti della cellula. Non si era mai posto il problema. «Dai, scherzavo. Comunque ci vediamo là, allora? Ok?».

Siciliano di nascita, Carmelo Greco ha scelto la terra rossa di bauxite e bianca di volute barocche del Salento come luogo d’elezione, e qui ambienta, dinnanzi alla pira che celebra la festa di Sant’Antonio, la storia di cinque adolescenti: anche loro ardono, ma il loro fuoco è fatto di passioni, speranze, desideri, e in una realtà complessa dove i sogni sembrano un assurdo lusso utopistico rischiano per frustrazione di rimanere sedotti da pericoli esiziali. Crescere, si sa, è del resto un’avventura inevitabile, dolorosa, delicata e necessaria. Senza retorica, ma con sensibilità profondissima, Focara di sangue, per Edizioni Fogliodivia, è un’opera da leggere e far leggere, per conoscere, riflettere, capire.

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“Facciamo come possiamo”

Facciamo come possiamodi Gabriele Ottaviani

Mentre l’esame procedeva qualcosa non andava. Il medico si fermò un paio di volte ripetendo la manovra. Un sensore non trasmetteva. Provò a toccare tutti i sensori per vedere se aderissero. Tutti erano perfettamente aderenti. Spense e riaccese l’apparecchio ma nulla. Uno faceva le bizze, sembrava un falso contatto. Il segnale arrivava ad intermittenza. Germano si accorse della cosa e provò a chiedere cosa stesse accadendo. A seguito della sua discesa violenta dal lettino uno dei cavetti si era strappato dal pannello. Nel riposizionarlo forse si era deformato e la trasmissione non era continua. Il medico spiegò la cosa ai due indicando uno spinotto strozzato, e concluse «…e adesso come facciamo?»

Facciamo come possiamo, Andrea Tirelli, FogliodiVia. Ama definirsi frate de-scrittore anziché autore Andrea Tirelli, che ha una sensibilità densa e piena e una voce narrativa delicata e sonora: questa sua nuova prova narrativa, che come sempre lo aiuta a devolvere in beneficenza, per sostenere la costituzione di un fondo di nanocredito a favore di soggetti non bancabili noto come Ti presto fiducia, somme di rilievo, racconta con intensità una vicenda simbolica della condizione umana, che solo nell’incontro con l’altro riesce a trovare senso e pienezza. Germano ha quarant’anni, è un vigile del fuoco, è disilluso, nessuno tra coloro che lo circondano, moglie compresa, riesce a capire come mai sia così inaridito, quasi stanco della vita. Costretto a fermarsi, in ospedale incontra un bambino. Luca, otto anni, che ne ha già passate tante, troppe. E tutto muta. Da non perdere per nessuna ragione.

 

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“Non si può chiudere in un cassetto il mare”

41Wo-WjLmdL._AC_UY218_di Gabriele Ottaviani

Sulla riva deserta, nella sabbia bagnata,

tante piccole vite restano inermi sotto il sole

sono testimoni muti di un amore,

di una mareggiata…

Non si può chiudere in un cassetto il mare, Vittoria Di Candia, Edizioni FogliodiVia. Raffinate, intense, potenti, maestose, emozionanti, policrome, ricche di sfumature, chiavi d’interpretazione, livelli di lettura, capaci di vellicare suggestioni articolate e cangianti, le poesie di Vittoria Di Candia, che ha una voce limpida e cristallina, che ben si amalgama con le illustrazioni, che impreziosiscono ulteriormente quest’edizione curata ed elegante, indagano nella sua mutevolezza la fragile condizione umana, sempre tesa all’appagamento della felicità. Da leggere, rileggere, far leggere.

 

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“Notte mamma, se mi vuoi abbracciare sei davvero gentile”

Cop Notte mammadi Gabriele Ottaviani

Le ho chiesto di accompagnarmi dal dottore, ieri. È rimasta un po’ spaesata, poi mi ha detto: «Prendi la borsa mamma, andiamo». Mi ha tenuto la mano per le scale e poi mi ha chiesto di venire in braccio. Appena salita mi ha stretto forte e mi ha detto «andiamo dal dottore mamma?», le ho ripetuto «ci stiamo andando amore». Abbiamo fatto le scale, e dopo aver bussato alla porta il medico ci ha detto di accomodarci. Appena lo ha visto non ha voluto lasciarmi un secondo, mi ha stretta ancora più forte a sé. Dopo le prime domande è arrivata l’ora di misurare la pressione, ho dovuto rassicurarla un po’ per permetterle di lasciarmi andare. Qualche minuto dopo io ero stesa sul lettino e lei mi guardava con aria smarrita. Le ho detto: «Guarda, adesso il dottore mi mette una cremina sulla pancia per vedere il bimbo che c’è dentro». Lei ha continuato a guardare ogni passaggio, ogni minuzioso gesto del medico. Il monitor ha trasmesso l’immagine, era nitida. Si vedevano la testa e due gambe che non smettevano di muoversi. Sembrava nuotasse in una piscina in perfetto stile rana. Piegava e poi stendeva, muoveva i piedi e ricominciava. Il medico continuava a dire: «Guarda le gambe Alice», ma non credo che lei abbia capito molto. Fino al momento in cui ha strabuzzato gli occhi. Non era impaurita, era proprio sorpresa. Il medico aveva appena trasformato l’immagine di quel piccolo cucciolo d’uomo in un suono: il suono del suo cuore. Alice guardava, gli occhi spalancati. «Lo senti il cuoricino?» ho pensato guardandola dritta negli occhi. Mi ha risposto con uno sguardo intenso, senza perdersi una smorfia del mio viso. Chissà se ha potuto ricordarsi com’era il mondo lì dentro, dove ogni momento viene scandito dal ticchettio di due cuori. Non lo so. So che in quella stanza ieri una bambina, la mia bambina, è diventata una sorella maggiore.

Notte mamma, se mi vuoi abbracciare sei davvero gentile, Bianca Bruno, Edizioni FogliodiVia. Alice e Marco sono due bambini. E si sa, i bambini sono piccoli, ma non sono affatto stupidi. Si affacciano al mondo nel quale i genitori senza che loro ne facessero richiesta li hanno messi, e ne sono curiosi: pertanto fanno una marea di domande. E non c’è nulla di più sbagliato che farle cadere nel vuoto. Bisogna rispondere, e non tanto per fare, o peggio per dire: i bambini sono persone, meritano il massimo rispetto. Talvolta però non è per niente facile, anzi: sono pirotecnici, proteiformi, destabilizzanti. E quindi qualche volta si piange, qualche volta si ride, qualche volta ci si arrabbia, qualche volta ci si tiene per mano, sempre, irresistibilmente, ci si ama: Bianca Bruno ha scritto un diario, un romanzo, un saggio, una poesia, ha dipinto un affresco preciso, coloratissimo, adorabile, credibile, empatico, che si legge con profonda levità. Delizioso.

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“Confessioni di un clochard”

Cattura.PNGdi Gabriele Ottaviani

«Scappai di casa e girovagai: rubavo il cibo, dormivo nei granai e nelle stalle, finché non sono incappato nella casa di Adela, la compagna di scuola che più di tutti mi aveva preso in giro e che mi aveva ferito persino nella virilità. “Devi avere il pisello storto come le gambe”, mi diceva sempre, “deve essere come lo stoppino di una lampada”. Mi sorrise quando arrivai, mi disse che le mancavo a scuola. “Deve essere così”, risposi. Mi diede un piatto di cibo, mi invitò a rimanere a dormire nel granaio fino al ritorno dei suoi genitori che non erano in paese. “Che Dio ti ripaghi”, le dissi, ma portavo già la vendetta nel sangue: afferrai una cordella di cuoio lì vicina, la legai a un pilastro della casa, mi abbassai i pantaloni e me la scopai tre volte, mostrandole il cazzo e sfidandola a dirmi che era storto. Non disse niente. Mi chiese solo di slegarla prima di andarmene. Sussultai un po’, poi ancora di più quando cominciò a toccarmi la testa mentre scioglievo i nodi della corda. “Torna quando vuoi”, mi disse mentre stavo già attraversando il cancello, “e non scordarti di fare i documenti per sposarmi”. La guardai di nuovo, la ringraziai per la zuppa di piselli e banana e me ne andai di corsa, se si può dire questo dei miei passi insicuri che si incrociano ancora di più quando qualcuno tenta di acchiapparmi in questo modo. Probabilmente Adela avrebbe potuto cambiarmi la vita se, a quel tempo, che avevo sedici anni, mi fossi lasciato catturare dalla sua dolcezza, ma è molto difficile fermare di botto qualcuno che sta scappando pieno di rabbia e con la voglia di uccidere chiunque gli si pari di fronte»

Confessioni di un clochard, Jorge Vivanco, Edizioni FogliodiVia, traduzione di Erika Casali. Edizioni FogliodiVia è una casa editrice nata dalla polvere, dalla strada, dalla voglia di continuare a raccontare storie. Come quelle che dal 2005 scriviamo su FogliodiVia, il giornale di strada dalla parte dei poveri e distribuito dai senza fissa dimora di Foggia. Una piccola occasione di reddito, di riscatto, di condivisione. E sono proprio quelle storie, quelle chiacchiere fatte davanti ad un bicchiere di latte caldo con clochard, migranti e senzatetto, che ci hanno dato la spinta ad osare. Ad allargare le opportunità, le conoscenze, l’esplorazione: questa presentazione, semplice e chiara, è fondamentale per capire l’importanza etica, civile, morale di questa pubblicazione, firmata dal primo autore straniero edito da questa realtà pugliese di rara sensibilità. Nato settantaquattro anni fa a Catacocha, un piccolo villaggio sugli altopiani andini della parte meridionale dell’Ecuador, nelle strade della cui capitale (d’improvviso spopolatesi di senza fissa dimora), Quito, ambienta questo canto degli ultimi, sugli ultimi e per gli ultimi che di rado trovano godimento nella procrastinata consolazione di essere reputati primi e più cari al cuore di chi tesse la trama del regno dei cieli, questa storia dura, feroce, antiretorica, politicamente scorretta e al tempo stesso lirica, e ancor più necessaria proprio perché priva di dannosa pruderie, Vivanco, poeta, narratore, drammaturgo, regista, che ha studiato Belle Arti all’Università Centrale proprio di Quito, indaga l’essere e l’umanità, costringendo a riflettere e a prendere coscienza. Splendido.

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“Testardo, come un frigorifero”

COPERTINA TESTARDO COME UN FRIGORIFEROdi Gabriele Ottaviani

Nei giorni successivi il mondo salutò l’ultima vita che quel maledetto terremoto aveva inghiottito. La stampa succhiò tutte le notizie, i racconti, le testimonianze di quegli operai ancora avviliti. Ernesto rimase stordito da quell’incredibile avventura. Quello che era successo lo aveva sbigottito, ma nel ricordare l’accaduto provava soprattutto una strana rabbia, forse la sensazione di non aver fatto tutto il possibile, o di non aver capito qualcosa, di aver vissuto quei momenti senza rendersene conto. Col passare del tempo la rabbia non diminuì ed il dubbio continuava a tormentarlo. Cosa era successo veramente?

Testardo, come un frigorifero, Marco Lozito, Edizioni Fogliodivia. Illustrazioni, bellissime, di Pompeo Colacicco. È una pessima consigliera, ma sembra essere l’unica costante nelle vite contemporanee: la fretta. Tutto si spreca, niente più si conserva, non vale la pena dedicarvi tempo, meglio cambiare, ossessionati dal nuovo che avanza, ogni cosa potrà pure essere illuminata, ma al massimo dalla luce del frigo, che si staglia, indispensabile, in tutte le cucine per tentare di rallentare l’ineluttabile processo di marcescenza. Ogni cosa scade, e velocemente, i rapporti umani, avariate avarie, sono da consumarsi preferibilmente entro il momento in cui diventino troppo profondi, o prima che chi si è sempre dato da fare per gli altri chieda un aiuto perché è in difficoltà, generando per tutta risposta nei circostanti approfittatori praterie desertiche come solo il riscaldamento globale sa tragicamente fare. Gianni e Zac, il suo amato cane, sono i protagonisti di questa allegorica, poliedrica, profondissima e magnifica commedia umana con tanto di sisma che dipinge vividamente l’alienazione dell’oggi: da non lasciarsi sfuggire per nessuna ragione.

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“Concerto per orchestra stonata”

41xAmIGooXL._AC_UL436_.jpgdi Gabriele Ottaviani

La fila davanti alla mensa dei poveri è più lunga del solito.

Concerto per orchestra stonata, Emiliano Moccia, Edizioni FogliodiVia. Giornalista, scrittore, autore di romanzi e racconti, da sempre interessato agli ultimi, gli emarginati, i soli, gli isolati, coloro i quali vivono in quella zona d’ombra su cui gli sguardi dei più fortunati si rifiutano di posarsi, Emiliano Moccia, volontario foggiano dell’associazione Fratelli della Stazione impegnata nell’attività di accoglienza di poveri e migranti, racconta, romanzando parzialmente i ritratti di persone realmente incontrate nel corso della sua attività, la storia di Emanuele, che sognava di dirigere un’orchestra e diventare un affermato compositore. La vita, però, si sa, è quella cosa che ci capita mentre siamo impegnati in altro, e si diverte anche a farci degli scherzi, a prenderci in giro, a giocarci tiri mancini, colpirci con degli uppercut che ci sbattono al tappeto. Ma Emanuele, diventato senza fissa dimora, non si arrende, si rialza, e… Intenso e avvincente, importante dal punto di vista etico, civile, sociale, morale, politico, culturale: da leggere.

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“Parole fuori”

9788894268690di Gabriele Ottaviani

«Bella, bella favola… l’hai scritta tu?». «Sì. Ma cosa avete capito… alla fine di cosa parla la favola, la morale qual è?». «E’ una storia di amicizia…» dice una. «Lui vuole aiutarli, ma loro non lo capiscono…» continua un’altra. Io incalzo: «Parla del bene comune… nel senso che se ci si tiene a qualche cosa, tutti devono collaborare a curarla e a tenerla in salute…». Silenzi, mugugni, nessuna replica. Parlo di “cosa” comune, quando fuori da qui loro hanno messo in atto l’egoismo giustificandolo con la necessità e in carcere l’egoismo vissuto per la sopravvivenza mentale e fisica. Per vivere in comunità bisogna avere equilibrio, essere realisti e lucidi, dare e darsi fiducia. Chi le porterà su questa strada? Ha senso insegnare loro l’importanza del lavoro come organo di riscatto, se si dimentica di insegnare loro l’etica per tenerselo? Hanno bisogno di esser sostenute da una struttura psicologica, una forza sufficiente per rispettare delle regole imposte per esempio in un lavoro da dipendente, una fiducia in loro stesse e nelle loro possibilità che le faccia sentire pronte a imparare e non a sentirsi sottomesse. Continuo: «Mi sembra giusto a questo punto farvi due domande a cui risponderete per iscritto».

Parole fuori – Non fare come me, fai meglio di me, Isabella Misurelli, Fogliodivia. Solo chi cadde può dare altrui, scriveva Arturo Graf, l’edificante spettacolo del rialzarsi: e a questo serve, in un sistema che possa dirsi pienamente democratico, la pena detentiva. A riabilitare. A inserire nuovamente e senza pregiudizio alcuno, quando possibile, nel tessuto sociale, da cui è stato temporaneamente estromesso perché ha adottato un comportamento nocivo, chi ha sbagliato. Una volta pagato il giusto. E naturalmente la cultura ha un ruolo fondamentale. Perché è il primo veicolo per migliorarsi e per migliorare il mondo che ci circonda. Senza stare a scomodare Socrate, è però vero che sovente il male infatti si compie semplicemente per ignoranza del bene. E il discorso di base non è il mero, benché oltremodo significativo, va’ e non peccare più: è il sostrato d’una più grande speranza. Le donne detenute sono madri, mogli, figlie, sorelle, trattenute altrove, in un luogo diverso dal loro contesto normale, quotidiano: cosa significa tutto questo? Isabella Misurelli, sensibile e preparata,  ha operato nel carcere femminile di Trani, in Puglia, sviluppando assieme alle detenute un laboratorio di scrittura: che ha generato questo volume. Da leggere, rileggere, far leggere, per conoscere tasselli di umanità.

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“Arrivare a domani”

ARRIVAR A DOMANI.jpgdi Gabriele Ottaviani

Bisognoso di qualsiasi cosa. Desideroso di niente. Non per via di una mera questione di orgoglio, altrimenti non si troverebbe di certo accovacciato sul marciapiede. Vestito di stracci, la barba incolta, lo stomaco impegnato in un soliloquio gorgogliante. Non esiste oggetto o privilegio generato dal possesso su cui brami mettere le mani, ma ha fame, questo non può negarlo. Anni fa, dopo aver perso, nell’ordine, il posto alla Pluskinn, una ditta di autotrasporti polacca, sua moglie Dominika, per gentile intercessione di un tumore al seno, e la fiducia in Lech Walesa, ha deciso di puntare tutto sul buon cuore del suo prossimo. Una mossa un po’ folle, in questo periodo, di sicuro in controtendenza. Affidare la propria sopravvivenza a esseri che di umano, ormai, sembrano avere soltanto le vaghe sembianze, sa tanto di azzardo suicida. La classica trovata di chi non ha nulla da perdere. Per molti versi è così, ma questa è un’altra storia.

Arrivare a domani, Marco Di Carlo, Edizioni FogliodiVia. Immagine di copertina, bella e assai azzeccata, di Antonella Depalma. La vita è tutta questione non solo di organizzazione e strategia, ma anche di energia cinetica. Siamo particelle che si muovono di continuo, in tutte le direzioni. E quando aumenta la pressione aumentano anche gli urti. Le possibilità di contatto. Di conflitto. Di confronto. Sono dieci le storie che con rara maestria Marco Di Carlo tratteggia fin nel più minuto e minuzioso dettaglio, con cura, delicatezza, potenza, eleganza, sicurezza, solidità, sobrietà, dando voce a una società policroma schiava troppo spesso del pregiudizio nei confronti di chi è al margine, diverso dal canone delle rassicuranti abitudini. Da leggere.

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