di Gabriele Ottaviani
“Into the wild” ha fatto scuola. Purtroppo.
È diventato un genere. Stesso film. Stessa trama. Titoli molto molto simili. Copie. Brutte. Se almeno il primo della serie, a parte le lungaggini nello svolgimento e il finale, aveva un qualche senso, il film con produttrice (come del buonissimo “Gone girl”) e protagonista assoluta il Premio Oscar – e anche su quello ci sarebbe molto da dire – Reese “Lei-non-sa-chi-sono-io” (con annessa notte in gattabuia per oltraggio a pubblico ufficiale) Witherspoon, che chiude il trentaduesimo, validissimo Festival di Torino, delude.
Nonostante la sceneggiatura di Nick Hornby, che di solito ha una prosa scintillante, ma qui sembra un po’ come Barbara Alberti in “Incompresa”, chiamata a salvare i vaniloqui e le scombiccherature di Asia Argento, il film suona datato (andava bene negli anni ’70), non trova una strada, è schizofrenico, continuamente saltabeccante tra prolessi e analessi, retorico, enfatico, molto “sogno americano”, ma senza grazia né poesia, approssimativo e di noia esiziale.
Bella la musica e stupendi i paesaggi, ma per quelli ha merito la natura, non il film, la cui fotografia, anzi, non è che sia granché. Tratto dalla vera storia, ambientata, nella sua fase centrale, nel 1995, di Cheryl Strayed, ossia “Randagia”, il cognome che si è scelta dopo il divorzio, bestseller planetario (e la vera Cheryl surclassa l’interprete), è il racconto della ricerca di sé. Novantaquattro giorni di cammino, tra una imprecazione e un “chi me lo ha fatto fare”, per arrivare alla meta più consapevole e pronta per il futuro. Quanta originalità.
Cheryl ha un padre ubriacone e violento che picchia la mamma, solare, amorevole, deliziosa. Lei, Laura Dern – e qui cominciamo a sospendere, per la prima e non certo ultima volta durante il film, l’incredulità, perché la madre è più giovane e alta il doppio (e non è che il marito sia pigmeo) della figlia, che compensa col mento, e che sembra adolescente quanto lo pareva Dylan, che infatti aveva le rughe, in Beverly Hills 90210 -, lo molla (hallelujah!), e va a vivere con Cheryl e l’altro figlio. Riprende a studiare. Lavora come cameriera insieme alla figlia. Si ammala. Muore. A quarantacinque anni. Cheryl, in maniera del tutto comprensibile, va letteralmente fuori di testa.
Fornica in modo ossessivo, sfrenato e compulsivo con chiunque respiri – anche male, non si butta via niente – in zona. Si droga. Il matrimonio va a rotoli. Resta incinta e non sa di chi. Meglio, ne ha un’idea. Vaga. Abortisce. Si fa un tatuaggio per suggellare il divorzio. Un cavallo selvaggio sull’omero sinistro. Il marito le rimane amico. Comincia a camminare nei boschi lungo il Pacifico. Attraverso gli USA. Dal confine col Messico a quello col Canada.
È impreparata, poi migliora. Più o meno. Il serpente a sonagli preferisce che muoia di tedio e non la morde, ha lividi a caso, capelli sempre perfetti, labbra mai screpolate, vestiti stirati, scarpe che si rompono, unghie che saltano. Ogni tanto urla, fischia, millepiedi e raganelle le invadono il sacco a pelo, una volpe la accompagna. E lei si sente molto il Piccolo Principe. Compila i registri degli esploratori a ogni tappa con citazioni ultraabusate e altrui. Svuota lo zaino dalle cose inutili. La gran parte. E riesce dunque a sollevarlo, ora che non è più alto né pesante di lei e non rischia di fare la fine della tartaruga rovesciata. Le arrivano dei pacchi. Da Minneapolis. Dall’ex marito. Dalla cara Aimée. Pensa. Si commuove. Purifica l’acqua.
Incontra un bambino che recita meglio di lei, anche perché non fa imbarazzanti faccette, mentre Reese è degna epigona della Knightley di “A dangerous method”, a metà tra Linda Blair nell’“Esorcista” e Quasimodo nel “Gobbo di Nôtre-Dame” (si veda alla voce “Io la parte non ero mica in grado di farla come si deve, ma mi avevano detto che mi rotolavo sul tappeto con Fassbender – almeno, così avevo capito… – e dunque ho accettato”). Lega con le persone che incontra. Quasi tutte.
Si lascia avvolgere dalla bellezza. Arriva sul ponte. Guarda il fiume. Non si butta. Nemmeno lo spettatore. Però le due ore sono parse tre. Almeno.