33 tff

33 TFF – I primi titoli

TFF_locandina_a4_o3-741x1024.jpg_1064807657di Gabriele Ottaviani

Ecco alcune anticipazioni dal programma dell’edizione del prossimo novembre (dal venti al ventotto):

Festa mobile

– Suffragette di Sarah Gavron (Regno Unito, 2015, 106’) – Film di apertura – Distribuito da BIM

– West & Soda di Bruno Bozzetto (Italia, 1965, 86’) – Restauro

– La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi (Italia, 2015, 117’) – Distribuito da BIM

– Prima che la vita cambi noi di Felice Pesoli (Italia, 2015, 80’)

– Me and Earl and the dying girl di Alfonso Gomez-Rejon (USA, 2015, 105′) – Distribuito da Fox Searchlight

– Nie Yinning / The Assassin di  Hou Hsiao-Hsien (Taiwan/Cina/Hong Kong, 104′) – Distribuito da Movies Inspired

– Pod Electricheskimi oblakami / Under electric clouds di Alexey German Jr. (Russia/Ucraina/Polonia, 2015, 130′) – Distribuito da Movies Inspired

TFFdoc

– La France est notre patrie di Rithy Pahn (Francia/Cambogia, 2014, 75’)

– Miss cinema – Archivio Mossina a cura di Home Movies (Italia, 2015, 50’)

Programma di apertura della sezione TFFdoc/Mediterraneo:

– Mediterranée di Jean-Daniel Pollet (Francia, 1963, 44’)

– Eclipse of Useless Light di Théo Deliyannis (Grecia, 2015, 15’)

– A Distant Episode di Ben Rivers (Regno Unito, 2015, 20’)

– JDP/JLG 1963 – 2012 a cura di Gaël Teicher e Freddy Denaës (Francia, 2012, 28’)

Onde

– Cemetery of Splendour di Apichatpong Weeresethakul (Thailandia/Regno Unito/Francia/Germania/Malesia, 2015, 122’)

– Stand-by for a Tape Back Up di Ross Sutherland (Regno Unito, 2015, 63’)

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Cinema

“La scuola d’estate”, Luca Ronconi e i suoi allievi

di Gabriele Ottaviani

Un grande maestro del teatro tiene delle lezioni, in uno splendido casale in campagna, tra Gubbio e Perugia, a un gruppo di giovani aspiranti attori, mettendoli alla prova per tre settimane con testi di straordinari letterati del passato, raccontando loro aneddoti e soprattutto spronandoli a divertirsi.

Lontani da ogni distrazione, nello “spazio di libertà” del Centro Teatrale Santacristina, i ragazzi hanno un’occasione unica, e il film, uno dei sei ritratti d’artista presentati a Torino, firmato da Jacopo Quadri, è interessante: il problema, però, sono proprio i ragazzi.

Perché è vero che sono lì per imparare, ma sembra una puntata del “Grande Fratello” scritta male. E poi, sicuramente hanno un ottimo insegnante di teatro, ma non ce n’è uno a cui quello di italiano, grammatica e dizione, con tutta evidenza, non sia precocemente venuto a mancare. Si spera per un semplice trasferimento di cattedra e non perché sia passato ai più, anche se non è da escludere che qualcuno di loro, sentendo la libertà creativa di qualche proprio allievo nella pronuncia delle vocali toniche, abbia comprensibilmente deciso di porre fine sua sponte alla propria inconsolabile sofferenza.

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Cinema

“Approaching the elephant”, cinema a scuola

di Gabriele Ottaviani

Il titolo si lega a una nota citazione di Teddy di Salinger, la realizzazione manifesta da subito la parentela con la mano e la poetica di Robert Greene, già visto a Torino con “Actress”, la storia di Brandy Burre, il bianco e nero conferisce una particolare suggestione: è molto interessante “Approaching the elephant”, soprattutto perché si tratta di una riflessione sul mondo della scuola. Meglio, sul suo significato.

Quanto contano le nozioni, i programmi, la disciplina? E quanto, in particolare nei primi cicli, la libertà di espressione delle singole personalità dei ragazzi, specialmente di coloro i quali non riescono a integrarsi negli schemi della scuola tradizionale? Pedagogia e creatività, Maria Montessori e non solo, educazione al rispetto, alla democrazia, al dialogo, al dibattito, formazione di nuovi cittadini: nel mondo esistono duecentosessantuno scuole liberali, “Approaching the elephant” racconta il tentativo, made in USA, attraverso i volti intensi di docenti e discenti, di aprire e far prosperare, come una società felice, la duecentosessantaduesima.

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Cinema

“Wild”, la strada verso la noia

wild_xlgdi Gabriele Ottaviani

“Into the wild” ha fatto scuola. Purtroppo.

È diventato un genere. Stesso film. Stessa trama. Titoli molto molto simili. Copie. Brutte. Se almeno il primo della serie, a parte le lungaggini nello svolgimento e il finale, aveva un qualche senso, il film con produttrice (come del buonissimo “Gone girl”) e protagonista assoluta il Premio Oscar – e anche su quello ci sarebbe molto da dire – Reese “Lei-non-sa-chi-sono-io” (con annessa notte in gattabuia per oltraggio a pubblico ufficiale) Witherspoon, che chiude il trentaduesimo, validissimo Festival di Torino, delude.

Nonostante la sceneggiatura di Nick Hornby, che di solito ha una prosa scintillante, ma qui sembra un po’ come Barbara Alberti in “Incompresa”, chiamata a salvare i vaniloqui e le scombiccherature di Asia Argento, il film suona datato (andava bene negli anni ’70), non trova una strada, è schizofrenico, continuamente saltabeccante tra prolessi e analessi, retorico, enfatico, molto “sogno americano”, ma senza grazia né poesia, approssimativo e di noia esiziale.

Bella la musica e stupendi i paesaggi, ma per quelli ha merito la natura, non il film, la cui fotografia, anzi, non è che sia granché. Tratto dalla vera storia, ambientata, nella sua fase centrale, nel 1995, di Cheryl Strayed, ossia “Randagia”, il cognome che si è scelta dopo il divorzio, bestseller planetario (e la vera Cheryl surclassa l’interprete), è il racconto della ricerca di sé. Novantaquattro giorni di cammino, tra una imprecazione e un “chi me lo ha fatto fare”, per arrivare alla meta più consapevole e pronta per il futuro. Quanta originalità.

Cheryl ha un padre ubriacone e violento che picchia la mamma, solare, amorevole, deliziosa. Lei, Laura Dern – e qui cominciamo a sospendere, per la prima e non certo ultima volta durante il film, l’incredulità, perché la madre è più giovane e alta il doppio (e non è che il marito sia pigmeo) della figlia, che compensa col mento, e che sembra adolescente quanto lo pareva Dylan, che infatti aveva le rughe, in Beverly Hills 90210 -, lo molla (hallelujah!), e va a vivere con Cheryl e l’altro figlio. Riprende a studiare. Lavora come cameriera insieme alla figlia. Si ammala. Muore. A quarantacinque anni. Cheryl, in maniera del tutto comprensibile, va letteralmente fuori di testa.

Fornica in modo ossessivo, sfrenato e compulsivo con chiunque respiri – anche male, non si butta via niente – in zona. Si droga. Il matrimonio va a rotoli. Resta incinta e non sa di chi. Meglio, ne ha un’idea. Vaga. Abortisce. Si fa un tatuaggio per suggellare il divorzio. Un cavallo selvaggio sull’omero sinistro. Il marito le rimane amico. Comincia a camminare nei boschi lungo il Pacifico. Attraverso gli USA. Dal confine col Messico a quello col Canada.

È impreparata, poi migliora. Più o meno. Il serpente a sonagli preferisce che muoia di tedio e non la morde, ha lividi a caso, capelli sempre perfetti, labbra mai screpolate, vestiti stirati, scarpe che si rompono, unghie che saltano. Ogni tanto urla, fischia, millepiedi e raganelle le invadono il sacco a pelo, una volpe la accompagna. E lei si sente molto il Piccolo Principe. Compila i registri degli esploratori a ogni tappa con citazioni ultraabusate e altrui. Svuota lo zaino dalle cose inutili. La gran parte. E riesce dunque a sollevarlo, ora che non è più alto né pesante di lei e non rischia di fare la fine della tartaruga rovesciata. Le arrivano dei pacchi. Da Minneapolis. Dall’ex marito. Dalla cara Aimée. Pensa. Si commuove. Purifica l’acqua.

Incontra un bambino che recita meglio di lei, anche perché non fa imbarazzanti faccette, mentre Reese è degna epigona della Knightley di “A dangerous method”, a metà tra Linda Blair nell’“Esorcista” e Quasimodo nel “Gobbo di Nôtre-Dame” (si veda alla voce “Io la parte non ero mica in grado di farla come si deve, ma mi avevano detto che mi rotolavo sul tappeto con Fassbender – almeno, così avevo capito… – e dunque ho accettato”). Lega con le persone che incontra. Quasi tutte.

Si lascia avvolgere dalla bellezza. Arriva sul ponte. Guarda il fiume. Non si butta. Nemmeno lo spettatore. Però le due ore sono parse tre. Almeno.

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Cinema

“The guest”, mai far entrare in casa un ospite sconosciuto

rs_560x415-140710100625-1024.Dan-Stevens-Shirtless-The-Guest.jl.071014_copydi Gabriele Ottaviani

Caleb è originario del New Mexico. È morto. In Afghanistan. Un suo commilitone, David, va in visita alla famiglia. Porta a madre, padre, fratello e sorella un ultimo messaggio. Poi vorrebbe andarsene, ma loro decidono di ospitarlo.

Ognuno dei componenti ha, nel suo piccolo, qualche problema, che, stranamente, trova in breve una sorta di soluzione. David, però, non è evidentemente chi dice di essere.

Una sceneggiatura davvero bizzarra per un film sopra le righe in ogni suo aspetto, caricaturale, volutamente kitsch, che ha guizzi e debolezze, una certa ironia e diversi tributi di riconoscenza al cinema di genere, muovendosi come un equilibrista sul filo sottile tra la tragedia e la farsa, tra la commedia e il thriller.

Il messaggio di fondo c’è, e anche un certo ritmo, che di questi tempi è già un discreto punto di partenza. Buona la prova del protagonista assoluto Dan Stevens.

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The late show, un gioiello dal passato

imagesdi Erminio Fischetti

Robert Benton è noto per aver realizzato due fra i più importanti melodrammi degli anni a cavallo fra i ’70 e gli ‘80: il vincitore del Miglior Film 1979 “Kramer contro Kramer”, una delle prime opere che metteva in scena il dolore dei figli i fronte al divorzio dei propri genitori, e il dramma agricolo “Le stagioni del cuore”, veicolo del secondo Oscar per Sally Field.

Ma prima di questi due film Benton aveva realizzato “The late show” (in italiano “L’occhio privato”), commedia poliziesca del 1978, che omaggia il cinema noir degli anni ’40, i romanzi di Raymond Chandler, Marlowe, la coppia Bogart – Bacall, Alan Ladd e Veronica Lake.

Ovviamente il tono è ironico, l’investigatore è ormai un disilluso e anziano detective con problemi di deambulazione e di udito, e la giovane donna nei guai è un’attrice fallita che ha perso il gatto, non certo fatale, tantomeno bella, che è incarnata dalla comica scoperta da Robert Altman Lily Tomlin. La scrittura di Benton è serrata e confezionata alla perfezione (ebbe infatti la candidatura all’Oscar), i dialoghi irriverenti e divertenti,  ma la forza è nelle prove di Art Carney – caratterista che ebbe successo dopo la mezza età (vinse un Oscar con la toccante e malinconica commedia del 1974 “Harry e Tonto”, del sottovalutato Paul Mazursky, storia di un uomo anziano che vive col suo gatto, una sorta di “A spasso con Daisy” in versione maschile, che ha dei rimpianti nel rapporto complicato con la figlia femminista Ellen Burstyn) – e di Lily Tomlin, che fu protagonista di una candidatura ai Golden Globe nella sezione Musical / Comedy.

Una piccola perla che merita il recupero, presentata a Torino nell’ambito della retrospettiva sulla New Hollywood, e ormai diventata di difficile reperibilità.

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Actress, o della nuova vita

di Erminio Fischetti

Tutti vogliamo recitare perché vogliamo delle vite diverse.

È quel che in fondo racconta il documentarista americano Robert Greene in “Actress”,  che ricostruisce nella forma della non-fiction la vita dell’attrice Brandy Burre, ormai casalinga con due figli nell’America dei sobborghi, che è arrivata a sfiorare la notorietà e la produzione di serie A con un breve ruolo ricorrente nella premiata serie poliziesca della HBO “The wire”,  amatissima dalla critica.

Dopo quasi dieci anni Brandy rimpiange quella vita (“sarei potuta diventare… “), dopo aver capito di essere insoddisfatta come compagna e madre. Greene segue questa donna nella lotta verso la rimonta, la ricerca del comeback in un mondo difficile, che l’ha voluta per un solo attimo e non si è più ricordato di lei. Una goccia nel mare che rinuncia alla concretezza per l’effimero, che forse non la vuole.

Brandy aveva scelto dieci anni fa la realtà, i pannolini, i pianti, il mandare avanti una casa, ma ha capito che quello non è sufficiente, la sua convivenza per questo è andata a rotoli. Tutto è cambiato nuovamente.

Un racconto molto attuale sull’insoddisfazione, sul contrasto fra quotidiano e sogno (illuso e perduto). La Burre ora in fondo mescola entrambi: vuole ricominciare a lavorare anche perché deve aiutare l’ex compagno, mantenere i due figli. Una regia profondamente indipendente: digitale sgranato, macchina a mano, fotografia naturale, ricerca del realismo assoluto per un’opera in parte riuscita (che però non c’entra nulla con Cassavetes come dicono), che gira un po’ su se stessa ma mette in scena una umanità egoista, debole, confusa, incapace di fare i conti coi propri limiti, ma anche di riconoscere le cose che contano e la propria fortuna: Brandy è in fondo una buona madre.

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A second chance, Susanne Bier e la morte

download (1)di Gabriele Ottaviani

Salvate il soldato Bier dalle major, verrebbe da dire, perché quando torna in Scandinavia, con quelle atmosfere inconfondibili e di indubbio fascino, certamente fa film migliori.

Il problema è che sembra aver perso proprio il tocco degli esordi: forse si è resa conto lei stessa che ultimamente non ne ha imboccata una nemmeno per sbaglio, e quindi si è fatta prendere dall’ansia di riscatto. Il guaio fondamentale di “A second chance” è proprio quello infatti: c’è troppa carne al fuoco.

È una storia che più drammatica non si potrebbe, visto che parte dalla perdita di un figlio, tema, anche se ultimamente di grande attualità al cinema – un film su tutti, “The disappearance of Eleanor Rigby”, con una sublime Jessica Chastain – per tanti anni tabù (non esiste nemmeno la parola: chi perde il coniuge è vedovo, chi perde i genitori è orfano, chi perde il figlio non è niente, tanto pure il concetto è innaturale), e poi si evolve, sfortunatamente, con fretta.

Non si fa in tempo a metabolizzare, non c’è empatia, e anche i quattro personaggi principali, le due coppie di genitori, sono – un po’ meno giusto il poliziotto – troppo border line per generare immedesimazione, comprensione, condivisione.

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Mirafiori Luna Park, sogno e lavoro

di Gabriele Ottaviani

L’idea alla base è graziosa e poetica, la realizzazione pratica purtroppo presenta delle pecche che non le rendono giustizia, e dal punto di vista recitativo il cast lascia perplessi, se si eccettuano Antonio Catania, Alessandro Haber e Giorgio Colangeli, i tre protagonisti.

Hanno lavorato tutta la vita in una fabbrica che adesso di fatto non esiste più se non come retaggio archeoindustriale, che chi più è in alto di loro vuole demolire, come è stato per gli orti urbani che loro stessi hanno deciso di creare per strappare vita e bellezza alla mercificazione, una fabbrica che è stata polo produttivo e di attrazione, attorno alla quale si è formato un quartiere, sono sorte case, giardini, la scuola, la chiesa, una fabbrica che ha dato il nome a più di un modello di autovettura. Una di quelle il cui marchio significherebbe Fabbrica Italiana Automobili Torino. Però produce in Serbia, o in Polonia. Quando non in Brasile, a Belo Horizonte. Ed esce fuori la Duna… In una parola, Mirafiori.

Ideali, politici e non solo, lotta, lavoro, affetti, cassa integrazione, occupazione e un tocco di realismo magico, Don Ciotti che sembra Don Milani. Ma non basta.

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Frastuono, molto rumore per poco

di Gabriele Ottaviani

Un ragazzo e una ragazza della provincia, o forse sarebbe meglio dire dell’hinterland, di Pistoia hanno diversi interessi, ma ciò che amano più di ogni altra cosa è senza dubbio la musica, attraverso il cui linguaggio universale e immediato tentano di esprimere tutto quello che hanno dentro, come vedono il mondo, le tematiche che stanno loro a cuore, ciò che sono e ciò che li ha fatti diventare così come sono, il frastuono che hanno nell’animo e che cercano di portare all’armonia mediante il frastuono – quantomeno, alcuni lo riterrebbero tale, forse – delle loro composizioni.

Questa, in sintesi, la trama di, per l’appunto, “Frastuono”, e anche il suo limite: il tema è sempre quello, l’arte e la vita, ma la storia è un po’ latitante, si perde tra le pieghe di una narrazione che fatica a creare uno sviluppo organico.

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