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“Qui dovevo stare”

di Gabriele Ottaviani

Al semaforo controllo il cellulare e c’è un messaggio di Pamela e nel messaggio Pamela dice che ha la febbre a 38.3 e non aggiunge altro anche se so che intende dire che con una febbre del genere sarebbe più contenta di non restare da sola con la bambina stasera e di non restare da sola con la bambina domani sera e intende dire una volta di più che dovrei essere un uomo diverso da quello che ha conosciuto e con cui scopava in macchina alla cava sul Tevere e che ha deciso di sposare e con cui ha deciso di far nascere una bambina che adesso ha quattro anni e con cui ogni tanto è troppo nervosa. Ma adesso quello nervoso sono io e quello nervoso che stende il palmo della mano e lo abbassa con forza contro il volante del Doblò sono io e quello nervoso che avrebbe invece bisogno di essere lasciato in pace perlomeno dalla donna che ha sposato sono io. Quello sono io perché per non rimanere troppo indietro a casa del professore sto lavorando come un mulo e quello sono io perché nel frattempo il Tordo è morto e il Tordo era così scannato da non aver messo da parte nemmeno due lire per pagarsi un funerale e un buco nel buco del culo del cimitero e il Tordo aveva messo da parte così tanti debiti da essersi fatta nemica tutta la mafia cinese della città e chissà quanti altri brutti ceffi nel raggio di chissà quanti chilometri e il Tordo aveva messo da parte così tante ansie che non ha trovato niente di meglio da fare che prendere la mira bene bene all’altezza del tasso a cui aveva frantumato il cranio una settimana prima e poi andare a sbattere di muso e di testa e di collo contro un pino mezzo storto scelto a caso tra decine di altri pini fratelli lungo la strada tra il vecchio ospedale e il cimitero…

Qui dovevo stare, Giovanni Dozzini, Fandango. Luca è un imbianchino. Ha quarant’anni. Non fa sconti. In primo luogo a sé medesimo. Dozzini ci catapulta nei meandri della sua mente, nel labirinto delle sue ossessioni, perversioni, paure, debolezze, menzogne, verità, fragilità, idiosincrasie, tra i segreti e i tormenti di un’identità in frantumi che non è solo quella di un individuo, ma anche, per non dire soprattutto, dato il gioco di specchi, rimandi e riverberi che si viene a creare con rara perizia, quella di una società sempre più rabbiosa, invidiosa, cattiva, spaventata, misera, brutale, rozza, greve, gretta, arida, avida, volgare, feroce e niente affatto solidale, dimentica di ogni cosa, incredula su tutto, senza valori né punti di riferimento, nemmeno, o meglio in primo luogo, politici, e il flusso di coscienza del protagonista è anche quello di un mondo che si compiace del suo lagnarsi. Monumentale.

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“Akhenaton”

di Gabriele Ottaviani

Ho dato corpo al sogno

nella scultura

nell’affresco tombale

nel suo cartiglio intrecciato al mio.

Akhenaton, Dorothy Porter, Fandango, traduzione di Maurizio Bartocci. Così come il faraone che voleva instaurare il monoteismo nella terra resa fertile dal limo del Nilo rifugge a qualsiasi catalogazione, anche quest’opera non ha confini: è un romanzo, certo, ma scritto in versi, composto da poesie, tutte legate assieme ma pure autoconclusive, e non si tratta solo, ammesso e non concesso che sia legittimo dire così, di una biografia, ma anche di un affresco della frammentazione dell’io umano in tutta la sua caleidoscopica varietà. Da non perdere.

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“L’isola”

di Gabriele Ottaviani

Yussuf si avvicinò al gruppo. Scostò con un piede il miliziano riverso sul selciato e posò una mano sulla spalla del padre. L’uomo mantenne una salda presa sul figlio, ma affondò i suoi allarmati occhi azzurri in quelli cupi, eppure in un certo modo affabili, di Yussuf. Un attimo dopo abbandonò la presa sul corpo del figlio e si lasciò trascinare come un sacco vuoto verso il gruppo dei prigionieri. Yussuf sentì il membro sotto i pantaloni indurirsi fino a quasi esplodere. Per Allah misericordioso, che piacere. Nemmeno se avesse studiato quella scena a tavolino sarebbe mai stata così perfetta. Aveva solo toccato quell’uomo. E lui lo aveva sentito! Aveva sentito insieme la crudeltà e la bontà di Yussuf. Si era allontanato come un cane che guaisce davanti al bastone del padrone. Tutti ora sapevano che lui era la forza, ma poteva anche proteggerli, se si sottomettevano. Era stato fortissimo. Sulla piazza era calato il silenzio. A un cenno di Yussuf i miliziani ripresero a separare i figli dai genitori. Botte, calci e pugni ricominciarono ad abbattersi sui corpi di chi ostinatamente cercava di proteggere i piccoli dalla selezione. I bambini venivano incolonnati lungo via Roma e affidati alla sorveglianza di donne coperte dalla testa ai piedi da tuniche nere e da niqab che lasciavano intravedere solo gli occhi. Le sorveglianti tenevano i mitra a tracolla, e brandivano lunghi frustini di bambù con cui colpivano i bambini spaventati e incapaci di capire i loro comandi urlati in arabo, inglese e tedesco. Una bambina fu colpita alla testa dal frustino, sua madre scattò tentando di raggiungerla, un miliziano spinse a terra la donna e iniziò a tempestarla di calci. La bambina cercò a sua volta di uscire dalla fila, ma una delle terroriste allungò un piede e la sgambettò, la bambina cadde a terra, la donna la afferrò per i sottili capelli castani e la riportò nel gruppo.

L’isola, Claudio Fava, Michele Gambino, Fandango. Un grosso sasso in mezzo al Mediterraneo, lungo dodici chilometri e largo due, dove per queste e altre ragioni altrettanto ovvie non si ha mai fretta di andare o arrivare da nessuna parte: in questo luogo-non luogo le più diverse situazioni esistenziali si intrecciano, dando vita a una commedia umana cruda e solenne, tragicamente verosimile. Se la politica continua a essere miope, se il coraggio cede il posto alla rassegnazione, se la disperazione si sostituisce alla speranza, se il razzismo sconfigge la carità, se non si sanno né possono né vogliono dare risposte alle paure delle persone, e anzi le si vellica, soffiando sul fuoco per mero tornaconto personale, anche, talvolta, da parte giornalistica, il rischio è che tutti diventiamo isole, monadi, vittime di una guerra santa solo di nome, in cui non necessariamente quello che sembra essere un feroce califfo che si eccita anche fisicamente col delitto è poi il vero e peggiore pericolo: da non perdere.

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“Scopami”

di Gabriele Ottaviani

Un tizio si alza da una sedia e barcolla fino al bancone. Eppure è ancora presto per ridursi in quello stato. Tenta di farsi fare credito, il barista non lo caga. Una bruna fa il suo ingresso, il ragazzo dall’altro lato del bancone sgrana gli occhi. Quanto a emozioni questa è un pezzo da novanta. Il tipo emerge dalla tranquilla indifferenza in cui versava, si agita sullo sgabello, risponde all’occhiolino del cameriere: “Non è colpa nostra, siamo circondati da viziose”. Nadine osserva la bruna in questione, cerca di vederla con gli occhi di lui. Perché questa e non un’altra? Forse assomiglia alla prima che gli ha lasciato scivolare un dito nella figa. O forse ha lo stesso sorriso di quella sulla foto nella rivista spruzzata a forza di seghe. Un altro cascamorto si avvicina al primo, confabulano: “La conosci la brunetta là in fondo?”. “Me la sono fatta, una super pompinara.” “Vorrei crederti sulla parola, ma preferisco verificare personalmente. Me la presenti? Prendono i bicchieri e vanno a sedersi al suo tavolo.” Di fianco alla porta una meticcia straesplosiva sovrasta due ragazzi dall’alto dei suoi tacchi. La gonna finisce esattamente dove cominciano le gambe. Interminabili. E i ragazzi cercano di non pensare a come le stringa intorno alla vita del beato che se la rovista. Lei li ascolta sorridendo, mani sui fianchi. Il bacino ondeggia un po’ quando scoppia a ridere. Il richiamo del sesso in questo caso si coniuga all’imperativo e comporta un biglietto per l’inferno. È una ragazza fatale nel vero senso della parola. Tutti in questo bar sanno che ne ha fatto impazzire più di uno e ciascuno darebbe il culo per essere il prossimo.

Scopami, Virginie Despentes, Fandango, traduzione rivista e aggiornata di Silvia Marzocchi. Il film, vent’anni fa, tratto da questo romanzo, con cui condivide l’asciuttezza, l’immediatezza, il ritmo travolgente e la deflagrante e ribelle potenza evocativa, e codiretto dalla sua autrice assieme a Coralie Trinh Thi, fece scandalo sin dal titolo, esplicito, diretto, inequivocabile: passato dal prestigioso festival di Locarno, la sua avventura in sala fu tormentata, nonostante le due registe siano state definite come le autrici della verità sessuale nientedimeno che dal Time e benché Beppe Attene di Làntia, uno dei distributori italiani assieme a BiM ed Elleu, abbia addirittura citato Ken Loach come pietra di paragone per la schiettezza della denuncia dell’abiezione sociale che, al di là di ogni convenzione e perbenismo, passa narrativamente anche attraverso il sesso. Il volume torna in libreria, più attuale che mai, in questi nostri tempi violenti, scabrosi e protervi: la vicenda è quella di Manu, che, sequestrata da una gang, viene violentata con un’amica in un cortile, mentre Nadine assiste all’omicidio del proprio ragazzo, tossicomane e spacciatore, il quale le aveva commissionato una consegna in una località montana verso cui da Parigi decide comunque di partire insieme all’altra ragazza, che conosce solo superficialmente, e che nel frattempo ha ammazzato, durante un’esplosione di rabbia, il fratello che l’aveva accusata di non aver fatto nulla per evitare lo stupro, esattamente come Nadine, nel corso di un litigio, ha fatto fuori la propria coinquilina… Vibrante e magnetico.

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“Quelli che Spezzano”

di Gabriele Ottaviani

I Greci stanno alla larga dai dispotismi dei popoli vicini, creano una vita civica, autonomie e federazioni, alimentano focolai di cultura. Eppure, ai sogni di progresso e felicità, va ricordato, non corrispose alcuna lotta contro la schiavitù. “Il che dimostra quanto sia veramente difficile elevarsi al di sopra del proprio ambiente”, commenta giustamente Nettlau. I cittadini ateniesi non sono certo tutti uguali. Divisi in quattro classi a seconda della loro ricchezza, solo chi appartiene a una delle prime tre può partecipare al governo della città, occupando cariche minori o maggiori a seconda del proprio patrimonio. La popolazione comprende anche schiavi, donne sottomesse e residenti stranieri senza diritti. Solo una minoranza di cittadini di sesso maschile gode dei diritti civili e governa la città senza consultare il resto della popolazione. La polis ateniese non è certo stata una “città ideale” alla luce dei nostri occhi d’oggi, ma “è significativa, non tanto come esempio di una comunità emancipata quanto per il buon funzionamento delle sue libere istituzioni”.

Quelli che Spezzano – Gli arbëreshë tra comunalismo e anarchia, Tiziana Barillà, Fandango. Spezzano Albanese, in Calabria, in provincia di Cosenza, è la località nella quale è più numerosa la comunità degli italo-albanesi, che conta circa centomila persone, che ha una propria lingua, che è perfettamente integrata nel tessuto sociale, culturale, economico e politico, pur mantenendo e anzi portando in dote la ricchezza della propria originale identità, e che sul territorio dello Stivale è stanziata in uno spazio per lo più diffuso fra Campania, Puglia, Molise, Sicilia, Basilicata e, appunto, Calabria: Tiziana Barillà prende le mosse da Spezzano per immergersi nel contesto di una comunità che spezza molte convenzioni, una realtà che, cambiando quel che dev’essere cambiato, rassomiglia non poco a quella di Riace, caratterizzata da una forte connotazione finanche anarchica, che porta avanti da anni nel comune della bassa valle del Crati, dove si staglia un busto in bronzo di Giorgio Castriota Scanderbeg, patriota albanese, un esperimento di municipalismo libertario grazie alla Federazione Municipale di Base che, ispirandosi a teorie di stampo libertario, ha realizzato la dimensione concreta di una vera e propria città del popolo, mettendo in pratica un’idea di federalismo dal basso non solo interessante come il dettagliato racconto che ne viene fatto ma che inoltre pare anche dare numerosi frutti, prendendo le mosse dalla nascita di comitati di quartiere fatti da lavoratori, disoccupati, studenti, pensionati e non solo che per esempio hanno saputo, influendo anche sulle scelte della municipalità, ridare voce a un luogo d’incontro e dibattito, significativo sin dall’intitolazione, come Piazza Giacomo Matteotti. Da leggere.

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“Pazza d’amore”

di Gabriele Ottaviani

Povera amica, cara, sì, capisco, è tutto chiaro; ma il pericolo persiste. Non possiamo, senza essere eccessivamente imprudenti, consegnare l’onore e il destino di Adèle al caso delle confidenze, sempre possibili, persino probabili, di una moglie a suo marito, che è membro del ministero inglese, amico di Bonaparte e di conseguenza nostro nemico…

Pazza d’amore, Adèle Hugo, Fandango. A cura di Manuela Maddamma. Un tenente un giorno la seduce, di fatto approfittando di lei, consenziente ma non consapevole, fragile, ipersensibile, ribelle, anticonformista, affamata di libertà, persino in occasione di una di quelle sedute spiritiche in cui suo padre, un genio disperato, un autore formidabile, un uomo tanto profondamente legato al contesto e al concetto della rispettabilità borghese, pur aspramente criticata, per l’ipocrisia proterva che vi è sottesa, nei suoi celeberrimi e magnifici volumi, da perdere completamente la fiducia in questa figlia che inventa una verità per non affrontare il vero, Victor Hugo, tentava di mettersi in contatto, dal suo dorato e tragico esilio, con la primogenita precocemente venuta a mancare: Adèle, da quel momento, nonostante l’uomo, Albert Pinson, le abbia detto in tutte le maniere che non ha intenzione di dividere la sua vita con lei, è preda e artefice di un’ossessione che la condurrà contro tutto e tutti, in ossequio solo alle richieste, pressanti sempre più, della sua anima. Raccogliendo stralci di lettere, pagine di diario, documenti e testimonianze, questo libro tratteggia un affresco umano impareggiabile.

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“Bill”

di Gabriele Ottaviani

Guardo oltre il bordo del letto, guardo Bill sul pavimento e penso a una cosa in cui mi sono imbattuto quando studiavo Medicina. Una fotografia, presentata come curiosità scientifica. Io però ci avevo creduto, avevo creduto all’idea che stava dietro allo scatto. Nell’estate del 1892 August Strindberg, commediografo e artista, provò a fotografare l’anima umana. Quella che tentò di catturare era la propria attraverso una serie di ritratti sfocati in bianco e nero. In quello che ho visto io, c’era lo stesso Strindberg che fissava l’obiettivo: gli occhi scuri e ribelli, il soprabito sbottonato. Era in piedi davanti a una porta di legno, il viso era al centro della foto – la porta si levava alle sue spalle, come una vela – come se il peso di quell’atto, l’aver messo a nudo la sua anima, lo avesse fatto sprofondare nella cornice. Credo ce l’avessero mostrata come una divertente stravaganza, una divagazione spirituale, ma per me era vera. Io penso che in alcuni momenti l’anima umana si renda visibile, e quando ho guardato in basso, vicino al letto, e ho visto Bill raggomitolato sul pavimento, ho avuto una visione della sua anima. E che cos’è un’anima?

Bill, Helen Humphreys, Playground, traduzione di Chiara Brovelli. Splendido sin dalla copertina, che traduce perfettamente per immagini il nome del personaggio cui si deve il titolo originale del romanzo, Rabbit Foot Bill, Bill Zampe di Coniglio, e che segna il destino del protagonista, Leonard, che prima di diventare un brillantissimo psichiatra nel più importante centro di cura, ricerca e igiene mentale della sua nazione non è che un bambino di dodici anni che nel millenovecentoquarantasette, mentre il mondo si rammenda, appena finita la più tremenda carneficina che si ricordi, ha nel suo paesucolo del Saskatchewan un’infanzia e un’adolescenza violente e infelici in cui l’unico barlume di tenerezza sembra proprio essere l’incredibile affetto che lo lega al barbone del villaggio, povero, malmostoso e male in arnese, in cui vede la stessa alienazione che prova rispetto al mondo, il che lo illude, gettandolo nel più cupo sconforto, quando Bill compie un’efferatezza che Leonard non s’aspettava, questo volume edito dalla sempre meritoria e raffinatissima Playground è la nuova prova, intensa, avvincente, avvolgente, coinvolgente, densa, profonda, ricca di livelli di lettura e chiavi d’interpretazione, della formidabile e pluripremiata narratrice e poetessa canadese cui si debbono Cani selvaggi, Il canto del crepuscolo, Il giardino perduto e tante altre opere, e che merita di essere annoverata nel gotha della letteratura mondiale assieme a, solo per fare qualche nome, Edna O’Brien (Ragazze di campagna, Un cuore fanatico, Lanterna magica, Le stanze dei figli, Uno splendido isolamento, Lungo il fiume, oggetto d’amore, Tante piccole sedie rosse, Ragazza), Anne Tyler (Se mai verrà il mattino, L’albero delle lattine, Una vita allo sbando, Ragazza in un giardino, L’amore paziente, Una donna diversa, Il tuo posto è vuoto, La moglie dell’attore, Ristorante nostalgia, Turista per caso, lezioni di respiro, Quasi un santo, Per puro caso, Le storie degli altri, Quando eravamo grandi, Un matrimonio da dilettanti, La figlia perfetta, Una spola di filo blu), Joan Didion (Prendila così, Diglielo da parte mia, Democracy, Miami, L’anno del pensiero magico, Blue nights, Run river), Annie Proulx (Cartoline, Avviso ai naviganti, I crimini della fisarmonica, Gente del Wyoming, Quel vecchio asso nella manica), Elizabeth Strout (Resta con me, Olive Kitteridge, I ragazzi Burgess, Mi chiamo Lucy Barton, Tutto è possibile), Penelope Lively (Una spirale di cenere, Un posto perfetto), Marilynne Robinson (Le cure domestiche, Gilead, Casa, Lila), Jane Urquhart (Niagara, Cieli tempestosi, Altrove, Klara, Sanctuary Line, Le fasi notturne), Catherine Dunne (La metà di niente, L’amore o quasi, Se stasera siamo qui, Donne alla finestra) e Joyce Carol Oates (Il giardino delle delizie, Loro, Blonde, Un’educazione sentimentale, L’età di mezzo, Un giorno ti porterò laggiù, Bestie, Una ragazza tatuata, Stupro, Acqua nera, Le cascate, Tu non mi conosci, La madre che mi manca, La femmina della specie, Vittima sacrificale, La figlia dello straniero, Uccellino del paradiso, Storie americane, Per cosa ho vissuto, Figli randagi, Il collezionista di bambole, Il maledetto, La donna del fango). Da non perdere per nessuna ragione.

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“Disperanza”

di Gabriele Ottaviani

Abbiamo paura di restare soli in un presente che non si riesce a scantonare come abbiamo paura degli specchi. Il virus ci ha preso per il colletto e ci ha costretto a sederci in silenzio a guardarci, da capo a piedi, con l’obbligo di fare i conti con se stessi, vivere il qui e ora senza affidarsi a un passato già masticato o a un futuro incerto. Un esame di coscienza obbligatorio che ha scoperchiato disperanza latente e ne ha amplificato l’odore. Non si è soli, eravamo degli sconosciuti.

Disperanza, Giulio Cavalli, Fandango. La nostra società è sempre più cattiva, rabbiosa, invidiosa, violenta, misera: e soprattutto è l’incarnazione della dittatura dell’ostentazione. E invece abbiamo il sacrosanto diritto alla tristezza. Il problema è che dovremmo poterci concedere anche la speranza, che invece pare sempre più un lusso. Quando e come l’abbiamo perduta, e siamo diventati quel che siamo? Cavalli, scrittore poliedrico e validissimo, intellettuale profondo e impegnato, pensatore fine, ancora una volta ci stimola, con una prosa politica nell’accezione più elevata del termine, a riflettere e a progettare un modo migliore, guardando in faccia la realtà e le sue storture.

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“Quello che è Stato”

di Gabriele Ottaviani

L’avvocato rimane qualche attimo disteso, lasciando che il piacere si diffonda per tutto il corpo. Poi si solleva e aspira con una cannuccia d’argento due strisce di polvere bianca dal ripiano di marmo di un tavolino. È la provvista di cocaina che il cavalier Ascione, l’amante della contessa Visigalli, gli fa trovare ogni volta che si trova a passare da Napoli. Raccoglie con la lunga unghia del mignolo la polvere rimasta sul marmo e se la passa sui denti. Poi versa dello champagne in un calice poggiato sempre sul tavolino, accanto al secchiello col ghiaccio. Ne beve un sorso avvicinandosi a una delle porte finestre che danno sul terrazzo della suite. Scosta le tende e, nudo com’è, esce fuori. Davanti a lui c’è l’intero Golfo di Napoli. L’aria limpida e la luna piena rendono quella vista uno spettacolo di bellezza incomparabile. Lo sguardo spazia dal Vesuvio all’isola di Capri, fino alle sagome, più evanescenti, delle altre isole, Ischia e Procida. Più vicine e brillanti le luci della città, dalla collina di Posillipo al porto. Intanto la porta del bagno si apre ed esce, nuda, Marlene. Ma non è più Marlene. Di quella donna bionda restano il corpo statuario, le spalle tornite, i seni piccoli e pieni, le lunghe gambe affusolate, in mezzo alle quali però, come in una statuetta dionisiaca, amuleto di fertilità, sorge un membro virile di notevoli proporzioni. I biondi capelli ondulati non ci sono più, al loro posto una folta capigliatura castano scuro tagliata a spazzola. Il viso, senza il cerone che lo ricopriva, ha ripreso i suoi tratti originali, che sono decisamente maschili. L’inquietante creatura ermafrodita attraversa il salottino e raggiunge Frangipane sul terrazzo. L’avvocato gli/le sorride, poi torna a fissare la distesa di luci. “Napoli sta cambiando, eh, Gennari’?”, mormora pensoso. “Iiih si sta’ a cagnà! Cagna tutto avvuca’… Sule chisto nun se po’ cagnà”, e così dicendo Gennarino si tocca il pomo d’Adamo e scoppia a ridere. Frangipane ride a sua volta. Gennarino lo abbraccia da dietro e lo bacia sul collo. “Comme site’ bbell’, avvucato mio.” Calogero lo accarezza a sua volta e si lascia riportare dentro. Gennarino lo adagia nuovamente sul divano, gli spalanca le gambe e se le mette sulle spalle. “Te voglio bene, avvuca’”, dice con un sorriso di un candore imprevedibile. Un attimo prima di essere penetrato, l’avvocato Calogero Frangipane pensa che veramente niente è come sembra, al contrario, tutto è quasi sempre molto diverso da come appare. Poi si rovescia all’indietro e urla.

Quello che è Stato – Romanzo della storia d’Italia dalla Seconda alla Terza guerra mondiale, Mimmo Rafele, Fandango. Intrigante, avvincente, appassionante, denso, profondo, ricco di spunti, livelli di lettura, chiavi d’interpretazione, il libro di Mimmo Rafele, intellettuale finissimo che non ha bisogno di presentazioni, è un dettagliato affresco del mondo che ci circonda, con tutte le sue storture e le sue possibilità, di come la società si è evoluta e involuta, di quali giochi più o meno perversi di potere si agitino turbinosi sui destini di donne e uomini: da non farsi sfuggire per nessuna ragione.

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“Un appartamento su Urano”

di Gabriele Ottaviani

Di fronte al negozio alcuni manifestanti denunciano l’omicidio, per mano della polizia, di Amilcar Perez, un ventenne emigrato dal Guatemala. All’interno siamo ricevuti da Jukie Sunshine, che ricordo di aver visto in cima alla collina di Seven Sisters, su una foto di Del LaGrace Volcano. Entrare a Good Vibrations con Annie Sprinkle è come entrare con Messi in un museo del calcio. Tutti i sex toys sembrano vibrare al suo passaggio. Scopriamo i nuovi modelli di vibratori prostetici, realistici, in silicone, senza ftalati e ipoallergenici. Mi consulto con Annie: dice di preferire il colore “caramello” a quello “vaniglia”. “Sarà come se avessi preso il sole completamente nudo in California.” Quando proviamo i sex toys l’unica domanda che fa Annie è: “Può anche massaggiare il collo?”. Davanti al nostro sguardo perplesso, Annie spiega: “Dopo la menopausa, la sessualità è post-genitale”. Alla fine opta per un accessorio eco-sessuale: un paio d’orecchie da gatto che si fissano ai capelli come una spilla. Alla cassa Jukie ci ricorda che “tutti i sex toys sono assicurati per ogni evenienza e a vita”, anche se sono esclusi i danni provocati dalle “ex fidanzate e dai cani”. Annie mi offre una “pompa da clitoride” come souvenir, dice, della Silicon Valley. Uscendo dal negozio passeggiamo su Clarion Alley, i cui muri sono ricoperti di pitture e graffiti, una sorta di museo della protesta a cielo aperto: Blacks are murdered with Impunity (“i neri vengono uccisi nell’impunità”); Evict Google (“sfrattiamo Google”), Put Your Guns Down (“giù le armi”). In una di esse, qualcuno ha sostituito le stelle della bandiera statunitense con dei teschi e le strisce bianche e rosse coi nomi, scritti in bianco e nero, di alcune persone assassinate dalla polizia: 67 omicidi “legali” di migranti latinoamericani…

Paul B. Preciado, Un appartamento su Urano – Cronache del transito, Fandango. Prefazione di Virginie Despentes. Traduzioni di Liana Borghi, Manuela Maddamma e Alessio Arena. Nato a Burgos, nella comunità autonoma di Castiglia e León, in Spagna, l’undici di settembre del millenovecentosettanta, come Beatriz, nome che conserva come secondo anche dopo aver intrapreso il percorso di transizione, Preciado è un filosofo e scrittore, esperto di pornografia, studi di genere, sessualità, architettura e biopolitica: non conosce retorica, non cerca facile consenso, non vuole rassicurare, ma far riflettere e conoscere, sancendo la sacra importanza della disubbidienza a imposizioni che non hanno ragione d’esistere. Necessario per aprire la propria mente e i propri orizzonti.

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