Libri

“Storia della bambina che volle fermare il tempo”

81Ouz1Z6hBL._AC_UY218_di Gabriele Ottaviani

I ragazzi si lanciano bigliettini sui quali sono scritte cose di cui potrebbero benissimo parlare durante l’intervallo, sostiene la professoressa con i capelli ossigenati, ma questo è un errore da parte sua. Adesso che la ragazzina ha una vista più acuta e non è più così intimorita, vede i bigliettini volare per la classe, vede le linee invisibili che tracciano nello spazio e avanza ipotesi sul loro contenuto. Presta attenzione al leggero scoppio provocato dal lancio di ciascuna di quelle palline cospiratorie, e sghignazza insieme agli altri perché l’insegnante non ha il potere di fermare simili proiettili. Per la prima volta da quando è arrivata lì, gli altri la vedono sghignazzare di tutto cuore. Il suo compagno di banco Erik sta già lavorando a una fionda per questo genere di corrispondenza mediante palline, benché possieda anche lui il cilindro vuoto di una penna a sfera, soffiando all’interno del quale potrebbe sparare messaggi in tutte le direzioni. Ha fatto uno schizzo della fionda, adesso si mette a costruirla…

Jenny Erpenbeck, Storia della bambina che volle fermare il tempo, Sellerio. Traduzione di Ada Vigliani. Ha quattordici anni, o almeno questo è quello che sostiene. La polizia la trova. Sola. Di notte. Per strada. Ha con sé un secchio. Vuoto. Non ricorda come si chiami. Non ricorda dove vive. Non ricorda chi siano i suoi genitori. Non ricorda perché sia lì. In quel momento. Nel mezzo del niente. Alle forze dell’ordine non resta altro da fare che portarla in un istituto. E lasciarla lì. Orfana per sempre. Ma… Con la potenza simbolica della fiaba e la struttura di genere del romanzo giallo, Jenny Erpenbeck dà vita a una maestosa allegoria della condizione umana: magistrale, sfavillante, folgorante, imprescindibile.

Standard
Libri

“Voci del verbo andare”

6516-3.jpgdi Gabriele Ottaviani

Sylvia osserva che il colosso industriale fa esattamente quello che Richard aveva raccontato prima: Eracle solleva Anteo da terra, e in tal modo questi perde la sua forza. Sulle maglie della squadra di calcio del Norimberga non c’è per caso la scritta Areva? domanda Detlef. Può darsi, dice Richard, e intanto pensa. Mentre sono lì sulla via del ritorno e, continuando a chiacchierare, passano di nuovo davanti al terreno dove c’è la casa di una dipendente comunale che, a ogni piccola mancanza dei suoi vicini, li minaccia subito con 2.000 euro di multa, e poi di nuovo davanti al terreno dove il presidente del Circolo della pesca ha issato una bandiera della Germania, e infine di nuovo davanti alla spiaggia che era rimasta deserta per tutta l’estate – lui intanto pensa. E mentre vede Sylvia aggrapparsi a suo marito Detlef e Thomas gettare uno sguardo al pacchetto delle sigarette per poi riporlo in tasca aggrottando la fronte e senza averne tirata fuori neppure una – lui proprio in quel momento pensa che anche queste quattro persone, una delle quali è lui, Richard, costituiscono un corpo. Mano, ginocchio, naso, bocca, piedi, occhi, cervello, costole, cuore o denti. Non fa differenza. Che cosa accadrà quando Sylvia, che talvolta prende l’iniziativa di telefonare a lui, a Thomas e a qualche altro amico berlinese, che cosa accadrà quando Sylvia non ci sarà più?

Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare, traduzione di Ada Vigliani, Sellerio editore. L’accoglienza in Germania si sa, è un problema, una risorsa, una strategia, una condizione, un tema attuale, un terreno di battaglia culturale, sociale, economica, elettorale, politica, di ordine pubblico, e trattandosi del più grande, solido e produttivo paese d’Europa (la locomotiva, si sarebbe detto una volta, ma ormai come i vecchi treni anche questa stessa parola sembra essere in procinto di scivolare nel dimenticatoio lasciando di sé poche e sbiadite tracce) ciò che riguarda il complesso di questa situazione si riverbera a livello molto più che nazionale. E l’accoglienza in Germania, persino a Berlino, la sua capitale che non ha ancora festeggiato i suoi trent’anni d’unione, dopo i ventotto divisa dal muro (e quanti, ancora oggi, se ne vedono costruire, lezione incompresa, non imparata, non capita, perché è il proprio l’orto a cui si guarda sempre, anche se quello del vicino ha la verzura più rigogliosa), è fatta anche di campi profughi. Laddove si trovano uomini e donne, che hanno varcato il confine del vecchio continente nella più meridionale e generosa delle sue porte, Lampedusa. E poi, come la gran parte di coloro che compiono quel viaggio che alcuni ancora considerano una passeggiata, quando basterebbe riflettere sul fatto che nessuna madre al mondo metterebbe su una barca il proprio figlio se non avesse la certezza assoluta della maggior sicurezza del naviglio rispetto alla terraferma, non vogliono certo restarvi in Italia, checché ne dicano i disinformati e opportunisti profeti di sventura che quando hanno governato certo non hanno risolto il problema, anzi. Sono quattrocento i profughi. Si sentono alieni. Richard, ora in pensione, ma comunque sempre un filologo classico, ossia un uomo abituato a ricercare nei meandri più complicati la chiave per capire, e la vita stessa, in fondo, non è altro che un testo, una narrazione, le cui sillabe sono i giorni che la compongono, incontra quasi per caso degli africani. E si appassiona alle loro vicende, in cui ogni colore dell’esistenza è rappresentato con vividezza. L’autrice fa di questo romanzo analisi, denuncia, cronaca, reportage, riflessione sulle contraddizioni aberranti del nostro tempo. Con una prosa che non si può definire meno che eccellente.

Standard