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“La focena”

di Gabriele Ottaviani

Pericle mette una mano sul petto dell’altro e gli dà una spinta tale che il uomo sbatte la testa contro la paratia alle sue spalle: per un attimo è accecato dalla rabbia…

La focena, Mark Haddon, Einaudi, traduzione di Monica Pareschi. Angelica sospetta, sempre più, mano a mano che il tempo, divinità che tutto fagocita, inesorabile scorre, che ci sia qualcosa di malato nell’amore che il padre Philippe ha per lei. Troppo soffocante. Del resto, però, sua madre, Maja, attrice scandinava di sfavillante bellezza, l’ha data alla luce morendo, in un incidente aereo. Lui ha solo lei, che gliela ricorda ogni istante. Lei ha solo lui, e dunque non ha cuore di trasgredire al vincolo dell’ubbidienza. Non vuole che soffra, così come lui, per lei, ha paura di tutto. E pensare che, fortunatamente benestante, aveva sempre vissuto in modo spensierato prima della tragedia: ora invece quella maestosa residenza dal nome solenne, Antioch, nella campagna inglese, sembra essere avvolta da una densa cappa di ossessivo dolore, una presenza immateriale ma concreta, tangibile, di cui si accorge Darius, che vi si reca per vendere a Philippe alcune opere d’arte. Ma Angelica pensa che sia lì per salvarla: non è che l’inizio di un’avventura rocambolesca, apologo allegorico della forza delle emozioni, delle donne e del coraggio, che riscrive la fiaba, il mito e il dramma shakespeariano, valicando la mera partizione tassonomica dei generi e conquistando sempre più pagina dopo pagina.

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“Underland”

di Gabriele Ottaviani

Del passo ancora nessuna traccia. Sarà il canalone giusto? Poi uno scricchiolio da sotto, mi manca la terra sotto i piedi e… bam… neve dura che mi schiaccia i polmoni. Ci sono dentro fino alle braccia. Sento le gambe dondolare nel vuoto. Pensa, rifletti: un crepaccio nella neve. Devo essere caduto parzialmente in una fenditura che si è formata dove la vecchia neve ricopre una sporgenza di roccia. Non voglio assolutamente finire di cadere nello spazio sottostante…

Underland – Un viaggio nel tempo profondo, Robert Macfarlane, Einaudi. Traduzione di Duccio Sacchi.  Non c’è nulla di più profondo della superficie, sosteneva, in effetti dal suo punto di vista, e sotto molti aspetti, con buona ragione, Hegel: ma è invece proprio al di là della soglia che decide di scavare Robert Macfarlane, indagando, affidandosi a guide e scienziati, però al tempo stesso divenendo lui medesimo un perfetto cicerone in giro per il mondo, l’oscurità per riemergere con la luce della consapevolezza, faro sempre più indispensabile in questi tempi fallaci, rimettendo nel giusto ordine le priorità della vita e tacitando l’innato e ingiustificato istinto dell’uomo di sentirsi onnipotente. Da non perdere.

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“I delitti della salina”

di Gabriele Ottaviani

Vestiti di stracci, gli altri piciocus si guardavano intorno spaventati e curiosi. A tratti persino divertiti. Un secondo fischio e la folla arretrò. Il barroccio si mosse di pochi metri, quel tanto da permettere ai muratori e ai marmisti di disporsi in coda sul lato opposto delle operaie. Ugo notò che li guidava un viso amico. Clara, invece, non lo riconobbe. – È Anacleto, il toscano. Quello che ha cantato per te e che ogni tanto viene all’Elvetico, – le bisbigliò Ugo. – Un anarchico, – commentò Rodolfo. – Non so se sia anarchico, di sicuro ha una voce versatile, – commentò Fassberger. – È un anarchico, porta il fiocco alla lavallière degli anarchici, – insistette Saporito. Clara lo osservò meglio. Il giorno del loro incontro la polvere di marmo che lo ricopriva gli aveva nascosto l’identità. Lo squadrò da capo a piedi e rimase colpita da un evidente contrasto: i lineamenti gentili cozzavano con la grossezza delle mani. La pelle del viso candida e i baffetti biondi, che sembravano essere stati disegnati col pennello, lo rendevano molto piú giovane di quanto probabilmente non fosse. Gli occhi verdi e vispi si muovevano rapidi in cerca di qualcuno che pareva mancare all’appello. Quel qualcuno comparve pochi attimi prima che il corteo funebre si mettesse in cammino. Clara lo vide e, con un colpetto sul braccio, avvisò Ugo. Il gesto non sfuggí a Rodolfo che si lisciò il pizzetto. – Chicchirichí, – disse Fassberger riconoscendolo. – Sono venuti anche i salinieri, dunque. Chicchirichí, in un abito per qualità e fattura ben al di sopra delle possibilità di un faticatore, si era accostato rapido ad Anacleto e gli aveva bisbigliato all’orecchio poche parole.

I delitti della salina, Francesco Abate, Einaudi. Clara vive col nonno, la mamma, cinese, è morta di parto, il padre, un ufficiale della marina, è finito disperso in guerra, è una bella ragazza, ha un istinto investigativo irrefrenabile, lavora per il giornale della sua città, Cagliari, ma in quanto donna non può firmare i pezzi. Nonostante le titubanze, però, quando una sigaraia si rivolge a lei perché i piciocus de crobi, i poveri bambini del mercato, stanno inspiegabilmente e inquietantemente scomparendo giorno dopo giorno uno dopo l’altro, non sa, non può, non vuole girare la testa dall’altra parte, e… Travolgente, appassionante, potente, bellissimo.

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“Dimmi che non può finire”

di Gabriele Ottaviani

Samuele stava bene. E suo padre mi avrebbe licenziata perché gli avevo fatto marinare la scuola. Mi sembrava molto piú accettabile rispetto alle previsioni che avevo fatto per tutto il week-end. – È vero quello che mi ha riferito mia madre? – Sí, è vero, – risposi d’un fiato, comunque intenzionata a non farmi mettere all’angolo. – Spero tu abbia una spiegazione. Mi schiarii la voce. – Ero andata a scuola per controllare che stesse bene e, quando la maestra mi ha vista, ho preferito inventare una scusa e portarlo via… Mi si stringe il cuore a vedere un bambino infelice che fa ricreazione da solo come se il resto del mondo lo ripudiasse. E poi, – aggiunsi tutt’altro che intimidita, – ho approfittato per fargli fare un giro e un ripasso di matematica. Non si può passare la vita tra casa, scuola, tappeti di karate, o come si chiama, e violino! Fissavo Davide a testa alta, lui era incredulo: – Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Annuii tenendo gli occhi fermi su di lui. – Quanto alla matematica, – disse, – la maestra ha riferito a mia madre che Samuele parla dei numeri in un modo strano, tirando fuori nozioni che non si capisce dove possa aver appreso e che rischiano di confonderlo. – Non so a cosa si riferisca, – mi sforzai di celare l’ondata di orgoglio che mi aveva attraversato nell’immaginare Samuele farsi grande agli occhi degli altri con sofisticati concetti di numerologia come facevo io a undici anni, – e comunque ti assicuro che sta migliorando. Lui mi guardava allibito, come se l’idea di farmi lavorare là fosse la piú balzana che avesse mai avuto.

Dimmi che non può finire, Simona Sparaco, Einaudi. Amanda non ama vivere, e infatti da sempre non lo fa: troppo consapevole del fatto che tutto ha un termine, gioca in difesa, di rimessa, non si lascia mai andare, perché quando tiene a qualcosa la smarrisce, e non sopporta la delusione della perdita. Rinunciataria ma inconsciamente indomita, sola ma affamata di compagnia, anche se non lo ammetterebbe mai, accetta un lavoro che non le piace perché così di certo le rimarrà: occuparsi di un bambino. Il problema, se così si può definire, è che però in quella piccola anima ferita lei si rispecchia e riconosce, e non ce la fa proprio a far finta di niente… Fiabesco, lirico, commovente, è un ritratto intenso della lotta quotidiana che ognuno a suo modo compie contro la precarietà dei sentimenti e la paura di meritarsi di essere felice.

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“Lezioni di volo e di atterraggio”

di Gabriele Ottaviani

Pensate un po’ cosa viene fuori da una radice come *ank / *alg che contiene l’idea di ciò che è stretto, acuto, freddo e comprime in modo doloroso: angolo / algido / àncora / angina / analgesico / Ancona: se ci pensiamo sembra che non abbiano niente a che fare l’una con l’altra. Angolo con algido? Perché il freddo stringe. E Ancona?

Lezioni di volo e di atterraggio, Roberto Vecchioni, Einaudi. Scrittore, musicista, cantautore, professore che aiutava anche per il tramite della televisione studenti liceali a tradurre, tanto che poi il giorno dopo in classe i colleghi docenti capivano subito quale ragazzo avesse reso Tacito o Tucidide in italiano con le sue sole forze e chi avvalendosi viceversa del suo prezioso sostegno pomeridiano, compagno di viaggio nell’attuale stagione televisiva di Massimo Gramellini e Veronica Pivetti, Roberto Vecchioni ama le parole, sa usarle e sa viaggiare con loro e per loro, tratteggiando vividi ritratti. La sua raccolta di racconti è lo scrigno delle conversazioni cui si sarebbe sempre voluto partecipare, dei consigli che si sarebbe desiderato ricevere, delle emozioni che si sarebbe voluto provare: da leggere.

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“Borgo Sud”

di Gabriele Ottaviani

Era questa la mia famiglia. Rientravo il sabato pomeriggio per ricongiungermi come Adriana alla stessa radice dolorosa. Da Pescara non portavo nessuno al paese, mai un’amica, un ragazzo, mai Piero, per molto tempo. Al ponte sul Tavo passavo da sola una frontiera che divideva in due il mondo. A volte Piero ha insistito per accompagnarmi in macchina e ci salutavamo in piazza, davanti al benzinaio. Le voci sul mio fidanzato della città sono arrivate a casa. – Perché non lo fai sali’? – chiedeva mia madre. Era sempre troppo presto, anche quando una veretta d’oro bianco mi brillava all’anulare sinistro. Il giorno in cui l’ho invitato a cena la data del matrimonio era già fissata. Mio padre ha tinteggiato la sala da pranzo e la cucina, dove la tempera murale era staccata in vari punti e macchiata di unto sopra i fornelli. Mia madre ha preso un servizio di piatti al mercato del giovedí, altrimenti sarebbero stati diversi tra loro, alcuni un po’ sbeccati. Non era la porcellana bianca a cui Piero era abituato, ma risaltavano con quei colori lustri sulla tovaglia stirata e mi piacevano. Lei ha preparato le crispelle in brodo, per secondo un pollo ruspante che una contadina le aveva portato al mattino. La aiutavo con l’occhio sull’orologio, mi cadeva di mano ora una patata, ora il coltello. Ho rotto un bicchiere e i vetri sono schizzati ovunque. Poco prima dell’arrivo di Piero c’è stato un battibecco per la doccia: tutte e due ne avevamo bisogno nello stesso momento, mia madre si sentiva addosso l’odore della carne al forno. Mi ha chiesto di pettinarla e l’ho accontentata tenendo a bada il disagio per l’insolita prossimità al suo corpo. – Potevi fa’ la parrucchiera, – ha commentato alla fine e chissà cosa intendeva, gratitudine, un complimento, il richiamo a un lavoro piú utile e concreto.

Borgo Sud, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi. Borgo Sud è la zona marinara di Pescara, ed è lì che ritorna una donna in fuga, che scappa da un nemico invisibile e ignoto e porta con sé nottetempo fra le braccia un bambino. I suoi affetti più cari non sapevano nemmeno che lei fosse sul punto di diventare madre, ma non è solo quella che tiene al seno l’unica nuova vita che l’attende: Donatella Di Pietrantonio, con scabra solennità, si candida ai più importanti riconoscimenti con una storia di passioni connotata con dovizia di dettagli e resa maestosa e maiuscola dalla caratterizzazione di personaggi formidabili.

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“Flashover”

di Gabriele Ottaviani

Il lapillo, con un passato all’interno del vulcano, di cui nessuno si ricorda; il lapillo istantaneo, marginale, disinteressato agli altri, al proprio destino di personaggio, vive senza rendersene conto; forse gli è concesso di guardarsi mentre brucia, ma non ha le parole per descrivere la propria condizione, la propria patologia, ammesso che ne esista una, ammesso che tutto non derivi dall’inconveniente di essere materia; brucia nel cielo per poi ricadere al suolo, detrito da smaltire, avanzo della realtà, minuzia da riutilizzare. Il lapillo raffreddato è friabile, inerte, poroso, mineralizza il suolo, nutre il terreno, rigenera la sostanza organica. Indistinguibile nella sua piccolezza, eppure proprio per questo suo carattere microscopico, il lapillo non giunge forse a parlarci del tutto, a manifestarsi come assoluto? Cosa faremmo, noi piccoli lapilli, al suo posto? Non ci saremmo mai indebitati? Non avremmo comprato una Bmw? Avremmo mai bruciato la Fenice? Andremmo alla polizia per costituirci? Continueremmo la vita di sempre? Fuggiremmo? Come si comporta, il cugino padrone, davanti alla Fenice in fiamme? Come si comporta, Enrico Carella, davanti alla Fenice in fiamme? (Compiamo sempre gli stessi gesti modulati attorno a piccolissime variazioni; ciononostante, crediamo ogni volta di fare qualcosa di nuovo; crediamo alle nostre menzogne, siamo privi di esperienza, impreparati all’esito dei nostri gesti abitudinari; a maggior ragione, siamo impreparati se arriviamo a bruciare un teatro per la prima volta, un gesto che, in fondo, può essere visto come qualcosa di anomalo, eccezionale, criminale, oppure come una variante alla fine di una giornata di lavoro; e tuttavia, una parte di noi è inquieta, cerca nell’esperienza altrui, reale o romanzesca, un aiuto, uno svelamento).

Flashover – Incendio a Venezia, Giorgio Falco, Einaudi. Impreziosito ulteriormente da una magnetica copertina e dalle evocative fotografie di Sabrina Ragucci, il volume di Falco, che trascende ogni catalogazione tassonomica, prende le mosse dall’incendio del Teatro La Fenice di Venezia, accadimento che ancor oggi a distanza di lustri e lustri fa sensazione e s’imprime nella memoria e che, nell’anno del Signore millenovecentonovantasei, nella sera del ventinove di gennaio, distrusse un vero e proprio gioiello artistico e culturale: il flashover è per definizione un fenomeno di combustione in cui il materiale combustile contenuto in un’area chiusa si incendia quasi contemporaneamente, in conseguenza di un focolaio iniziale, il punto di non ritorno, l’istante irripetibile di transizione fra un incendio in crescita e uno ormai avviato, la temperatura è altissima, il fuoco ha raggiunto la totalità delle superfici disponibili, ogni cosa brucia uniformemente, così come equamente e mirabilmente distribuita è la potenza del racconto di Falco, ed è la dinamica che ha caratterizzato l’evento nella città della laguna, scaturito da una scintilla ben più infida di quella pur devastante del fuoco, quella della superbia e della miseria degli uomini. Da non perdere.

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“Il danzatore dell’acqua”

di Gabriele Ottaviani

Mi hai salvato da un’unione con un uomo come quello e da tutti gli orrori che ne sarebbero derivati…

Il danzatore dell’acqua, Ta-Nehisi Coates, Einaudi, traduzione di Norman Gobetti. Meraviglioso sin dalla copertina, il romanzo è la storia di Hiram, diciannovenne, nato schiavo, che vive da sempre nella piantagione il cui proprietario è il suo genitore biologico, ché i padri sono un’altra cosa, e quello invece è solo l’uomo che, come sovente accadeva a quel tempo e in quei contesti, dove l’uso e l’abuso, la potenza e la prepotenza erano all’ordine del giorno, ha messo incinta sua madre e poi l’ha venduta, tanto che Hiram non ricorda alcunché o quasi della donna che l’ha messo al mondo: un giorno Hiram però viene gettato in un fiume, e così scopre di avere un dono. Un dono che è sinonimo di potere, possibilità, speranza, autodeterminazione, rivalsa, riscatto, indipendenza, libertà, rivincita, rivolta, ribellione, giustizia, per sé e per il suo popolo. Epico, lirico, magnetico.

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“Via delle Magnolie 11”

di Gabriele Ottaviani

Sono arrivati in via delle Magnolie 11, e Gabriele si appunta il numero e se ne va.

Via delle Magnolie 11, Stefania Bertola, Einaudi. Stefania Bertola è autrice accattivante e intelligente, dalla prosa sapida e policroma: la serrata generale dovuta al Covid ha ulteriormente stimolato la sua già fervida fantasia, che quindi conduce con mano sicura il lettore in un irresistibile e irrealistico, ma al tempo stesso assai concreto e credibile, nella sua follia (e c’è forse qualcosa da cui al momento siamo più circondati?), paesaggio urbano popolato da personaggi meravigliosamente inquietanti e inquietantemente meravigliosi, i Boscolo, una famiglia davvero fuori dal comune, pressoché tutta residente nella palazzina all’indirizzo che dà il titolo al libro, dove hanno luogo le loro vicende fatte di amori clandestini, detective che si travestono da palma, donnaioli impenitenti, segreti inconfessabili che però ognuno conosce a suo modo, dispetti, impicci, imbrogli, piccinerie, meschinerie, mezzucci, goliardie, insospettabili slanci d’affetto e generosità, bugie talmente articolate da diventare più vere del vero e perfino gare truccate e omicidi fittizi… Come l’acqua per chi ha sete.

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“Tempi duri”

di Gabriele Ottaviani

Il Generalissimo le manda a dire anche un’altra cosa…

Tempi duri, Mario Vargas Llosa, Einaudi, traduzione di Federica Niola. Il potere, si sa, logora. Specialmente chi non ce l’ha. Ma il potere è soprattutto un belletto. Un trucco. Un inganno. Una beffa, sovente crudele. Il potere è la biacca che travisa il pagliaccio, i cui lineamenti artificiosamente iperbolici celano un’anima melanconica. Il potere si nutre di menzogna, vive di celebrazione: in una parola, esiste solo finché c’è la propaganda che ne irrobustisce le membra. Il potere è finzione. La propaganda è finzione. La narrazione è finzione. Ma può prendere le mosse dalla verità. Ed è questo che fa Vargas Llosa, che ambienta questo romanzo in un passato più attuale che mai, visto che ormai le notizie false e tendenziose sono, purtroppo, le uniche che vengono lette, dato anche che, poiché il potere, sempre lui, ha scientemente eroso in misura via via maggiore il senso critico, le possibilità di accesso alla cultura e la formazione del popolo, gli strumenti in mano alle persone, che hanno sempre meno voglia di impegnarsi e di prendersi delle responsabilità e desiderano viceversa sempre più evadere dalla quotidianità lasciando che qualcun altro si dia da fare al loro posto, sono arnesi spuntati e inservibili: il cardine, il primo motore niente affatto immobile, la testimone è Marta. Bella, anzi bellissima. Eccentrica, anzi eccentricissima. Appassionata, anzi appassionatissima. Di politici in generale, di dittatori, in particolare. Nell’anno del Signore millenovecentocinquantaquattro un pubblicitario senza scrupoli e un industriale altrettanto immorale e inoltre dal portafogli ben gonfio mettono in giro una fola: la conseguenza è nientedimeno che un colpo di stato. Infatti cosa c’è di più efficace che far nascere una paura? E quale paura ottiene risultati migliori di quella che mettono i comunisti trinariciuti e mangiabambini? Se poi a occuparsi dell’aspetto pratico c’è la Cia… La United Fruit Company – la futura Chiquita – è un’azienda che va a gonfie vele, anche perché con la complicità di tiranni corrotti sfrutta da anni terre e contadini dell’America centrale, col risultato che in tutto il mondo ormai le banane sono un elemento della dieta quotidiana. Peccato che, evidentemente ignaro del fatto che chiunque abbia tentato una riforma agraria, sin dai tempi dei Gracchi, abbia fatto una fine pessima, perché a nessun privilegiato piace cedere parte dei suoi appannaggi, il governo guatemalteco abbia avuto l’ardire di mettersi in testa di voler redistribuire in maniera meno iniqua la ricchezza. E… Impeccabile e imprescindibile, una prova magnifica di un grandissimo maestro.

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