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“Qualcosa di nuovo sotto il sole”

di Gabriele Ottaviani

Nella storia del consumo dell’acqua ci sono alcune cose che cambiano, ma una rimane sempre la stessa: in epoca contemporanea come in passato l’uomo ha usato l’acqua principalmente per l’irrigazione…

Qualcosa di nuovo sotto il sole, John R. McNeill, Einaudi, prefazione di Paul Kennedy, traduzione di Piero Arlonio. Messa da parte a causa della pandemia che fa facendo strage di donne e uomini, la questione ambientale in realtà non si è risolta, e anzi è tutto collegato: viviamo in un pianeta che abbiamo fatto e continuiamo a far ammalare, e ne paghiamo le conseguenze. Il saggio, maestoso, autorevolissimo, splendido a leggersi di McNeill, che verga di suo pugno anche una nuova introduzione per quest’occasione specifica, in cui possiamo leggere come siano state tradite tante promesse, e si continuino a sciupare il tempo e il progresso tecnologico, ricchezze parimenti inestimabili, racconta, come il sottotitolo sintetizza perfettamente, la storia dell’ambiente nel Novecento. Impeccabile e imperdibile.

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“Un cuore sleale”

di Gabriele Ottaviani

Il più giovane dei Proietti aveva tentato il suicidio…

Un cuore sleale – Un caso per Manrico Spinori, Giancarlo De Cataldo, Einaudi. Sì, è vero, ama il melodramma, ma la tristezza di una Roma fredda è umida con il Natale alle porte fa venire troppa malinconia persino a lui, il pm dall’animo gentile e dall’impareggiabile acume investigativo, che sa scavare con profondità nell’anima di chi ha di fronte, e nei meandri torbidi delle storie criminali che per lavoro indaga in cerca della verità. Come il caso del palazzinaro con le mani in pasta un po’ dappertutto morto annegato durante una disgraziata gita in barca con la famiglia: è credibile che si tratti davvero solo e soltanto di un tragico incidente? Splendido sin dalla copertina, da non perdere.

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“L’uomo con la vestaglia rossa”

di Gabriele Ottaviani

«Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, sempre che non ne sia innamorato». Questo bel paradosso del porte-parole di Wilde, Lord Henry Wotton, non valeva per il rapporto fra Samuel Pozzi e sua moglie Thérèse – a meno che non si voglia dare una nuova definizione alla parola «felice», intendendola come «capace di muoversi bene nella società». Ma a un certo punto, alla fine del secolo, Pozzi incontra Emma Fischoff, con la quale – tutto lo farebbe presupporre – potrebbe essere felice. Nata a Vienna, Emma Sedelmayer era la figlia di un mercante d’arte di Parigi il quale, fra i tanti, aveva esposto anche Sargent. Di sedici anni piú giovane di lui e anche lei con tre figli – per combinazione due maschi e una femmina come il medico –, Emma era una donna colta, sicura di sé, ricca e appassionata di acquisti intellettuali e decorativi. Il marito Eugène, anche lui ebreo, anche lui nato a Vienna, era membro del Jockey Club e proprietario di Dandolo, uno dei cavalli da corsa piú famosi di Francia. Il nome derivava da un doge veneziano il quale, durante il saccheggio di Costantinopoli del 1204, aveva spedito a Venezia i cavalli di bronzo che da allora adornano la basilica di San Marco – fatta eccezione per il periodo in cui, sottratti da Napoleone, rimasero a Parigi dal 1797 al 1815. Per qualche anno Pozzi aveva viaggiato da solo per motivi di lavoro o per piacere, ma anche in compagnia di qualche amico; come quella volta, nel 1896, quando Colette lo aveva riconosciuto a Bayreuth in compagnia del poeta Catulle Mendès. L’anno dopo, tuttavia – giusto per renderci piú difficile la lettura di quel suo matrimonio –, aveva portato Thérèse a Bayreuth a vedere il Lohengrin. Catherine, la figlia quindicenne che amava la musica e invano li aveva pregati di portarla con loro, non era felice – infastidita di essere trattata come una bambina quando era già una jeune fille.

L’uomo con la vestaglia rossa, Julian Barnes, Einaudi, traduzione di Daniela Fargione. Il dandy vergognosamente bello che l’attrice Sarah Bernhardt, una delle tante donne da lui curate e amate, appellò come Doctor Dieu, e che fa splendida mostra di sé nel celebre dipinto di John Singer Sargent, è il dottor Samuel-Jean Pozzi, intraprendente figlio di un pastore di provincia che diviene, grazie a pionieristiche intuizioni e formidabili abilità, il ginecologo di fama chiarissima e internazionale (quando nel milleottocentoottantacinque si reca a Londra insieme al conte Robert de Montesquiou-Fezensac e al principe Edmond de Polignac tutti pendono dalle sue labbra, e il trio, decisamente vario nell’assortimento – basti solo pensare al fatto che gli altri due sono aristocratici e gay –, è il più richiesto nei salotti à la page) dell’alta società della Parigi della frenetica, violenta, decadente, narcisista, erotica, nevrotica, irresistibile Belle Époque, in cui con maestria sopraffina, fra falso, vero e verosimile, fra Gustave Flaubert e Oscar Wilde, fra Edmond de Goncourt e Marcel Proust, al cospetto di Henry James, Richard Wagner, Paul Valéry, Dante Gabriel Rossetti, Alma-Tadema e tanti altri, Julian Barnes, come l’Allen di Midnight in Paris, ci conduce e fa sognare, inducendo alla riflessione sulla complessità della condizione umana. Mirabile.

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“La biblioteca”

di Gabriele Ottaviani

Il problema non è la simmetria in sé ma il modo in cui veniva usata nella progettazione Beaux-Arts. Si tendeva a trattare i progetti come opere d’arte in sé, come schemi astratti vergati sulla carta, non raffigurazioni di edifici veri e propri. In realtà non ha importanza se una stanza dall’altro lato dell’edificio non ha le stesse proporzioni di quella in cui mi trovo. Come ha dimostrato Wren con la sua architettura, non si possono vedere i due lati opposti di un edificio nello stesso momento. Tuttavia, in una planimetria ciò sembrerebbe un errore. Raramente in un edificio ci sono elementi doppi: una casa non ha bisogno di due cucine, e di rado una biblioteca ha bisogno di due sale di lettura identiche. Fin troppo spesso la progettazione Beaux-Arts diede vita a biblioteche in cui i bibliotecari lavoravano in ambienti sempre meno pratici, che avevano un bell’aspetto sulla pianta ma non erano funzionali nella realtà. Ecco la tirannia della pianta simmetrica. Un bravo progettista, al contrario di uno incapace, sapeva quando e come spezzare la simmetria.

La biblioteca – Una storia mondiale, James W. P. Campbell, Einaudi. Fotografie di Will Pryce. Traduzione di Luigi Giacone e Chiara Veltri. Le biblioteche sono giardini segreti aperti a tutti, posti fisici e dell’anima, perché il cuore lì si bea, ne è pieno il mondo e anche se ora la pandemia le ha rese invisitabili sono monumenti alla conoscenza e alla speranza, posti amati dove non si vede l’ora di tornare (del resto si torna sempre lì dove si è stati bene, e non si può star male in mezzo all’arte, ai libri e al sapere, proprio perché l’arte, i libri e il sapere esistono per far star bene). Campbell e Pryce ne hanno visitate più di ottanta in giro per il mondo, le hanno fotografate, ritratte, raccontate, spiegate, descritte. E con questo libro prezioso, dotto e divulgativo, stupendo ed elegantissimo, che per certi versi ricorda il sublime documentario di Wiseman, Ex Libris, fanno vivere a tutti i lettori l’esperienza di un viaggio all’interno del luogo del sapere, della cultura, della conoscenza, della bellezza: del resto c’era chi desiderava il principe azzurro e poi Belle, che capisce subito che non può essere una Bestia la creatura che le fa dono dell’accesso a tutti quei volumi, fonti zampillanti fresca e sempre nuova sapienza. Le biblioteche sono promesse, simboli e testimonianze di salvezza, bellezza, libertà, sono luoghi e non luoghi, sono silenziosi eppure pieni di vita, fanno bene al cuore, come i sogni, con cui condividono la natura. Sublime.

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“Jena 1800”

di Gabriele Ottaviani

Caroline stenta a crederlo. Ma forse per la prima volta nella sua vita ha la sensazione che sia per sempre. Dorothea Caroline Albertine, nata Michaelis, vedova Böhmer, separata Schlegel, risposata Schelling. Questo cognome non deve cambiare, non cambierà. Il matrimonio con Schelling è stato celebrato alla presenza dei parenti piú stretti. Alla fine del maggio 1803 – soltanto alcuni giorni dopo la separazione da Wilhelm – i due sono venuti qui, a Murrhardt nella regione del Württemberg, dove già un mese dopo li ha sposati il padre di Schelling, Friedrich Joseph Schelling, appena nominato prelato. In viaggio verso la Svevia hanno fatto tappa a Bad Bocklet per recarsi nel cimitero del villaggio e ricevere la benedizione di Gustel. La separazione da Wilhelm non è stata facile per Caroline. Entrambi sapevano però di essere d’intralcio alla felicità propria e a quella dell’altro. Non sono mai stati l’uno per l’altra quel che volevano. Neppure Wilhelm, anche se le è stato sempre accanto. Impossibile darsi all’altro completamente, con amore incondizionato. E intanto sono di nuovo passati al «lei» nello scambio epistolare. Devono però continuare a essere amici. Caroline e Wilhelm volevano la separazione – il piú rapidamente possibile, del tutto indifferenti a cosa ne pensasse il mondo. Vogliono fare ciò che ritengono giusto. A tal fine però hanno bisogno del consenso del duca, e questo è difficile da ottenere, poiché non ci sono motivi né legali né morali per la fine del matrimonio. Fortunatamente viene in loro aiuto un altro caso, per il quale di recente il concistoro si è pronunciato favorevolmente: Sophie Mereau si è separata dal professore di diritto di Jena Friedrich Ernst Carl. Lei aveva infatti conosciuto lo studente di medicina Clemens Brentano, che invece di preparare cadaveri di buon mattino preferiva coltivare le sue inclinazioni letterarie, frequentava i pranzi organizzati da Caroline e nel pomeriggio andava con piacere a far visita a Sophie Mereau, mentre suo marito era nell’aula universitaria. Una relazione amorosa non priva di conseguenze. A un certo punto entrambi hanno voluto la separazione…

Jena 1800 – La repubblica degli spiriti liberi, Peter Neumann, Einaudi, traduzione di Rossana Lista. Classe millenovecentoottantasette, poeta pluripremiato, insegnante e dottore di ricerca, specializzato nell’ambito dell’idealismo tedesco, formatosi tra Copenhagen e Jena, forse in assoluto uno fra i più prestigiosi atenei che esistano, dov’è docente e dove si è realizzato l’incontro fra i teorici del romanticismo e non solo, Peter Neumann ci conduce con mano sicura in mezzo a un flusso ininterrotto di giovani intellettuali e poeti che, in un romito borgo della Turingia, fa letteralmente la storia: incantevole.

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“La città dei vivi”

di Gabriele Ottaviani

Piú di una volta Luca mi ha confidato che Marco gli stava antipatico. Era un ragazzo educato, sveglio, molto gentile e umile. Credo che si prostituisse perché aveva bisogno di soldi, non certo per piacere. Piú di una volta mi ha cercato per chiedermi un prestito. Piú di una volta ho esaudito le sue richieste, gli davo dai venti ai trenta euro. A volte mi chiedeva direttamente centocinquanta euro e poi abbassava la pretesa. Lasciava intendere che mi avrebbe ricompensato sul piano sessuale. Spesso diceva che i soldi gli servivano per portare a cena la ragazza. Mi faceva davvero tenerezza, mi ci ero quasi affezionato nonostante l’avessi visto poche volte. Diceva che era molto legato a questa ragazza, credo stessero insieme da quando erano piccoli. Se Marco ha detto che gli prestavo i soldi per paura si sbaglia. Non ho mai avuto paura di Luca Varani. Sí, è vero, credo spacciasse. Già le prime volte che l’ho visto mi ha detto che se avessi voluto trovare della coca migliore di quella che portava Trovajoli, avrei potuto chiedere a lui. Si sarebbe rifornito da un fantomatico tizio che lavorava ne ll’ambiente. Chissà se è vero. Non mi sono mai rivolto a lui per comprare della coca. Ogni tanto Luca veniva accompagnato da questo Filippo. Anche Filippo si è offerto di vendermi della sostanza stupefacente, ho sempre rifiutato. Ho regalato a Luca un Rolex. Un Rolex falso, di mio padre. Lui lo guardava, allora gliel’ho dato. Dai, prendilo, ho fatto. Naturalmente gliel’ho detto che era una patacca. Lui non ha fatto una piega. Secondo me ci posso fare qualche soldo, ha detto. «Ragazzi, io faccio tutto ma sono attivo. Su questo è sempre stato chiaro, – disse Marco Prato al dottor Scavo, – lui poteva penetrare me, io potevo praticare una fellatio a lui, potevo leccarlo dalla testa ai piedi, lui poteva urinarmi addosso, poteva farmi un sacco di cose – il sesso ha delle sfumature infinite – però non l’avrebbe mai preso in bocca, e non si sarebbe fatto mai sodomizzare. Era proprio categorico. Credo che in questo modo tracciasse la linea che separava la sua vita normale dalla sua vita segreta, e conservasse ai propri occhi la sua eterosessualità. Purché il confine tra attività e passività non venisse superato, insomma, Luca poteva continuare a frequentare la sua ragazza da eterosessuale».

Poteva capitare a chiunque, una sera, di incontrare uno di loro in un locale qualsiasi, magari per un evento da lui organizzato. Poteva capitare a chiunque di fare due chiacchiere, di scambiarsi il numero, di chattare, di vedersi. Poteva capitare a chiunque persino di finire a letto, anche se si è sempre pensato di essere eterosessuali, anche se va bene tutto basta che non si sappia, basta che non si dica in giro, basta non fare niente da passivo, perché se lo dai vuol dire che comunque sei un uomo, un maschio, che fa il suo dovere, ma se lo prendi… Del resto, il più delle volte sono sposati, quelli che cercano carne fresca e maschile in chat e non solo… Poteva capitare a chiunque di voler fare qualche soldo facile, e di trovarsi in mezzo a un’orgia, o in un mare di guai, o sul tavolo dell’obitorio, per superficialità, per distrazione, per vizio, per impotenza, per la rimozione di una parte di sé che trova sfogo nell’aberrazione perché non si è saputo, potuto, voluto affrontare la questione a viso aperto. Poteva capitare a chiunque, anche a chi non manca niente, perché forse gli manca un tutto che non sa nemmeno definire, per la curiosità di quel che appare proibito. Le cose non capitano sempre agli altri, ai diversi, agli sbagliati, le cose non sono lontane da noi, noi siamo le cose, immersi in un mondo che non ha nulla di iperuranico: è un caso vero di cronaca nerissima quello da cui prende le mosse per tornare trionfalmente sulla scena della narrativa propriamente detta Nicola Lagioia, autore di un’opera al fulmicotone, deflagrante, straziante, ferocemente lirica come Yanagihara e solo pochi altri hanno saputo di recente essere. La città dei vivi, per Einaudi, è un interrogatorio alla soglia della nostra coscienza individuale e collettiva, un’inchiesta incalzante nei meandri del pregiudizio e dell’ambiguità morale, un’immersione totale nella neghittosa banalità del male che avviluppa la nostra società che, sempre più precaria, rabbiosa e invidiosa, anela sopra ogni altra cosa definirsi a gran voce normale: disturbante, solenne e tragica, sublimata pur nel descrivere l’abietto, mai giudicante, necessaria. Da non perdere.

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“Noi, i sopravvissuti”

di Gabriele Ottaviani

In questi giorni spesso dopo cena vado a fare una passeggiata nei dintorni…

Noi, i sopravvissuti, Tash Aw, Einaudi, traduzione di Anna Nadotti. Anche se geograficamente la distanza è davvero risicata, in realtà quei pochi chilometri che separano il lussureggiante, povero e selvaggio villaggio malese dove vive Ah Hock dalla capitale Kuala Lumpur, scintillante di vetro e acciaio, sembrano una sorta di muro di Berlino, impermeabile cesura tra due inconciliabili Weltanschauung: al tempo stesso però un diverso benessere sembra essere possibile, purché non si tema di darsi da fare. Né di sporcarsi le mani, se qualcuno minaccia di strapparti via da esse le chiavi per spalancare la porta del tuo sogno: pare di imbattersi nell’Edipo che uccide Laio all’incrocio leggendo il tragico inno di Tash Aw all’istinto di sopravvivenza. Deflagrante.

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“Il fratello”

di Gabriele Ottaviani

Se l’autista avesse visto quello che avevo visto io probabilmente non lo avrebbe fatto…

Il fratello, Jo Nesbø, Einaudi, traduzione di Eva Kampmann. Carl ha abbandonato il paesino dove è rimasto Roy con la sua stazione di servizio e per lungo tempo non è giunta lì altro che l’eco dei suoi successi. Ora però eccolo di nuovo laddove tutto è cominciato con un grandioso progetto che, come già in passato, gli metterà contro gli altri, da cui Roy, il fratello, non potrà fare a meno, ancora una volta, di proteggerlo. anche se questo significa riscoperchiare il vaso di Pandora di uno scomodo passato… À bout de souffle.

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“Groppi d’amore nella scuraglia”

di Gabriele Ottaviani

Lu gatto gattaro dorme sempre…

Groppi d’amore nella scuraglia, Tiziano Scarpa, Einaudi. Alla terza edizione, rinnovata da più punti di vista, e integrata con un inedito, la saga comica, lirica e simbolica, piena di temi, livelli di lettura, chiavi di interpretazione, reminiscenze, riferimenti, suggestioni e rimandi, che vede protagonista Scatorchio, che parla come se Brancaleone avesse incontrato Basile e insieme avessero scritto il placito capuano, per fare dispetto al suo rivale in amore collabora col sindaco del suo paese affinché la località si trasformi in una vera e propria discarica, torna più sfavillante che mai nella sua genialità linguistica, quella di una lingua dialettale, e dunque lessico d’emozioni altrimenti inesprimibili, primitiva, scabra e seducente attraverso cui le relazioni tra viventi, al di là del tempo e dello spazio, compongono la trama raffinata di una solenne preghiera universale.

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“Lockdown”

di Gabriele Ottaviani

Quindi secondo te quei ragazzi dicevano la verità?

Lockdown, Peter May, Einaudi, traduzione di Alessandra Montrucchio e Carla Palmieri. Era troppo inverosimile, secondo gli editori cui lo propose dopo averlo scritto quindici anni fa, per essere pubblicato: chi crederebbe mai, dicevano, a un giallo dal ritmo travolgente ambientato in una Londra in stato di emergenza in cui si deve stare segregati in casa se si vuole fare del bene a sé e agli altri e si lotta contro il tempo per costruire un ospedale che dia ricovero ai migliaia di infetti in continuo aumento a causa di una pandemia? Ecco, appunto… La realtà supera la fantasia, il talento valica la tecnica, pur presente: ottimo.

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